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lunedì 12 ottobre 2009

20. Quando da Genova, Napoli e Messina imbarcavamo le "spose per procura" fino in Australia


(foto anni '50, il giovane ufficiale di marina Pietro Ciufici in divisa invernale)
di Pietro CiuficiNato a Ortona, porto abruzzese che si affaccia sull’Adriatico, il mare è sempre stato il mio universo, la mia meta, il mio approdo.
Sapevo fin dalla più tenera età che da grande avrei fatto il marinaio. Dopo le medie, infatti, mi sono iscritto all’Istituto nautico e, successivamente, con il mio bel diploma in tasca mi sono imbarcato come giovane ufficiale di marina.

Era l’anno 1954 e, da allora, e per tredici anni ho circumnavigato il mondo approdando con le navi nei porti più importanti del globo terrestre: dall’Alaska all’America del Sud, dalla Cina all’Australia; dove ci portava il vento del commercio.
I ricordi di quegli anni gloriosi sono tanti. Tra i primi a venirmi in mente ci sono i viaggi con navi passeggeri verso l’Australia, dove portavamo anche le numerose “spose per procura”.
L’Italia di allora era poverissima, non erano ancora state cancellate tutte le tracce lasciate dalla guerra e spesso mancava perfino il minimo per campare. Ecco perché molti italiani partirono per l’Australia dove il lavoro abbondava e dove solo lo zappatore della terra era capace di adattarsi ad un clima terribile in luoghi isolati, abitati da piccolissimi nuclei di famiglie. Gli emigrati erano stati chiamati per lavorare soprattutto la canna da zucchero nel Nuovo Galles. Le destinazioni principali erano Freemantle, Adelaide, Melbourne, Sydney o Brisbane.
Questi uomini si trovarono di fronte ad un serio handicap; sul posto trovarono pochissime donne per cui, realizzata una discreta sicurezza economica, si affidarono ad agenzie matrimoniali o a parenti per far giungere in Australia delle giovani povere disposte a sposarli per procura.

Un anno, sulla turbonave della flotta Lauro, imbarcammo più di trecento di queste giovani raccolte nei porti di Genova, Napoli, Messina e Malta. Donne che avevano in tasca pure un biglietto di ritorno nel caso la persona sposata non fosse all’altezza delle loro aspettative. Ma anche se talvolta trovarono al loro arrivo degli uomini rozzi, vere facce da galera, e non così ricchi come immaginavano, molte accettarono comunque questo matrimonio per non deludere la propria famiglia e creare problemi al paese. Altre, più coraggiose, tornarono invece in dietro. Ma anche tanti di questi matrimoni combinati, bisogna dirlo, andarono a lieto fino.

Il personale della nave era in maggioranza maschile e appena arrivavamo nei porti di imbarco, dopo aver fatto tutte le manovre, ci mettevamo sul ponte ad osservare l’arrivo delle ragazze.
Nicola l’ufficiale in seconda mi dava gomitate «Oh Gesù, guarda quella biondona, ma come s’è conciata? dove va? si vede a tre chilometri il mestiere che fa, le manca solo la borsetta da far girare, che dici, lo sposo sarà contento?». E giù risate… «Hei, la moretta dietro, niente male, che gambe!». «Ma tu guarda la miseria che ti fa fare!» . Insomma l’arrivo sulla nave di questa umanità era il momento più spassoso di tutta la traversata perché cercavamo di capire i sentimenti e gli intenti di queste “signorine” diventate signore all’improvviso, che salivano sulla nave con indecisione, titubanza, gli occhi pieni di lacrime, sapendo di partire davvero per l’ignoto. C’erano ragazze sprovvedute, ma anche donne navigate che avevano fatto il marciapiede fino ad allora e l’Australia era la loro unica possibilità di rifarsi una vita dignitosa.
Noi prendevamo il meglio che ci veniva offerto. Ognuno aveva una tecnica collaudata per attirare l’attenzione e venire in contatto con le ragazze adocchiate.

