Fino agli anni ’60 nei paesini di campagna si nasceva in casa. Questo parto avveniva in modo concitato. Nell’imminenza del travaglio si allontanavano dall’abitazione uomini e bambini. Le donne adulte della casa o del vicinato entravano in azione riscaldando grandi pentoloni d’acqua e preparando le varie pezze di stoffa necessarie per il nascituro e la mamma. Al marito, l’unica cosa che toccava, era di andare a chiamare la levatrice o la donna esperta del luogo e che si era formata solo dopo una lunga pratica di parti poiché era lei che faceva nascere tutti i bambini del paese.
Sei passato dalla penna inchiostro e calamaio al mondo digitalizzato? Sei curioso di sapere come vivevano quelli prima di te? Questo è allora il sito che fa per te. Vi si raccontano fatti, episodi, modi di fare di tempi che non torneranno più perché cancellati dalla tecnologia. Insomma, STORIE D’ALTRI TEMPI…..................................................Barbara BERTOLINI
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domenica 3 novembre 2013
76. QUANDO SI NASCEVA IN CASA
Fino agli anni ’60 nei paesini di campagna si nasceva in casa. Questo parto avveniva in modo concitato. Nell’imminenza del travaglio si allontanavano dall’abitazione uomini e bambini. Le donne adulte della casa o del vicinato entravano in azione riscaldando grandi pentoloni d’acqua e preparando le varie pezze di stoffa necessarie per il nascituro e la mamma. Al marito, l’unica cosa che toccava, era di andare a chiamare la levatrice o la donna esperta del luogo e che si era formata solo dopo una lunga pratica di parti poiché era lei che faceva nascere tutti i bambini del paese.
sabato 26 ottobre 2013
75. La pastorella impertinente
Questa storia è vera e si svolge all’inizio
degli anni ’30 in un pesino dell’Appennino emiliano. Racconta di una pastorella
astuta che non voleva proprio andare a pascolare le pecore.
*****
Emergo con fatica da un sonno profondo. Sento, ovattata,
la voce di mia madre che cerca di svegliarmi scuotendomi leggermente, ma il suo
movimento mi culla e mi fa sprofondare di nuovo nel sonno. Allora, mi prende in
braccio e mi porta in cucina, io piagnucolo come ogni mattina. Per acquietarmi
mi dice: «Dai Tina, ti ho preparato un bel bicchiere di latte che
ho appena munto per te». Sa, infatti, che è il solo modo per farmi accettare
questa levataccia in un ambiente così freddo che richiede una forza di volontà
disumana per uscire dalle calde lenzuola. «Le tue amiche sono già pronte, ti
aspettano», aggiunge. Continuo a frignare, ma so che non ho altra
scelta, è l’alba ed io devo andare fuori
e raggiungere le mie dolci, tenere, deliziose pecorelle, che in effetti
sono le mie carnefici.
sabato 11 settembre 2010
44. Le famiglie patriarcali
(famiglia patriarcale del 1920)
Le famiglie patriarcali di una volta erano litigiose come i Simpson, simpatiche come quella di “Happy Day” o pasticcione come le attuali famiglie allargate?
La famiglia contadina patriarcale si è disgregata con la modernità perché l’invenzione di nuovi mezzi agricoli ha permesso di poter lavorare la terra con meno braccia. Per un piccolo podere di 15 biolche, per esempio lavoravano, un tempo, per quasi 12 ore al giorno, 6-7 adulti. Ora, per la stessa superficie basta e avanza il lavoro di due persone, che possono permettersi anche di svolgere un’altra attività.
