lunedì 23 novembre 2009

24. Quelle notti d'inverno dove solo un "prete" poteva esserti d'aiuto....

Di  Barbara Bertolini
Noi in Emilia lo chiamavamo prete, da altre parti, come ha ricordato Mariolina (post 18), lo chiamavano frate, ma chissà quanti altri nomi ha. Insomma quell’aggeggio fatto di due legni sovrapposti, di forma ovale, lungo un metro e che veniva posto fra le lenzuola gelide, con sopra un braciere, aveva lo scopo di riscaldare il letto. Le braci venivano portate in camera un’ora prima di coricarsi. Senza il prete infilarsi nel letto sarebbe stato traumatico.

Nelle case senza riscaldamento il momento più brutto arrivava, infatti, quando si doveva abbandonare il tepore della cucina per andare nelle glaciali camere da letto. Doversi spogliare in un luogo dove la temperatura arrivava talvolta anche sotto lo zero era davvero un’impresa.

Sembra impossibile che il termometro scendesse così in basso nelle stanze, ma è un ricordo ben preciso a dimostrarlo: mia mamma, quando io e mio fratello dovevamo andare a letto, ci dava una bottiglia di acqua calda. Ebbene, quella bottiglia, che finiva quasi sempre per cadere sul scendiletto, qualche mattina l’abbiamo trovata con l’acqua completamente ghiacciata!

Tra le mie reminescenze più sgradevoli del tempo che fu, c’è proprio quella del risveglio alla mattina durante l’inverno, quando dal calduccio del letto dovevo sgusciare fuori in un ambiente molto simile a quello dell’igloo.

Ho ancora nelle orecchie la voce di mia nonna quell’anno del 1957, rimasta con lei e la sua famiglia perché i miei erano emigrati all’estero: «Angelaaaa, Ineees, l’è ora d’alves! (è ora d’alzarsi)», gridava alle figlie, a mo’ di sveglia, dalla cucina dove aveva appena avviato il fuco nella stufa. A quel richiamo, la prima a scendere, in effetti, ero io che avevo sì fatto uno sforzo sovrumano per abbandonare il lettone ma, che, però, venivo gratificata dalla nonna che immancabilmente mi diceva: «tu sì che sei brava, non quelle due dormiglione là». Le due dormiglione come al solito si erano rigirate dall’altra parte e ci avrebbero messo più di mezz’ora prima di sbucare fuori dal letto, e solo perché sentivano la voce minacciosa della madre che si avvicinava. Non avevano torto, però, a prendere tempo. Anche se il letto non era quello molleggiato di ora, ma aveva il materasso di foglie di granone, i loro corpi avevano prodotto una nicchia così calda che ci voleva un bel coraggio per affrontare una nuova giornata che cominciava al freddo e al gelo come nella grotta di Betlemme.

E per ritornare al prete, c'è da dire che oltre ad utile era anche un attrezzo molto pericoloso poiché, pieno di braci, veniva posto in un luogo dove, se rovesciato, avrebbe incendiato tutto facilmente. Infatti, molti materassi contadini erano fatti con le foglie di granone, come detto da Lucia (post 12).

Conoscete qualche altro nome di questo attrezzo?

martedì 17 novembre 2009

23. L'arrivo di una giovane sposa nel paese dei suoceri:anno 1910


Parlando d’amore nel tempo passato, ho trovato un racconto molto bello, quello di Lina Pietravalle, che va giovane sposa nel Molise.


Siamo intorno al 1910. La ragazza, figlia di un illustre medico, Michele, originario di questa regione, direttore degli Ospedali riuniti di Napoli e deputato, sposa Pasquale Nonno, giornalista di umili origini.


Anche Pasquale Nonno è molisano, e, dopo le nozze avvenute a Napoli porta la giovane sposa a Chiauci, in provincia di Isernia, paese dei suoi genitori. Il suocero di Lina, molto orgoglioso di questo matrimonio, coinvolge tutto il paese nell’accoglienza dei novelli sposi.


