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domenica 7 giugno 2009

11. Come pungevano le maglie di lana di pecora!


di Mariolina Perpetua
Negli anni ’50 gli inverni furono lunghi e freddissimi. Nel ’54 e nel ’56 abbondantissime nevicate imbiancarono ripetutamente i paesi del Molise, impedendo la circolazione o rendendola difficoltosa. Cumuli di neve a lungo fiancheggiarono le strade, dopo il passaggio degli spazzaneve, lenti e pesanti. Il transito avveniva solo con catene e avventurarsi su uno spesso strato di ghiaccio fu consuetudine per molti giorni. Le precipitazioni furono tali che anche l’attività scolastica venne interrotta.
Il ricordo dell’infanzia è sempre dilatato, ma le nevicate di quegli anni sono proverbiali. Oggi, per le mutate condizioni atmosferiche, non si verifica niente di simile.

Ciò di cui vorrei parlare, però, non è tanto dell’inclemente stagione invernale, quanto del freddo che essa comportava e dei sistemi con cui si era soliti difendersi. La sensazione fastidiosa delle maglie di lana di pecora è ancora viva: la cardatura della lana, infatti, non era raffinata e le impurità diventavano, sulla pelle, piccolissimi aculei. La lana stessa con cui erano realizzate le maglie intime, le sottovesti e spesso anche le calze, era grezza. Solo ripetuti lavaggi rendevano quegli indumenti più sopportabili. Ogni cambio di maglia nuova, pulita, era una vera tragedia. Tuttavia, riuscivano allo scopo, quello di far fronte al freddo e all’umidità del mio paese Carpinone, sito in montagna (m. 657 l/m nel punto più basso - la stazione ferroviaria -) ed attraversato dal fiume Carpino.

La lana era lavorata nel mio stesso paese da un opificio a conduzione familiare, che provvedeva alla filatura della materia prima, alla cardatura, alla ritorcitura e alla confezionatura della lana appena tosata. La materia prima, sebbene in piccola percentuale, era fornita dagli stessi contadini che affiancavano al lavoro dei campi l’allevamento ovino. Risuonano ancora nelle orecchie il ticchettio della macchina e la spola che torna indietro. Qualche volta mi sono affacciata nel buio locale e ricordo di aver visto fusi di lana grigiastra, intrisa di olio. A lavoro concluso e prima della lavorazione, la lana, ridotta in matasse, veniva sciorinata al sole, dopo essere stata lavata e sbattuta sul greto del fiume.

Gli indumenti intimi erano, dunque questi, per tutti. Anzi, gli uomini indossavano lunghi mutandoni, sotto i pantaloni. Era facile, a quei tempi, vedere le donne sferruzzare sull’uscio di casa durante la buona stagione. Confezionavano gli indumenti di cui ho appena accennato, spesso disfacendoli per farne nuovi, adatti ai rampolli in crescita. La perizia era tale che le contadine, tornando dal lavoro dei campi, avevano tra le mani piccoli ferri, generalmente quattro, adatti soprattutto a realizzare calze; calze che duravano una vita, rattoppate, allungate, allargate.

Gli indumenti della mia famiglia, erano, invece, confezionati da brave magliaie. Solo negli anni di scuola media, potei indossare maglie di lana Borgosesia, sempre a manica lunga, rosa o beige, confortevoli, soffici, piacevoli al contatto della pelle. Piccoli aggiustamenti erano affidati a mia nonna, abbastanza capace di rifacimenti e rammendi. Col tempo, durante gli anni ’60, grazie anche al riscaldamento degli ambienti, gli indumenti divennero più leggeri, più eleganti e raffinati. Oggi, realizzati in tessuti sempre più nuovi e ricercati, non mancano di gusto e di raffinatezza.

mercoledì 27 maggio 2009

9. Quando le maestre dovevano raggiungere la scuola a piedi....




Il caval di S. Francesco di Mariolina Perpetua

Altri tempi! Altri tempi evocano ricordi, situazioni, oggetti… Ricordi, soprattutto.. Un nodo mi stringe la gola. Non ci saranno più l’infanzia dei miei figli, mai abbastanza vissuta, o l’attesa per un ritorno tanto desiderato; non torneranno le feste in famiglia tra il fragore dei bimbi e con tanta gioia di essere insieme; non ci saranno più il sorriso incoraggiante di mia madre, la tranquilla serenità di mio padre.
Altri tempi!
***°°°***

Il ricordo più vivo e più forte è legato alla mia infanzia, alle attese che dividevo con mia sorella Margherita, di 5 anni più piccola di me, per il ritorno di mia madre da scuola.
Mia madre, infatti, insegnava a Casale di Castelpetroso, paese distante dal mio, Carpinone, cinque o sei chilometri. La sede scolastica era più a valle e un po’ più vicina, a tre chilometri e mezzo. Tutte le mattine ella usciva di casa di buon’ora, non più tardi delle sei, e raggiungeva la periferia con la speranza di poter salire sul pullman di linea, unico, che proveniva da Agnone e proseguiva per Campobasso. –
Negli anni ’50 era quella la sola strada possibile per i paesi dell’Alto Molise che dovevano raggiungere il Capoluogo. - Mia madre, il più delle volte, aspettava inutilmente. Il pullman, troppo carico di passeggeri e di masserizie, non sarebbe ripartito se si fosse fermato: dopo il Ponte Nuovo, doveva affrontare la salita verso Castelpetroso per riscendere dall’altro versante e proseguire per Campobasso. Molto improbabile raggiungere la scuola con il mezzo pubblico quando nevicava. Tra l’altro, la fermata per andare a Casale di Castelpetroso era egualmente in salita. Per farla breve, soprattutto d’inverno, mia madre segnava i primi passi sulla coltre bianca che ricopriva indistintamente strada e campi, su cui si intravedevano solo tracce di animali.
Ricordo, proprio in quegli anni, abbondanti nevicate ed un freddo intenso. Mia madre percorreva prima la provinciale, poi il sentiero campestre che si inerpicava fino al casolare. Spesso le era stato riferito dell’avvistamento di lupi ed invitata a fermarsi dalle persone, divenute ormai familiari, che le offrivano affettuosa ospitalità ed un locale, adibito ad aula.
Lei tornava a casa tutti i giorni, con ogni tempo ed in ogni stagione. Se d’inverno, i disagi erano tanti, con l’avanzare del caldo non erano inferiori. Facilmente sul guado del ruscello, a valle della frazione, obbligata a superare, si mimetizzavano bisce o vipere e bisognava essere lesti a schivarle e sorpassarle.

Mia sorella ed io eravamo ad aspettarla, alla nostra “postazione”: il balcone di casa; mia sorella si disponeva lì, anche con i suoi giochi, fin dalle prime ore del mattino; io, appena tornavo da scuola. Con qualsiasi situazione meteorologica. Due ombrellini beige, regalo della befana, con il manico che si concludeva con una testina di pulcino, ci riparavano dalle intemperie o dal sole e quando mia madre spuntava dalla curva, in fondo alla strada, le correvamo incontro all’impazzata per buttarci tra le sue braccia.

Di quei momenti rimane un ricordo dolce e struggente. L’esperienza di mia madre è certamente anacronistica. Oggi nessun insegnante raggiunge più la sede di lavoro a piedi, ovvero, con il “caval di San Francesco”, come, appunto, era solita dire mia madre.