Se chiedo alla Signora Armentina della società contadina della sua gioventù, ricorda solo una grande miseria. Riecheggiano ancora alle sue orecchie le esclamazioni della Signora Cesira venuta a chiedere un po’ di farina per i suoi 7 figli: «Oh Lina, incoeu i me’ fieu an gan propria gnent, am dareset un po’d farina per la pulenta?» (O Lina, anche oggi i miei figli non hanno nulla da mangiare. Mi daresti un po' di polenta?) Sì, perché i ricordi arrivano alla sua mente solo in dialetto. Ricordi di povertà, di come mamma Lina aiutava quelli più bisognosi di lei. A casa sua non erano ricchi, ma almeno si mangiava tutti i giorni, anche durante la guerra. Una famiglia di gran lavoratori la sua. Guardando nel passato rammenta che «non c’erano cose né belle, né simpatiche, si doveva lavorare e basta. La terra, come nelle favole, era generosa solo se gli dedicavi tutte le tue energie. C’era sempre qualcosa da fare: falciare l’erba, mietere il grano, battere la canapa, rastrellare il fieno, mungere, fare il pane per l’intera settimana, travasare il vino, insaccare le salcicce, filare la lana. Tutto e di più ». Così sentenzia l’Armentina.
Però, poco a poco, si delinea nella sua mente la personalità di nonno Orazio, il padre-padrone della famiglia, il patriarca la cui autorità non è mai stata messa in dubbio da nessuno dei figli o dai generi perché aveva saputo, con il tempo, far vivere la sua prole in una certa agiatezza. Nonno Orazio, oltre al podere, commerciava in bestiame con la vicina Toscana. Nella tarda primavera s’incamminava a piedi con le bestie e 3 o 4 vaccari, percorrendo, tra andata e ritorno, anche 200 km. Ritornava orgoglioso degli scambi o delle vendite. Infatti di questi viaggi riportava olio e sale, i due generi alimentari che la sua terra non poteva produrre.
Ecco il racconto di Armentina:
«Quando sono nata, negli anni Venti, in casa vivevano 11 persone, di cui tre bambine. Poi due giovani zie si sono sposate e siamo rimasti in 9 di cui 4 maschi adulti e 5 femmine. Successivamente sono nati altri bambini.
L’incontestabile figura di Orazio regnava su tutti noi. La mattina o la sera, intorno al tavolo, discuteva con gli uomini i lavori da fare: erano ordini precisi, netti, indiscutibili. Se c’erano delle controversie era lui a redimerle. Insomma era il grande saggio e, a distanza di tempo, mi è rimasta una percezione molto positiva di quest’uomo, malgrado la sua severità.
La figura della “razdora”, la padrona di casa, veniva assunta
sabato 26 giugno 2010
43. Il bucato del tempo passato
“♪ Amor dammi quel fazzolettino, amor dammi quel fazzolettino vado alla fonte e lo vado a lavar. Io lo lavo con acqua e sapone……♫”, recita una delle più conosciute canzoni del folclore italiano.
Un giovane oggi non capirebbe perché un innamorato doveva andare alla fonte per lavare il fazzoletto e non nel lavandino di casa o dentro la lavatrice?
Cari ragazzi, che sapete tutto sui videogiochi, telefonino, software, facebook , sms o gps, vi siete persi un collegamento importante nella vita, quello tra saper fare e saper utilizzare! Voi siete solo gli utilizzatori finali dei prodotti. Mentre nel passato bisognava soprattutto saper fare poiché da ciò dipendeva la sopravvivenza della famiglia.
E questo blog è “l’anello mancante” quello che fa riemergere dal passato il “saper fare”!
Ecco perché mi sono fatta raccontare dall’Armentina una delle attività più importanti della “razdora”, padrona di casa, ovvero come si lavava il bucato quando non c’era l’acqua in casa e i detersivi che si utilizzavano.
Come si faceva il bucato prima della modernità?
Il bucato del “bianco”, lenzuola, canovacci, tovaglie, asciugamani di canapa ecc… veniva fatto una volta al mese. E bastava, perché la fatica era molta e vi lavoravano tutte le donne di casa per un’intera giornata che doveva essere soleggiata. Poiché si viveva in famiglie allargate, si arrivava facilmente a 15 persone e il cumulo della biancheria riempiva decine di ceste.
Dopo aver portato a casa l’acqua, si faceva una prima passata ai panni, sporchissimi, con spazzola, sapone, e molto olio di gomito. Questa biancheria appena strofinata
sabato 20 febbraio 2010
34. Le pecore di Sant'Antonio
Armentina, invece, non aveva una mamma altrettanto tollerante e, bisogna dirlo, la sua azione è stata molto più insolente di quella di Betty.