Ecco come la scrittrice descrive il suo arrivo:

ʻViaggiammo di notte, nell’augusta prima di velluto rosso ed arrivammo a Pescolanciano all’alba. Lì finisce la ferrovia ed incomincia, tra roccie scabre, la foresta con la sua cupa grandezza ascetica (…)

Eran pronte ad attenderci due cavalcature con un uomo sanguigno e baffuto che era a parte del nostro disegno di giungere di nascosto a tergo del paese, verso sera.

La mia cavalla si chiamava Gualfante ed era grande, magra, ed occhialata di nero come una maga coi fianchi iridati dal placido sudore. Aveva in testa una penna altissima che mi cavava gli occhi, fiocchi, sonagliere, e briglie pittoresche impicciatissime.

«Gatà, tu sei pazzo! Qua i pazzi vanno sciolti come i cani» proruppe allegramente mio marito «Spoglia la cavalla, se no m’accechi la sposa». (…)

Mi fece mettere sul suo cavallo e la lietezza mattutina gli parve un augurio ed un canto.

La strada borbonica era bellissima. Lenta come il ritmo del tempo d’allora, strada calma e patriarcale che rispettava ogni lembo di terra ed ogni diritto di pastura. (…)

Il suocero era alle vedette, Peppe Cacerna ci aveva traditi per quattro soldi di polvere da sparo. Per la storia egli gliene offerse due, ma Peppe rispose tutto d’un pezzo: «Fossi fesso, per due». (…)

Cominciarono a brillar fiaccole sanguigne tra le forre e le rupi solinghe, erte come cippi, e per le pasture scarse, contese dal passo della montagna, rispondevan fuochi alti e ruggenti come pire, incorniciati di faville. Tra le macchie degli alberi sbucavano intanto gruppi di ragazzi con fiaccole ed aquiloni di carta che urlavano come i lupi: «Evviva la Novella! Evviva don Pasqualino!». (…)

Intanto eravamo alla porta del paese. Ad attenderci v’erano i “municipali” vestiti di panno turchino, con la giacca a figaro, le camicie di canapa color olio ed una penna di gallo sul cappello. Mio suocero con il petto coperto di medaglie, aggrondato e solenne come un despota, ci fece l’investitura.

Su un piatto pane, olio e sale e le chiavi della porta maggiore che era quella della casa comunale. L’antico rito si compiva, come nei fasti del Trecento, fasti di grande alterigia e di commossa umiltà, nel quale il sangue dell’arrogante signore e quello del torbido plebeo eran confusi come in un crisma perfetto.

Una schiera di fanciullette, vestite di mussola bianca, con duri veli e rose di carta, si fece avanti a ghirlanda, seguita da una maestra monaca, cantando con le voci bianche ed acerbe dei campi, incrudite dal gergo, questa strana canzone:
«Vieni, mia sposa, al talamo, viene dal Libano e sarai incoronata….»
«Lina ascolta! E’ il cantico dei cantici! » egli mi disse.

Il suo volto era vitreo d’ambascia ed il suo sorriso convulso.

La folla intanto irruppe: donne, uomini, vecchi; sulle finestre rozze coperte colorate e scarselle accese, sui tetti torcie bluastre di resina e le strade pavesate di tele tessute in casa, rigide e grezze. (…) «Compari e comari» gridò mio suocero attaccando un energico moccolo «non fate i cafoni zulù! Largo alla sposa, per Sant’Onofrio rimbambito!».

Piovevan baci a mitraglia sul mio vestito e sulle mani: baci duri, informi, disperati e pianti macabri come se fossi nel cataletto.
«Figlia di sangue gentile! Palma! Figlia di mamma beata!».

E gli auguri:
«Nessuno vi possa spartire!».
«Santa Lucia ciechi il malocchio!»
«Servi a cento e mai il medico e lo speziale!».
«Sant’Agnese diletta! Santa Marzia preferita! Essa porta una quartana di capelli. Capelli e figli assai, capelli e grano assai!».

