sabato 26 giugno 2010

43. Il bucato del tempo passato

“♪ Amor dammi quel fazzolettino, amor dammi quel fazzolettino vado alla fonte e lo vado a lavar. Io lo lavo con acqua e sapone……♫”, recita una delle più conosciute canzoni del folclore italiano.

Un giovane oggi non capirebbe perché un innamorato doveva andare alla fonte per lavare il fazzoletto e non nel lavandino di casa o dentro la lavatrice?

Cari ragazzi, che sapete tutto sui videogiochi, telefonino, software, facebook , sms o gps, vi siete persi un collegamento importante nella vita, quello tra saper fare e saper utilizzare! Voi siete solo gli utilizzatori finali dei prodotti. Mentre nel passato bisognava soprattutto saper fare poiché da ciò dipendeva la sopravvivenza della famiglia.

E questo blog è “l’anello mancante” quello che fa riemergere dal passato il “saper fare”!
Ecco perché mi sono fatta raccontare dall’Armentina una delle attività più importanti della “razdora”, padrona di casa, ovvero come si lavava il bucato quando non c’era l’acqua in casa e i detersivi che si utilizzavano.

Come si faceva il bucato prima della modernità?
Il bucato del “bianco”, lenzuola, canovacci, tovaglie, asciugamani di canapa ecc… veniva fatto una volta al mese. E bastava, perché la fatica era molta e vi lavoravano tutte le donne di casa per un’intera giornata che doveva essere soleggiata. Poiché si viveva in famiglie allargate, si arrivava facilmente a 15 persone e il cumulo della biancheria riempiva decine di ceste.

Dopo aver portato a casa l’acqua, si faceva una prima passata ai panni, sporchissimi, con spazzola, sapone, e molto olio di gomito. Questa biancheria appena strofinata

martedì 1 giugno 2010

42. Colpita da un fulmine è salvata dalla terra....

La croata IVANKA lascia a questo blog una testimonianza davvero fuori dal comune.

Se ora posso raccontarvi la mia storia lo devo a zio NEDO che ha saputo riportarmi in vita con un metodo antichissimo, tramandato dalla memoria del tempo.
Ero nelle mie 17 primavere, la mia casa era situata in un grazioso paese croato, circondata da tante altre. Ero sola nella mia stanza, mentre mia mamma e mia sorella stavano affaccendate in cucina. Di fronte alla mia casa c’era quella di zio Nedo che stava guardando dalla sua finestra il forte temporale che si era abbattuto sulla zona. I nostri sguardi si sono incrociati e ci siamo fatti un cenno di saluto. Poi, all’improvviso, un forte bagliore ha invaso tutta la mia stanza e io mi sono accasciata. Mia mamma e mia sorella non si sono accorte di nulla. Solo zio ha capito che qualcosa non andava perché dopo il bagliore non mi ha più visto. Corre da noi, allerta mia mamma: mi trovano inanimata sul pavimento, colpita da un fulmine. Non reagisco ai loro strattonamenti. Mamma vuole portarmi immediatamente in ospedale. Zio la ferma e, come un forsennato, esce e chiama tutto il vicinato. Ordina loro di scavare una fossa nel giardino il più rapidamente possibile. Nedo è un uomo molto stimato in paese e tutti lo assecondano. Sotto la pioggia battente scavano rapidi fino a quando possono immergervi tutto il mio corpo. Poi, sempre secondo gli ordini di zio, mi ricoprono interamente di terra, lasciandomi fuori solo la testa. E aspettano…., aspettano per ore, preoccupati, scettici, tentennanti. Solo Nedo è sicuro di quello che fa. Ed ha ragione perché all’improvviso apro gli occhi. Mi guardo intorno e non capisco. «Ivanka! Ivanka!» chiama mia madre. Ruoto gli occhi allibita e mi chiedo cosa faccio sotto terra, sotto un diluvio di acqua, sotto gli sguardi meravigliati delle persone?

Nel frattempo è arrivato anche il medico che non può far altro che stupirsi di questo metodo. Mi tolgono dalla terra e mi portano in ospedale. Anche i dottori confermano che se fossi stata portata subito lì, probabilmente non vi sarei giunta viva.
Del fulmine che mi ha folgorata mi rimarrà solo una bruciatura alla gambe e alle mani, il resto, la terra lo ha assorbito.
Nedo aveva scoperto questa antica tecnica facendo il servizio militare, quando un commilitone fu colpito in montagna da un fulmine e curato così.

A mia volta ve la racconto perché sappiate come agire se dovesse succedere la stessa cosa a qualcuno, in un posto magari sperduto.
Di questa storia rimane comunque un profondo mistero: com’è entrato quel fulmine nella mia stanza priva di camino, senza rompere nulla, e con porte e finestre chiuse?
Nessuno, nemmeno la polizia ha mai saputo dare una risposta a questa domanda.
Ivanka            (storia raccolta da Barbara Bertolini)