Racconta dunque l’Armentina:
Premetto che da quando avevo 6 anni tutte le mattine da aprile a ottobre mia mamma mi svegliava all’alba per mandarmi a pascolare le pecore (ore 5 o 4, secondo i mesi). In inverno, invece, mi si buttava giù dal letto alle 8. Solo con la neve facevo festa perché le pecore non uscivano.
Un lavoro che ho sempre odiato per vari motivi: facevo una fatica immane per uscire dal sonno, non amavo questo attività dove non serviva la bravura, ma soprattutto perché solo a me era richiesta tale mansione; mai a mia sorella più grande.
Dovevo avere 8-9 anni quando mia madre mi mandò a messa e mi diede 20 centesimi per darli a Sant’Antonio. Mi disse che gli dovevo chiedere la grazia di conservare i nostri animali sani. Era, infatti, il 17 gennaio festa di Sant’Antonio Abate. Andai in chiesa e la statua del santo era stata messa in mezzo alla navata, sopra un grande drappeggio dove tutti buttavano i loro soldi e chiedevano la grazia. La chiesa era affollata, la messa veniva ufficiata da vari celebranti e io osservavo attentamente il Santo: ting, ting, le monetine cadevano a fiotti sul telo, ma lui non si abbassava mai e non diceva grazie. Allora, tra me e me, mi son detta che non era lui a ricevere i soldi ma i preti e ho quindi deciso di spendere quelli che mi aveva dato mia mamma (una grande somma per il periodo) per comperare il castagnaccio e gli “scachetti” (arachidi) che avevo visto su una bancarella prima di entrare. Ma prima di uscire dalla chiesa domandai comunque al Santo una grazia: quella di far morire tutte le pecore e di salvare solo gli altri animali.
Il proprietario della bancarella fece resistenza, gli sembrava strano che una bambina potesse spendere tanti soldi per delle golosità. Alla fine cedette, allora chiamai tutti i miei amici e ci facemmo una scorpacciata di castagnaccio come mai era capitato in vita nostra.
Appena arrivata a casa, andai subito nell’ovile a verificare se le pecore erano morte. Ma niente, Sant’Antonio non mi aveva fatto nessuna grazia: erano tutte lì, vive e vegete. Che delusione!
Quando mia madre mi chiese se avevo dato i soldi risposi di no, perché quei soldi non se li prendeva il Santo ma i preti che c’erano. Mi corse dietro con le pinze del camino. Per fortuna uno zio presente la bloccò e le disse: «la bambina ha detto la verità e guai a te se la tocchi!» E, per la prima volta in vita mia, me la cavai senza botte, com’ero contenta…..
domenica 31 gennaio 2010
31. Come si faceva il burro a mano?
Cara Silvia, grazie per la domanda. Ho chiesto alla Signora Armentina, la consulente ormai ufficiale di questo blog. Ed ecco le sue spiegazioni:
Per realizzare il burro a mano si metteva la panna in una bottiglia. Ci si sedeva e, appoggiando la bottiglia sulle ginocchia, la si faceva andare avanti e indietro energicamente, fino a quando questo composto si condensava diventando burro. Questa operazione poteva durare anche mezz’ora.
Dopo di ché, si svuotava la bottiglia in una teglia e, con le mani, si dava al burro la forma che si voleva. Chi aveva fantasia poteva, con un coltello o in piccolo bastoncino, comporre dei disegni. Inoltre, nelle case contadine ma soprattutto nei paesini delle Alpi, esistevano anche stampi di legno, realizzati con varie decorazioni (come quelli della foto) – intagliati a mano durante i mesi invernali – per dare una conformazione graziosa al burro.
Questa tecnica è valida anche al giorno d’oggi per chiunque voglia realizzare in proprio il burro.
