Fino agli anni ’60 nei paesini di campagna si nasceva in casa. Questo parto avveniva in modo concitato. Nell’imminenza del travaglio si allontanavano dall’abitazione uomini e bambini. Le donne adulte della casa o del vicinato entravano in azione riscaldando grandi pentoloni d’acqua e preparando le varie pezze di stoffa necessarie per il nascituro e la mamma. Al marito, l’unica cosa che toccava, era di andare a chiamare la levatrice o la donna esperta del luogo e che si era formata solo dopo una lunga pratica di parti poiché era lei che faceva nascere tutti i bambini del paese.
A San Giovanni, la Signora Lina
aveva assunto questo compito e, quando arrivava trafelato un marito a cercarla,
a qualsiasi ora del giorno o della notte, non perdeva tempo. Sapeva quello che doveva fare, anche se
non possedeva nessuna attrezzo ma solo le sue mani e la sua esperienza. Non
sempre il parto era facile, anzi. Quando si complicava bisognava correre a
chiamare anche la levatrice. Il medico, invece, veniva interpellato solo in
casi estremi, quando la partoriente era in gravissime condizioni: nel mondo
contadino, ci si è sempre arrangiati
alla meno peggio.
La Signora Lina non solo seguiva
il parto ma, se il neonato stava male, veniva interpellata anche dopo la nascita. La figlia, Ines, che
da ragazza seguiva la madre e che è diventata poi infermiera neonatale
(coronando il sogno della mamma), ricorda che per guarire le coliche dei
piccoli la madre utilizzava degli ingredienti molto semplici, olio e acqua che sbatteva
insieme e che strofinava sulla pancina del neonato. Un intruglio che faceva l’effetto d’ una
pozione magica poiché il bebè stava subito meglio!
Durante il parto era
importantissima l’igiene, dunque bisognava far bollire tanta acqua per pulire
bene la partoriente e il nascituro; questo era il solo mezzo utilizzato per
disinfettare tutto. Espletato il taglio del cordone ombelicale (con le forbici
normali disinfettate con l’acqua bollente), e una volta che il neonato era ben lavato e
asciugato, veniva fasciato in una lunga striscia di stoffa bianca che
l’avvolgeva tutto, anche le braccia,
lasciando fuori solo la testolina. Alla fine dell’operazione sembrava un salame
e, così come veniva messo, rimaneva
fino al cambio successivo. Questo aveva
due vantaggi, almeno così dice la Signora Armentina che ha partorito due figli
in casa: cresceva dritto e al caldo. Infatti, veniva cambiato non più di quattro volte al
giorno, quando il bagnato arrivava all’ultima fasciatura, perché anche la pipì o
la pupù lo tenevano al calduccio. Ciò aveva la sua importanza poiché le case, all’epoca, non erano
riscaldate e molti bambini morivano di polmonite nei primi mesi, soprattutto se
avevano la sfortuna di nascere in inverno. Contrariamente a quello che si può
pensare - dice l’Armentina - il sederino, con questo sistema, non si arrossava mai, malgrado non avessero
pomate a disposizione. Solo il borotalco veniva utilizzato e, in minima
quantità per il suo altro costo.
Nei mesi estivi la fasciatura
lasciava scoperte le braccine. Le
strisce di stoffa dovevano essere lavate velocemente e riscaldate vicino alla
stufa o il camino per permetterne il ricambio. In linea di massima, al neonato gli si
toglievano le bende verso i sette-otto mesi. Solo allora, povera creatura, poteva muoversi e riusciva, infine, a tastare con le manine
il mondo circostante.
Causa la sofferenza fisica dovuta
ad un ambiente ostile ed al cibo scarso, molti bambini del passato non erano
belli come quelli di adesso che sono, invece, imbottiti di vitamine, di coccole e di bei
vestitini.
Nei tempi andati la dichiarazione della nascita al proprio
comune veniva spesso fatta dalla
levatrice, soprattutto per chi nasceva nelle borgate. E succedeva che questa
donna, sia perché non aveva capito bene il nome (quando non era comune), sia
per la sua mancanza d’istruzione, ne stravolgeva l’ortografia e il malcapitato
nascituro si trovava a dover portare un nome strano per tutta la vita.
Oggi si nasce (quasi) tutti in
ospedale, ubicato sempre nelle città o in grandi agglomerati. Cambia qualcosa per l’anagrafe del piccolo
comune di residenza dei genitori? No, perché bisogna dichiarare il neonato
sempre al comune di residenza della mamma. Questa è la regola, anche se poi i
genitori hanno la possibilità di dichiarare il bebè nel comune di residenza
dell’ospedale ma, questo comune, a sua volta, rinvierà la documentazione a
quello della mamma. Così viene salvaguardata l’anagrafe dei piccoli
comuni italiani che, altrimenti, col tempo, potrebbe scomparire. Ora, per
dichiarare il neonato, si ha tempo tre giorni se l’ospedale sta nel circondario,
altrimenti dieci se la nascita è avvenuta in un'altra città. Anche all’epoca il
tempo era di una settimana, trascorsa la quale poteva scattare una pesante ammenda.
Prima, la nascita di un
maschietto era l’avvenimento più bello che potesse capitare in famiglia, mentre la
femminuccia non veniva sempre ben accettata, soprattutto se era la seconda o,
peggio, la terza di seguito. Le nascite, durante il fascismo, erano numerose e, la peggior disgrazia, era di
avere 6-7 figlie femmine. Ora, forse, si preferiscono le bimbe e, comunque,
essendo diminuita considerabilmente la natalità, i pochi bambini che nascono
sono un raggio di sole per l’intero parentado.
©2013 Barbara
Bertolini
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