Infatti, per far passare il tempo a bordo, durante questa traversata che durava ben 31 giorni, si organizzavano feste: il capitano, napoletano verace, per prenderci in giro ci diceva: «Guagliù facite è bbrava che appriesso a l’Equatore v’a prometto a festa ‘re banane!»
Avevo 24 anni, ero bello, simpatico, e con la mia bianca divisa da ufficiale facevo girar la testa a più d’una. Insomma uno sciupafemmine e, quella volta lì, ero talmente indaffarato con il gentil sesso che alla fine mi venne l’esaurimento nervoso poiché non dormii per alcuni mesi! Perfino il turno di guardia la ragazza conquistata lo faceva con me. Non avevo tregua. Che tempi!
Infatti, inizialmente timide, queste donne, dopo pochi giorni, sentendosi infine libere dalla tutela dei loro parenti, non più giudicate dai paesani, esplodevano e non avevano più remore a lasciarsi andare con il personale di bordo.

Il problema per tutti noi arrivava quando giungevamo in Australia. Molte si erano innamorate e non volevano distaccarsi dai loro marinai. Ma la legge a bordo era inflessibile, SCENDERE, e come si dice a Napoli, “chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato”. A queste donne non restava che sperare di aver trovato, in terra d’Australia, un marito all’altezza delle loro aspettative.


Testimonianza raccolta da Barara Bertolini - ©2014 Tutti i diritti riservati

domenica 7 giugno 2009

11. Come pungevano le maglie di lana di pecora!


di Mariolina Perpetua
Negli anni ’50 gli inverni furono lunghi e freddissimi. Nel ’54 e nel ’56 abbondantissime nevicate imbiancarono ripetutamente i paesi del Molise, impedendo la circolazione o rendendola difficoltosa. Cumuli di neve a lungo fiancheggiarono le strade, dopo il passaggio degli spazzaneve, lenti e pesanti. Il transito avveniva solo con catene e avventurarsi su uno spesso strato di ghiaccio fu consuetudine per molti giorni. Le precipitazioni furono tali che anche l’attività scolastica venne interrotta.
Il ricordo dell’infanzia è sempre dilatato, ma le nevicate di quegli anni sono proverbiali. Oggi, per le mutate condizioni atmosferiche, non si verifica niente di simile.

Ciò di cui vorrei parlare, però, non è tanto dell’inclemente stagione invernale, quanto del freddo che essa comportava e dei sistemi con cui si era soliti difendersi. La sensazione fastidiosa delle maglie di lana di pecora è ancora viva: la cardatura della lana, infatti, non era raffinata e le impurità diventavano, sulla pelle, piccolissimi aculei. La lana stessa con cui erano realizzate le maglie intime, le sottovesti e spesso anche le calze, era grezza. Solo ripetuti lavaggi rendevano quegli indumenti più sopportabili. Ogni cambio di maglia nuova, pulita, era una vera tragedia. Tuttavia, riuscivano allo scopo, quello di far fronte al freddo e all’umidità del mio paese Carpinone, sito in montagna (m. 657 l/m nel punto più basso - la stazione ferroviaria -) ed attraversato dal fiume Carpino.

La lana era lavorata nel mio stesso paese da un opificio a conduzione familiare, che provvedeva alla filatura della materia prima, alla cardatura, alla ritorcitura e alla confezionatura della lana appena tosata. La materia prima, sebbene in piccola percentuale, era fornita dagli stessi contadini che affiancavano al lavoro dei campi l’allevamento ovino. Risuonano ancora nelle orecchie il ticchettio della macchina e la spola che torna indietro. Qualche volta mi sono affacciata nel buio locale e ricordo di aver visto fusi di lana grigiastra, intrisa di olio. A lavoro concluso e prima della lavorazione, la lana, ridotta in matasse, veniva sciorinata al sole, dopo essere stata lavata e sbattuta sul greto del fiume.

Gli indumenti intimi erano, dunque questi, per tutti. Anzi, gli uomini indossavano lunghi mutandoni, sotto i pantaloni. Era facile, a quei tempi, vedere le donne sferruzzare sull’uscio di casa durante la buona stagione. Confezionavano gli indumenti di cui ho appena accennato, spesso disfacendoli per farne nuovi, adatti ai rampolli in crescita. La perizia era tale che le contadine, tornando dal lavoro dei campi, avevano tra le mani piccoli ferri, generalmente quattro, adatti soprattutto a realizzare calze; calze che duravano una vita, rattoppate, allungate, allargate.