Mentre, per ritornare al “casaro” (del post 30), lui, aveva un attrezzo che funzionava all’inizio del ‘900 a manovella e, successivamente a motore. Con l’aggiunta del ghiaccio, riusciva a ricavare tanto burro quanto voleva.
martedì 22 dicembre 2009
27. Natale in rima
Buon Natale anche a chi non crede
Buon Natale in questo giorno particolare
a tutti voglio augurare
Buon Natale anche a chi non crede
perché il Natale non è questione di fede
Il Natale è una festa tradizionale
sentita da tutti in modo speciale
Una tradizione vecchia come il mondo
quando l’uomo non sapeva che il nostro pianeta è rotondo
e aveva paura che il sole andasse per sempre a dormire
e che le tenebre, a dicembre, non smettessero d’imbrunire
E allora ha pensato di far tornare il sole
festeggiando con grandi fuochi accesi nelle tarde ore
La nascita del bambinello, se non lo sapevi,
è la speranza di oggi e di ieri…
di tutta l’umanità
che non vuol conoscere l’aldilà!
Armentina
Buon Natale in questo giorno particolare
a tutti voglio augurare
Buon Natale anche a chi non crede
perché il Natale non è questione di fede
Il Natale è una festa tradizionale
sentita da tutti in modo speciale
Una tradizione vecchia come il mondo
quando l’uomo non sapeva che il nostro pianeta è rotondo
e aveva paura che il sole andasse per sempre a dormire
e che le tenebre, a dicembre, non smettessero d’imbrunire
E allora ha pensato di far tornare il sole
festeggiando con grandi fuochi accesi nelle tarde ore
La nascita del bambinello, se non lo sapevi,
è la speranza di oggi e di ieri…
di tutta l’umanità
che non vuol conoscere l’aldilà!
Armentina
giovedì 17 dicembre 2009
26. Ecco come veniva sostituito lo zucchero nelle case contadine
Di Barbara Bertolini
Giorni natalizi, giorni di feste e… di dolci. Nella tradizione culinaria italiana, di piatti dai sapori zuccherini, senza conservanti né coloranti, ce ne sono tanti, ma quello che vi voglio raccontare ora è la storia di un alimento che in tante case povere ha sostituito per anni lo zucchero, considerato allora troppo caro.
La mia mente corre agli anni ’50. Non c’è nessuno in casa. Entro con timore nella camera da letto dei miei nonni. In fondo alla stanza c’è una tenda che nasconde una nicchia. Scosto la tenda e inzuppo le dita in un grosso pentolone che vi è deposto, dove giace un invitante e gustoso intingolo denso e marrone. So che non posso mangiarne troppo perché il “savurett” servirà per preparare i dolci di tutto l’anno e, se mi becca la nonna, sono guai, ma sono troppo golosa e non resisto: sclaft, sclaft, hummm che bontà!
Questo è l’unico dolce della casa ad eccezione, ben inteso, della marmellata. Ma è soprattutto il solo che posso mangiare senza che nessuno se ne accorga.
Ho scoperto poi che intere generazioni di bambini, nati in campagna prima del 1950, si leccavano avidamente le dita come me dopo averle intinte nel savurett!
A cosa serve e come è fatto il “savurett”?
Come al solito è la signora Armentina a dare le spiegazioni:
Nei tempi passati, durante e dopo la guerra, il problema economico era tale che perfino lo zucchero era troppo costoso per le tasche dei contadini. Si cercavano quindi soluzioni alternative per sostituirlo. Una di queste era appunto il “savurett”. Non ne conosco il nome italiano, chiedo lumi all’amica Rita, esperta linguista, forse lei sa trovare questa parola emiliana che deriva da “sapore”.
Dunque, durante l’autunno si raccoglievano in grande quantità le pere (verdi con sfumature di marrone – l’Armentina le chiama “pere valle”) che cadevano in abbondanza.
Si lavavano, poi, così com’erano (con il torsolo e la buccia), le si passavano dentro una specie di tritatutto. Il composto così ottenuto lo si lasciava scolare. Quando il sugo si era completamente deposto lo si doveva far bollire in un paiolo per 24 ore (alla fine ne restava solo un quarto) e il savurett era pronto.
Infatti il sugo rimasto era dolciastro e poteva quindi essere utilizzato per zuccherare le torte o altri cibi. Poiché era un alimento che non costava nulla (allora la legna si trovava nei boschi e di frutta ce n’era a volontà), i più poveri, in mancanza di qualsiasi altro alimento, lo utilizzavano per insaporire la polenta. Questo composto si manteneva inalterato per qualche anno.
