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sabato 26 ottobre 2013

75. La pastorella impertinente


Questa storia è vera e si svolge all’inizio degli anni ’30 in un pesino dell’Appennino emiliano. Racconta di una pastorella astuta che non voleva proprio andare a pascolare le pecore.
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Emergo con fatica da un sonno profondo. Sento, ovattata, la voce di mia madre che cerca di svegliarmi scuotendomi leggermente, ma il suo movimento mi culla e mi fa sprofondare di nuovo nel sonno. Allora, mi prende in braccio e mi porta in cucina, io piagnucolo come ogni mattina. Per acquietarmi mi dice: «Dai Tina, ti ho preparato un bel bicchiere di latte che ho appena munto per te». Sa, infatti, che è il solo modo per farmi accettare questa levataccia in un ambiente così freddo che richiede una forza di volontà disumana per uscire dalle calde lenzuola. «Le tue amiche sono già pronte, ti aspettano», aggiunge. Continuo a frignare, ma so che non ho altra scelta, è l’alba ed io devo andare fuori  e raggiungere le mie dolci, tenere, deliziose pecorelle, che in effetti sono le mie carnefici.

venerdì 8 marzo 2013

70. Il matto del paese



Ogni paese ha sempre avuto il suo personaggio eccentrico, sopra le righe e, talvolta, proprio matto. Una persona che tutti conoscevano, evitavano o aiutavano a seconda  della sua personalità. Anche attraverso questo racconto si intravvede la vita paesana del tempo che fu.  La storia del pazzo,  che ci racconta lo scrittore Vincenzo Rossi, si è svolta nel periodo fascista a Cerro al Volturno (nella foto), in provincia di Isernia, ed è davvero inconsueta: ogni notte egli svegliava i paesani facendo un fracasso infernale, fino a quando…

Lorenzaccio, il pazzo di Cerro al Volturno            di    Vincenzo Rossi

Di solito, tra l’una e le tre di notte, Lorenzaccio il Pazzo, svegliatosi nel suo pagliaio di Cincinuso, veniva a scuotere il paese con i suoi colpi di martello. Alla Pianuzza indossava l’armatura, conservata in una grotta: infilava la testa in un secchio al quale aveva attaccato quattro corna di bue, due davanti e due dietro, si legava intorno al corpo due lastre di zinco, una avanti e una dietro, tenute da fili di ferro alle spalle e ai fianchi; s’infilava nelle narici due lunghe penne di tacchino; impugnava un grosso martello di legno e raggiungeva in silenzio le prime case. Qui attaccava a battere se stesso e quanti oggetti riteneva potessero rispondere al suo musicale desiderio: canaloni, ringhiere, pali, tubature, ecc. Le prime notti che scoppiò quel fracasso, molti  si alzarono, scesero a osservare la fonte dell’indesiderata orchestra, lo minacciarono, gli fecero promesse, ma nessuno riuscì a convincerlo di smetterla. Puntualmente nel cuore della notte riappariva, percorrendo  il paese due volte, in salita e in discesa. A poco a poco le orecchie si assuefecero e c’era chi non avvertiva neppure l’arrivo di Lorenzaccio, che con i colpi faceva tremare tutte le ringhiere alle quali giungeva il suo martello. Io ne sentivo l’arrivo ai piedi del paese dal pagliaio di Arcangiancalla, o dalle Aie.

lunedì 11 febbraio 2013

69. LA FONTE DEL PAESE e le sue storie




Quando l’acqua non arrivava nelle abitazioni, la fonte era il luogo d’incontro più importante del paese perché almeno un membro della famiglia  vi andava, ogni giorno,  ad attingere l’acqua che sarebbe servita non solo per dissetare, ma anche per tutte le altre attività familiari come cucinare, lavarsi e lavare.
Il racconto poetico che segue è dello scrittore molisano Vincenzo Rossi  - che ringrazio per avermi permesso di mettere sul blog –  e che ci fa comprendere con vividezza  come la fonte, verso l’imbrunire, diventasse per il paese una agorà dove le donne si incontravano, discutevano e, perché no, litigavano anche. Ma bastava un bel cocomero per rappacificare tutti.  Siamo negli anni ’30 del secolo appena passato, a Cerro al Volturno (Molise), ma poteva accadere in qualsiasi  altro paesino d’Italia…  
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La vecchia fonte, non più luogo di vita     di   Vincenzo Rossi*
Avvolta da profonda tristezza, di giorno e di notte, quasi non si riconosce. Le selci scavate dai ferri di muli e cavalli sono ricoperte da uno strato di terriccio dal quale traggono vita rigogliosi ciuffi di falasco; i solchi di scolo, ripieni d’acqua putrida, immobili, assorbono la luce sfuggita alle ginestre e ai rami inselvatichiti dei pioppi; i muri di cinta, che l’hanno in qualche modo protetta dal terreno franoso, ancora la rilevano nella sua forma rettangolare e le consentono di dissetare le bocche che le fanno visita. L’ampia pietra scalpellata, che ne copre la vaschetta dalla quale fuoriesce l’acqua, è la sola a ripresentarsi agli occhi, avidi di leggervi le tracce del tempo, quasi come allora. Una lieve patina ne offusca l’antico splendore.