Gli indumenti della mia famiglia, erano, invece, confezionati da brave magliaie. Solo negli anni di scuola media, potei indossare maglie di lana Borgosesia, sempre a manica lunga, rosa o beige, confortevoli, soffici, piacevoli al contatto della pelle. Piccoli aggiustamenti erano affidati a mia nonna, abbastanza capace di rifacimenti e rammendi. Col tempo, durante gli anni ’60, grazie anche al riscaldamento degli ambienti, gli indumenti divennero più leggeri, più eleganti e raffinati. Oggi, realizzati in tessuti sempre più nuovi e ricercati, non mancano di gusto e di raffinatezza.

sabato 4 aprile 2009

1. ANNI '50: SENZ'ACQUA, SENZA SERVIZI IGIENICI, COME SI VIVEVA NELLE CASE?

Era l’anno di grazia 1956, ma per me e per gli abitanti di un piccolo paese sperduto nell’Appennino reggiano era il Medioevo.
Non c’era l’acqua nelle case, non c’era elettricità e, per il bagno, «accomodatevi!»: la scelta variava da una puzzolentissima e vomitevole latrina; un campo all’aria aperta dietro un cespuglio o la stalla dove le mucche, all’occorrenza, potevano avere lo stesso impellente bisogno del malcapitato e, quindi, inondarlo di urina. La stalla rimaneva comunque l’ultima scelta anche perché c’era un serio problema di privacy poiché chiunque poteva entrare in qualsiasi momento mettendo in imbarazzo tutti e due.
Ditemi voi se questa non poteva essere considerata una storia d’Altri tempi!

Come si faceva a vivere senz’acqua e senza energia elettrica? Come avevano fatto per migliaia di anni tutti quelli che ci hanno preceduto.
La cucina aveva un lavandino non profondo e molto largo sul quale veniva posto un secchio che si andava a riempire d’acqua alla fontana. Un bottiglione di vetro, invece, veniva riempito un po’ prima del pranzo direttamente alla sorgente, perché l’acqua da bere era così più fresca. Questo compito, in generale, spettava ai bambini della famiglia:
«Va a tor l’acqua c’a magnom!» (va a prendere l’acqua che mangiamo!). Questo era il comando che mi sentivo rivolgere da mio nonno che conosceva, in famiglia, solo l’imperativo. E, con il mio bel bottiglione in mano, via alla sorgente, che non era proprio vicina, ma mi ci voleva una mezz’ora di tempo tra andata e ritorno.

Le case d'inverno, senza riscaldamento, erano freddissime e la gente del paese per trovare un po' di tepore e di compagnia si riuniva la sera, dopo cena, nelle stalle. Vedere il mio post . 10 (Quando le sere d'inverno ci si riuniva nelle stalle).

Per lavarsi, si riempiva il catino d’acqua. Durante i mesi invernali nella stufa, sempre accesa dalla mattina alla sera, vi era inserito un contenitore d’acqua di circa 5 litri, per cui almeno nei mesi freddi c'era sempre acqua calda disponibile.
Solo il sabato si svolgeva la cerimonia del bagno completo, dentro una grande tinozza, che veniva piazzata nella stanza più calda (la cucina) e ci si lavava lì, a turno. Però, dopo due bagni l’acqua veniva cambiata. Non come nel Medioevo dove, invece, in quella stessa tinozza si lavavano (una volta a stagione) prima tutti gli uomini della famiglia, poi le donne, poi i bambini, e, infine, il neonato: ecco perché esiste il detto: «attenti a non buttare con l'acqua sporca anche il bambino!»

Catapultata ora nel XXI secolo, posso, invece, sguazzare in una maxi vasca idromassaggio tutte le sere. Che tempi!
Barbara Bertolini - tutti i diritti riservati

foto di www.cera1volta.altervista.org