Al giorno d’oggi lo si chiamerebbe “fruttosio”. O sbaglio?
(la foto di queto post è stata presa da http://www.giallozafferano.it/)
lunedì 26 ottobre 2009
21. Come stiravano le nostre nonne

La signora Armentina, piena di ricordi, ci racconta come si stirava una volta, quando l’elettricità non c’era ancora, dandomi così l’opportunità di mettere questa bella foto, presa dalla raccolta di ferri da stiro antichi di Pasquale Veleno.
Il primo ferro da stiro che ho avuto (anni ’40) era quello pesante che si metteva direttamente sulla stufa. La piastra si riscaldava e io potevo stirare il tempo che durava questo calore, ovvero pochissimo. Insomma per dare una piega ai capi ci voleva davvero tanto tempo. Ve le ricordate le stufe di una volta fatte a cerchioni concentrici i quali si toglievano uno ad uno, a seconda della grandezza della pentola da mettere? Ebbene, quella era la stufa su cui io poggiavo il ferro da stiro. Nelle sartorie, dove il ferro era attaccato tutta la giornata si è sempre preferito impiegare questo tipo fino all’avvento dell’elettricità, infatti, si rischiavano meno bruciature ed era più pulito.
Successivamente ho utilizzato quello dove si mettevano le braci direttamene dentro al ferro. Quello per intenderci che, come cimelio, si trova ancora in tante case. Era tutto nero e aveva l’apertura in alto che permetteva di riempirlo di braci ardenti. Questo ferro aveva un’autonomia più grande rispetto a quello di prima. Nelle famiglie ricche la brace veniva sostituita dal carbone.
Per poter stirare agevolmente dovevo spruzzare la stoffa con dell’acqua. La bruciatura era assicurata se non si aveva l’accortezza di mettere uno straccio tra la stoffa e il ferro. Le stoffe sintetiche fino agli anni ’50 non erano ancora arrivate nelle nostre case per cui i capi da stirare erano prevalentemente in canapa, lino o lana. Mentre i soliti ricchi possedevano nel loro guardaroba anche indumenti in cotone e seta. Per inamidare i colli delle camicie, facevo bollire le bucce di patate in una pentola e, dopo, ve li immergevo.
Nelle famiglie dove non c’era servitù, lenzuola, asciugamani e vestiario intimo non venivano mai stirati, avevamo altro da fare!
Per cui, quando alla fine degli anni ’50 mi sono trovata fra le mani il primo ferro da stiro elettrico è stata una vera liberazione. Sono stata una delle prime a comperare quello a vapore che avevo adoperato nella sartoria dove lavoravo!
Non c’è dubbio che l’emancipazione della donna è passata anche attraverso la liberazione delle corvée domestiche.
Il primo ferro da stiro che ho avuto (anni ’40) era quello pesante che si metteva direttamente sulla stufa. La piastra si riscaldava e io potevo stirare il tempo che durava questo calore, ovvero pochissimo. Insomma per dare una piega ai capi ci voleva davvero tanto tempo. Ve le ricordate le stufe di una volta fatte a cerchioni concentrici i quali si toglievano uno ad uno, a seconda della grandezza della pentola da mettere? Ebbene, quella era la stufa su cui io poggiavo il ferro da stiro. Nelle sartorie, dove il ferro era attaccato tutta la giornata si è sempre preferito impiegare questo tipo fino all’avvento dell’elettricità, infatti, si rischiavano meno bruciature ed era più pulito.
Successivamente ho utilizzato quello dove si mettevano le braci direttamene dentro al ferro. Quello per intenderci che, come cimelio, si trova ancora in tante case. Era tutto nero e aveva l’apertura in alto che permetteva di riempirlo di braci ardenti. Questo ferro aveva un’autonomia più grande rispetto a quello di prima. Nelle famiglie ricche la brace veniva sostituita dal carbone.
