lunedì 15 giugno 2009

13. Nel mio paese il banditore medioevale ha “strillato” nelle piazze gli eventi e l’arrivo dei vari mercanti fino alla metà degli anni ‘70


di Anna Maria Cenname

Il banditore durante il medioevo rendeva pubbliche le ordinanze delle autorità ai cittadini. Con il passare del tempo questa figura assunse una duplice valenza: se da un canto informava il popolo su quelle che erano le leggi da rispettare dall’altro propagandava le attività commerciali (antesignana delle attuali forme pubblicitarie).
Ricordo ancora il banditore del mio paese, Castelmauro, che al mattino annunciava, dopo uno squillo della sua trombetta, l’arrivo al mercatino coperto del paese del pescivendolo, del fruttivendolo, dell’arrotino o del venditore di vestiti.
Tommaso era un uomo smilzo, stempiato, ipovedente, e nonostante la cecità si muoveva autonomamente; conosceva tutte le insidie e i pericoli del suo percorso giornaliero. In paese lo chiamavano affettuosamente Tommasino lu banditaure. La sua maestria stava non solo nel modulare il tono di voce, ma anche nello scegliere il crocevia dove il richiamo, forte e chiaro, si propagava in modo uniforme così da non affaticare troppo le sue corde vocali.
Il compenso a volte consisteva in una sorte di baratto; il banditore esercitava la sua arte e il venditore lo pagava con la sua merce. Tommasino non è mai andato in pensione, ha continuato a dare voce alla sua trombetta fino agli ultimi giorni della sua vita intorno alla metà degli anni settanta.

lunedì 8 giugno 2009

12. Avete mai dormito su un materasso imbottito di foglie di granone?


di Lucia D’Alessandro
Una mattina incontro la mia amica Licia che non vedevo da parecchio tempo, mi chiede cosa faccio, come me la passo e intanto gli starnuti non mi danno il tempo di chiacchierare e di spiegare tutto quello che avrei voluto dirle; lei mi chiede se l'allergia è quella dei tempi passati e che ancora mi logora in questo periodo. Ebbene si, è sempre la stessa allergia alle graminacee, quella che ho beccato a Montorio nei Frentani tanti anni fa.
E la mia memoria va a quando, fresca di titolo di studio, sono stata inviata in quel paese vicino a Larino come “Istruttrice rurale". Il mio compito era quello di assistenza alle mogli e alle figlie dei contadini, sia a livello teorico che pratico per la campagna e la casa, ma soprattutto di dare un aiuto psicologico (parlo degli anni ‘60).
Vivevo a Campobasso e i collegamenti con Montorio erano pochi e difficoltosi: tante curve e strade bloccate per la neve d’inverno. Scelsi allora di non viaggiare e di prendere una camera in affitto in casa di nonna Marietta, una vecchietta che mi aveva preso in simpatia e mi colmava di attenzioni compatibilmente con le sue disponibilità. La mia stanza si trovava proprio sopra alla stalla della contadina e, per materasso, avevo quello imbottito di “fruscie di granone”, cioè la parte esterna del mais. Una tortura perché quando mi giravo nel letto, le foglie, strofinandosi, facevano molto rumore e mi svegliavano. Al mattino, per rifare il letto dovevo inserire le mani tra queste foglie, schiacciate dal mio corpo, per ridarle voluminosità.
Quasi tutti i contadini possedevano questo genere di materasso perché era molto più economico di quello di lana. Le pecore le allevavano, ma la preziosa lana che ne ricavavano serviva loro per realizzare vestiti e coperte e, quella che avanzava, la vendevano per poter racimolare qualche lira da destinare alle necessità più importanti. E io, intanto, ogni primavera, ricordo sempre il materasso di nonna Marietta!

domenica 7 giugno 2009

11. Come pungevano le maglie di lana di pecora!


di Mariolina Perpetua
Negli anni ’50 gli inverni furono lunghi e freddissimi. Nel ’54 e nel ’56 abbondantissime nevicate imbiancarono ripetutamente i paesi del Molise, impedendo la circolazione o rendendola difficoltosa. Cumuli di neve a lungo fiancheggiarono le strade, dopo il passaggio degli spazzaneve, lenti e pesanti. Il transito avveniva solo con catene e avventurarsi su uno spesso strato di ghiaccio fu consuetudine per molti giorni. Le precipitazioni furono tali che anche l’attività scolastica venne interrotta.
Il ricordo dell’infanzia è sempre dilatato, ma le nevicate di quegli anni sono proverbiali. Oggi, per le mutate condizioni atmosferiche, non si verifica niente di simile.

Ciò di cui vorrei parlare, però, non è tanto dell’inclemente stagione invernale, quanto del freddo che essa comportava e dei sistemi con cui si era soliti difendersi. La sensazione fastidiosa delle maglie di lana di pecora è ancora viva: la cardatura della lana, infatti, non era raffinata e le impurità diventavano, sulla pelle, piccolissimi aculei. La lana stessa con cui erano realizzate le maglie intime, le sottovesti e spesso anche le calze, era grezza. Solo ripetuti lavaggi rendevano quegli indumenti più sopportabili. Ogni cambio di maglia nuova, pulita, era una vera tragedia. Tuttavia, riuscivano allo scopo, quello di far fronte al freddo e all’umidità del mio paese Carpinone, sito in montagna (m. 657 l/m nel punto più basso - la stazione ferroviaria -) ed attraversato dal fiume Carpino.