Infatti il grano ci copriva e non potrò mai dimenticare tra quelle luci labili, sotto quello spesso cielo di viola, arcato e dipinto come un portico, la pioggia lene e torpida del grano da tutte le finestre. Pareva polvere sfarinata d’un mestissimo oro, pieno di piombo e di ferro, e sulle mani e sul viso sentiva ancora di sole e di terra. Era tutto grano mondo, pane strappato alle loro bocche penitenti dalla poesia del mito e dalla virtù della tradizione. Una muta di servi gettava denaro e confetti e a tutti i capi di casa che attendevan sulle porte era dato il dono della sposa: un fazzoletto fiorito alle femmine, ed un taglio di camicia agli anziani. Ai fanciulli, rauchi di tripudio, ciambellette, frappe e fichi secchi……. ʼ

Questa grandiosa festa è tutta opera del suocero di Lina Pietravalle che così lo descrive:

“Mio suocero, bellissimo e truculento tipo di capo-tribù, era scellerato di fama ma cinto dalla forza delle sue imprese da una nube di fatalità e d’imperio e come tutti i violenti semplici e barbari in Cristo, sentimentale e persuaso d’essere un giusto ed esemplare uomo. Era sindaco, notaio, consigliere provinciale e di tal fegataccio che vantava medaglie d’ogni genere al valor militare e civile. Aveva accoppato i briganti essendo lui diceva «peggio di un brigante» ed accoppava sempre tutti con una sincerità esplicativa e laudativa eroica. (…)
Naturalmente per il mio matrimonio riunì i consiglieri che puzzavano di stabbio; vecchi pastori, con le brache rappezzate e le mani grosse come spatole per la calcina.
«Don Pasqualino sposa la figlia di don Michele. Invito la Giunta a mandare una lettera di pubblico giubilo per le nozze alte».
«Nozze altre» ripeté il prosindaco. «E quanta dote porta?»
«Non porta dote» ribadì solennemente mio suocero «perché se portava pure la dote non si sposava a figliemo (figlio mio)».
La gente allibì ed egli spiegò ch’egli voleva nobilitare il suo sangue e schiarirlo.
«Mio padre era fabbro e mio nonno contadino, io ho fatto il primo passo ed ho “ammegliato”, e mio figlio deve farlo più lungo, non ci vuole per lui una femmina con i polsi grossi, ma pregiata di figura e col cervello fino».
«E t’è piaciuta, noreta? (tua nuora)»
«Mi è piaciuta e parla meglio di monsignore».

Lina Pietravalle, Marcia Nuziale, pubblicato da Bompiani il 15 dicembre del 1931, ripubblicato nel 1987, centenario della nascita della scrittrice

martedì 10 novembre 2009

22. L'innamoramento ai tempi passati


Questa poesia di Ermanno Catalano, che parla di innamoramenti nei tempi passati, mi sembra molto adatta per il blog poiché il suo titolo è "Amore d’altri tempi", appunto quelli della gioventù dei nostri nonni o bisnonni a cui non era permesso avvicinare la ragazza che faceva palpitare il loro cuore.



Ringrazio Catalano, poeta dialettale molisano, per avermi concesso il suo componimento. Barbara Bertolini




AMORE D’ATI TIÈMPE.................... AMORE D’ALTRI TEMPI

Petésse remenì ‘llu tiémpe äntiche,.......Potesse ritornar quel tempo antico

quann’ere verde, quasce nu guaglione,..quando ero verde, quasi ragazzo,

e iave mure mure e ciche viche.............e andavo lungo i muri vico vico

pecché velée ‘lla bella ggione...............perché volevo vedere quella giovane



E quanne ne fenestre nen ce steve..........E quando alla finestra lei non c’era

‘spettave che senava vintunore;.............aspettavo che suonasse vent’un ore;

allore ch’i chempagne ze rreunéve.........allora alle compagne lei si univa

e iave a tolle l’acque c’a quettore..........e andava a prender acqua con la tina



Allore non petive irce a spasse,.............Allora non potevi andarci a spasso

parlarce nen petive ‘mmiezz’a vije,.......non potevi parlarci nella strada

ma p’a temménte sule d’addarasse.........ma per guardarla solo da lontano

evive ì ne fonte, zije, sije.......................dovevi andare alla fonte, zije sije.



U munne mò è cagnate, è n’ata cose,.......Il mondo or è cambiato, è un’altra cosa:

a fonte cole ‘n terre senza ggente;...........la fonte getta acqua senza gente;

Marije è vecchie, a figlie mo spose........Maria è vecchia, la figlia ora si sposa,

u suonne mije remane p’a mente.............il sogno mio rimane nella mente.



Ermanno Catalano