Per poter stirare agevolmente dovevo spruzzare la stoffa con dell’acqua. La bruciatura era assicurata se non si aveva l’accortezza di mettere uno straccio tra la stoffa e il ferro. Le stoffe sintetiche fino agli anni ’50 non erano ancora arrivate nelle nostre case per cui i capi da stirare erano prevalentemente in canapa, lino o lana. Mentre i soliti ricchi possedevano nel loro guardaroba anche indumenti in cotone e seta. Per inamidare i colli delle camicie, facevo bollire le bucce di patate in una pentola e, dopo, ve li immergevo.
Nelle famiglie dove non c’era servitù, lenzuola, asciugamani e vestiario intimo non venivano mai stirati, avevamo altro da fare!
Per cui, quando alla fine degli anni ’50 mi sono trovata fra le mani il primo ferro da stiro elettrico è stata una vera liberazione. Sono stata una delle prime a comperare quello a vapore che avevo adoperato nella sartoria dove lavoravo!
Non c’è dubbio che l’emancipazione della donna è passata anche attraverso la liberazione delle corvée domestiche.
Armentina Bonini, tutti i diritti riservati
lunedì 6 aprile 2009
3. LA MIA PRIMA ESPERIENZA DA MONDINA: AVEVO 13 ANNI

«Affondo le mani per mondare il riso in un’acqua stagnante che mi arriva alle ginocchia. E’ il mio primo giorno di risaia, ho 13 anni e mezzo e cerco di imparare il più in fretta possibile. Ma ecco che tra le mani, invece di una pianta infestante mi capita una cosa viscida che si muove: oddio, è una grossa biscia! Terrorizzata, lancio un urlo e faccio un salto all’indietro, andando a finire addosso al “padron” che sta proprio alle mie spalle, osservando il mio lavoro. Cadiamo tutti e due in acqua. L’uomo, infuriato, non si trattiene e declama una raffica di bestemmie che non finisce più perché si è tutto inzuppato. Dobbiamo tornare alla cascina per cambiarci i vestiti e io mi sento come un cane bastonato».
E chi se lo può scordare questo primo giorno di maggio del 1937? Da allora la mondina l’ho fatta quasi tutti gli anni, per altri vent’anni.
Non ero certo la sola a partire per la risaia. Migliaia di contadine si avviavano dall’entroterra di Piacenza, Parma, Reggio, Modena per due volte all’anno. Era l’unica attività lucrativa per la donna, perché la mondina veniva pagata in soldi e in “riso”. L’organizzazione era perfetta. Le richieste arrivavano ai comuni. Ci si iscriveva e, il giorno fatidico, arrivava un camion che raccoglieva tutte le donne dei vari paesini della zona e ci portava alla stazione. Io prendevo il treno a Reggio Emilia. All’arrivo a Vercelli, Novara o Pavia, ci aspettava il cavallante con il suo carretto per portarci alla cascina che ci era stata assegnata.
Venivamo sistemate in grossi silos (che avrebbero poi raccolto il riso), suddivisi in cosiddette stanze da 20 posti e più dove c’erano predisposte delle brandine. La prima cosa da fare era andare a prendere il pagliericcio, cioè della paglia che veniva da noi sistemata in una grossa fodera portata apposta da casa e che ci serviva da materasso.
Il giorno dopo cominciava il duro lavoro. Sveglia alle 5 ½. Dopo aver bevuto ¼ di latte e un tocco di pane si andava nel campo da riso da mondare. Estirpare non era facile, c’erano delle piante così radicate nel terreno che per tirarle via ci voleva la forza di due persone.
Stop a mezzogiorno. La cuoca ci preparava un piatto di riso con fagioli o patate, e questo era il menu di tutti i giorni. Alle due si ritornava in risaia fino alle 19. Grazie ai sindacati, questo limite fu successivamente abbassato di un’ora.
Per cena, stesso menu del pranzo.
Ma per noi, anche se eravamo stanche morte, era la sera il momento magico, perché dopo aver mangiato e sistemato le nostre cose ci ritrovavamo tutte insieme a chiacchierare a cantare o a ballare tra donne. Gli uomini erano infatti molto pochi: solo i cavallanti. E quella, comunque, era una vita dura, ma non diversa da quella che facevamo nelle nostre famiglie.