La lana era lavorata nel mio stesso paese da un opificio a conduzione familiare, che provvedeva alla filatura della materia prima, alla cardatura, alla ritorcitura e alla confezionatura della lana appena tosata. La materia prima, sebbene in piccola percentuale, era fornita dagli stessi contadini che affiancavano al lavoro dei campi l’allevamento ovino. Risuonano ancora nelle orecchie il ticchettio della macchina e la spola che torna indietro. Qualche volta mi sono affacciata nel buio locale e ricordo di aver visto fusi di lana grigiastra, intrisa di olio. A lavoro concluso e prima della lavorazione, la lana, ridotta in matasse, veniva sciorinata al sole, dopo essere stata lavata e sbattuta sul greto del fiume.

Gli indumenti intimi erano, dunque questi, per tutti. Anzi, gli uomini indossavano lunghi mutandoni, sotto i pantaloni. Era facile, a quei tempi, vedere le donne sferruzzare sull’uscio di casa durante la buona stagione. Confezionavano gli indumenti di cui ho appena accennato, spesso disfacendoli per farne nuovi, adatti ai rampolli in crescita. La perizia era tale che le contadine, tornando dal lavoro dei campi, avevano tra le mani piccoli ferri, generalmente quattro, adatti soprattutto a realizzare calze; calze che duravano una vita, rattoppate, allungate, allargate.

Gli indumenti della mia famiglia, erano, invece, confezionati da brave magliaie. Solo negli anni di scuola media, potei indossare maglie di lana Borgosesia, sempre a manica lunga, rosa o beige, confortevoli, soffici, piacevoli al contatto della pelle. Piccoli aggiustamenti erano affidati a mia nonna, abbastanza capace di rifacimenti e rammendi. Col tempo, durante gli anni ’60, grazie anche al riscaldamento degli ambienti, gli indumenti divennero più leggeri, più eleganti e raffinati. Oggi, realizzati in tessuti sempre più nuovi e ricercati, non mancano di gusto e di raffinatezza.

lunedì 1 giugno 2009

10. Quando le sere d'inverno ci si riuniva nelle stalle...


Come si passavano, senza luce, le lunghe notti fredde e nebbiose nei paesini emiliani

di Barbara Bertolini

Tra i ricordi più gioiosi della mia infanzia vi sono le serate che trascorrevo nelle stalle insieme a tutto il vicinato: un mezzo, questo, per passare una sera al caldo e senza annoiarsi. Infatti, nel mio paesino medievale, non c’era energia elettrica e non poteva, quindi, esserci il riscaldamento.
Da novembre, quando la luce spariva sotto una fitta coltre di nebbia e la notte si faceva buia come la pece, davanti al camino, illuminati da una fioca luce proveniente da una lucerna, c’era ben poco da fare. E gli emiliani, gente allegra e socievole, avevano trovato un mezzo originale per trascorrere qualche ora in compagnia. Ci si riuniva nella stalla più grande della contrada. Ognuno portava la propria sedia e la propria lucerna. Gli uomini giocavano a carte, le donne chiacchieravano filando la lana, i giovani, sotto l’occhio vigile dei genitori, approfittavano di questa promiscuità per passare messaggi d’amore. Ma chi si divertiva di più eravamo noi bambini che, liberi come fringuelli saltavamo a perdifiato sul fieno, oppure ci rincorrevamo o giocavamo con le ombre prodotte dai lumi e, quando eravamo infine strafatti dalla stanchezza, ascoltavamo le favole che ci venivano narrate da una "zitella" che conosceva l’arte del racconto e ci faceva rimanere a bocca aperta parlandoci di orchi, lupi, streghe e castelli fatati.
Le mucche, felici di questa compagnia, con il loro fiato, riuscivano a riscaldare l’ambiente meglio di un calorifero. Il forte odore che proveniva da tutta questa umanità non disturbava più di tanto le narici dei presenti, avvezzi a ben altri effluvi.
Poi, a una certa ora, che non ricordo quale, qualcuno dava un segnale e, in pochi minuti, sparivamo tutti nelle nostre case, lasciando infine i ruminanti alla loro intimità. E noi bambini, ebbri di felicità, affrontavamo il gelo delle camere da letto e sprofondavamo immediatamente in un sonno ristoratore.
Nei ricordi di mia madre, 85enne, invece, la stalla, la sera, diventava un luogo di lavoro. Tutte le donne giovani e anziane, si mettevano con la rocca a filare la lana o la canapa. Dovevano aver fatto almeno due fusi a sera per poter andare a dormire. Ella dice che se un forestiero fosse capitato in una stalla all’ora di questi incontri, avrebbe pensato trovarsi in una fabbrica per il gran numero di donne concentrate nella filatura.



Per avere tuttavia un’idea di quest’ambiente, basta guardare il film “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, anche se io ho nella mente atmosfere meno cupe di quelle della pellicola olmiana.