L’unica cosa veramente insopportabile erano gli insetti, di cui la risaia era infestata: al mattino i moscerini, a mezzogiorno i tafani e la sera fameliche zanzare che non ti lasciavano dormire: una tortura.
Al giorno d’oggi tutto è stato sostituito dalle macchine e le mondine si sono emancipate… Altri tempi!
E chi se lo può scordare questo primo giorno di maggio del 1937? Da allora la mondina l’ho fatta quasi tutti gli anni, per altri vent’anni.
Non ero certo la sola a partire per la risaia. Migliaia di contadine si avviavano dall’entroterra di Piacenza, Parma, Reggio, Modena per due volte all’anno. Era l’unica attività lucrativa per la donna, perché la mondina veniva pagata in soldi e in “riso”. L’organizzazione era perfetta. Le richieste arrivavano ai comuni. Ci si iscriveva e, il giorno fatidico, arrivava un camion che raccoglieva tutte le donne dei vari paesini della zona e ci portava alla stazione. Io prendevo il treno a Reggio Emilia. All’arrivo a Vercelli, Novara o Pavia, ci aspettava il cavallante con il suo carretto per portarci alla cascina che ci era stata assegnata.
Venivamo sistemate in grossi silos (che avrebbero poi raccolto il riso), suddivisi in cosiddette stanze da 20 posti e più dove c’erano predisposte delle brandine. La prima cosa da fare era andare a prendere il pagliericcio, cioè della paglia che veniva da noi sistemata in una grossa fodera portata apposta da casa e che ci serviva da materasso.
Il giorno dopo cominciava il duro lavoro. Sveglia alle 5 ½. Dopo aver bevuto ¼ di latte e un tocco di pane si andava nel campo da riso da mondare. Estirpare non era facile, c’erano delle piante così radicate nel terreno che per tirarle via ci voleva la forza di due persone.
Stop a mezzogiorno. La cuoca ci preparava un piatto di riso con fagioli o patate, e questo era il menu di tutti i giorni. Alle due si ritornava in risaia fino alle 19. Grazie ai sindacati, questo limite fu successivamente abbassato di un’ora.
Per cena, stesso menu del pranzo.
Ma per noi, anche se eravamo stanche morte, era la sera il momento magico, perché dopo aver mangiato e sistemato le nostre cose ci ritrovavamo tutte insieme a chiacchierare a cantare o a ballare tra donne. Gli uomini erano infatti molto pochi: solo i cavallanti. E quella, comunque, era una vita dura, ma non diversa da quella che facevamo nelle nostre famiglie.
L’unica cosa veramente insopportabile erano gli insetti, di cui la risaia era infestata: al mattino i moscerini, a mezzogiorno i tafani e la sera fameliche zanzare che non ti lasciavano dormire: una tortura.
Al giorno d’oggi tutto è stato sostituito dalle macchine e le mondine si sono emancipate… Altri tempi!
Armentina
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domenica 5 aprile 2009
2. Come realizzare tessuti in canapa: dalla semina della pianta alla tela

La Signora Armentina, 84 anni, ha deciso di affidare alla memoria di questo blog la LAVORAZIONE DELLA CANAPA, attività che ha svolto fino agli anni ’50 nel suo paese di Sang Giovanni di Querciola e che permetteva alle famiglie di contadini di essere completamente autonome anche nella realizzazione dei tessuti, in particolare per il corredo delle figlie, allora indispensabile per ogni giovane sposa. Bastava seminare mezza biolca di terreno per il fabbisogno di una famiglia di 10 persone.
Ecco la sua descrizione:
LAVORAZIONE DELLA CANAPA nei ricordi di Armentina
La canapa assomiglia alle piantine di marijuana, ma noi, all’epoca, non sapevamo proprio cosa fosse la droga.
La semina avveniva nel mese di aprile e la raccolta a settembre.
Dopo aver raccolto la pianta si toglieva la semenza che sarebbe servita per la futura semina. Per togliere questa semenza la si bolliva con un po’ d’acqua e la si lasciava macerare.
In quanto alle piante di canapa, venivano fatte delle fascine che si immergevano nell’acqua per quaranta giorni.
Quando era pronta, la si toglieva dall’acqua, la si lavava, e la si metteva ad asciugare.
Una volta asciutta, veniva posta sopra un’ascia dove la si batteva con dei bastoni. Da questa battitura, venivano fuori i filamenti.
Questi fili vegetali grezzi venivano dati ad una persona che aveva il mestiere, cioè un attrezzo che serviva a pettinare i fili.
Da questa pettinatura uscivano tre tipi di filatura: il primo, il tarzeul era il filo più fine, quello che avrebbe fatto il lenzuolo più bello; il secondo era un trama un po’ più grossa e il terzo (tozz) era riservato alla filatura meno pregiata, ovvero asciugamani e canovacci.
Quando venivano restituite queste matasse di filo dovevano essere sbiancate, ovvero lavate in acqua bollente dentro un grande mastello, con l’aggiunta di cenere.
Una volta asciugate, si poteva passare a realizzare, con il telaio, la tela vera e propria.
Il telaio era di proprietà familiare ed occupava almeno cinque metri su quattro di una stanza (come quello nell’immagine).
Realizzata questa tela, veniva di nuovo sbiancata, ovvero stesa nel prato e lasciata alle intemperie per circa un mese. Questo passaggio permetteva di sbiancare e ammorbidire la tela.
A questo punto la tela era pronta per essere cucita e ricamata. La tessitura della canapa avveniva durante i mesi invernali, prima di quella della lana, che si doveva tessere sempre con lo stesso telaio.
Le “razdore” (massaie) erano in grado di realizzare, con questi due tipi di tele, anche il tessuto per i vestiti da uomo sia estivi che invernali. Insomma la famiglia contadina dell’epoca era autosufficiente non solo nel mangiare ma anche nel vestire.
Barbara Bertolini - tutti i diritti riservati
Ecco la sua descrizione:
LAVORAZIONE DELLA CANAPA nei ricordi di Armentina
La canapa assomiglia alle piantine di marijuana, ma noi, all’epoca, non sapevamo proprio cosa fosse la droga.
La semina avveniva nel mese di aprile e la raccolta a settembre.
Dopo aver raccolto la pianta si toglieva la semenza che sarebbe servita per la futura semina. Per togliere questa semenza la si bolliva con un po’ d’acqua e la si lasciava macerare.
In quanto alle piante di canapa, venivano fatte delle fascine che si immergevano nell’acqua per quaranta giorni.
Quando era pronta, la si toglieva dall’acqua, la si lavava, e la si metteva ad asciugare.
Una volta asciutta, veniva posta sopra un’ascia dove la si batteva con dei bastoni. Da questa battitura, venivano fuori i filamenti.
Questi fili vegetali grezzi venivano dati ad una persona che aveva il mestiere, cioè un attrezzo che serviva a pettinare i fili.
Da questa pettinatura uscivano tre tipi di filatura: il primo, il tarzeul era il filo più fine, quello che avrebbe fatto il lenzuolo più bello; il secondo era un trama un po’ più grossa e il terzo (tozz) era riservato alla filatura meno pregiata, ovvero asciugamani e canovacci.
Quando venivano restituite queste matasse di filo dovevano essere sbiancate, ovvero lavate in acqua bollente dentro un grande mastello, con l’aggiunta di cenere.
Una volta asciugate, si poteva passare a realizzare, con il telaio, la tela vera e propria.
Il telaio era di proprietà familiare ed occupava almeno cinque metri su quattro di una stanza (come quello nell’immagine).
Realizzata questa tela, veniva di nuovo sbiancata, ovvero stesa nel prato e lasciata alle intemperie per circa un mese. Questo passaggio permetteva di sbiancare e ammorbidire la tela.
A questo punto la tela era pronta per essere cucita e ricamata. La tessitura della canapa avveniva durante i mesi invernali, prima di quella della lana, che si doveva tessere sempre con lo stesso telaio.
Le “razdore” (massaie) erano in grado di realizzare, con questi due tipi di tele, anche il tessuto per i vestiti da uomo sia estivi che invernali. Insomma la famiglia contadina dell’epoca era autosufficiente non solo nel mangiare ma anche nel vestire.
Barbara Bertolini - tutti i diritti riservati
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