domenica 28 febbraio 2010

36. Ultima serata prima della partenza per l'America: anno 1956

Loreta Giannetti, italo-canadese, ci racconta la partenza per l’America. Una partenza dolorosa, straziante, vista con gli occhi di una bambina che sente sparire il proprio mondo. Gli emigrati che hanno vissuto le stesse emozioni si ritroveranno nel racconto della piccola molisana.


Fine dicembre 1956. Fa freddo in casa. Domani si parte per Napoli dove prenderemo il bastimento per l’America. Non riconosco più la mia casa. I mobili sono stati venduti. Sono rimaste solo tre sedie in mezzo alla cucina e le casse recuperate per la costruzione del presepio.
Il camino acceso che ci riscalda ci fa un po’ di luce con la sua fiamma. Fuori è buio. Notte senza stelle. Mia madre mi sembra più grande del solito. Quando cammina per la cucina, la sua ombra arriva fino al soffitto. Ho paura. Mia sorella dorme su una cassa che gli fa da culla. La casa la chiudiamo domani.

Stasera si veglia e si aspettano parenti e amici venuti a salutarci. Arrivano i nonni, arrivano gli zii e zie. Non sanno dove mettersi; mamma offre le sedie ai piu anziani e le casse ai più giovani. Nessuno ha voglia di parlare; si piange solamente. Anche il fuoco tace stasera. Fa freddo e buio. Tutti di nero vestiti, come ad un funerale. Solamente occhi rossi, solo occhi bagnati da tante lacrime.
La nonna si mette a parlare a bassa voce con mia madre. Forse gli parla di mio padre, suo figlio che ci aspetta in America. Ma le lacrime di mamma aumentano sempre più. Mi avvicino e lei mi prende fra le sue braccia. La prima volta da tanti mesi.

Fuori una fisarmonica si mette a suonare: una canzone triste poi altre due e niente più. Si sente il passo del musicista che si allontana. Arriva altra gente, vicinato, amiche di mia madre, comari e compari: cominciano piano piano grida di dolore.
Grida di mamma straziata da questa partenza e grida di quelli che rimagono. Grida delle nonne, delle zie, delle comari. Gli uomini tacciono e fissano il fuoco del camino, la sigaretta in bocca. Non dicono niente. Dopo un po’ se ne vanno tutti. «Vi accompagniamo domani alla stazione!».
La cucina si è riscaldata; il fuoco rimane fedele: è lui che ci fa compagnia fino alla fine della notte.

Mia sorella dorme sempre. Mia madre prepara un lettino fatto di casse di legno del presepio. Ci mette la grossa coperta verde e mi prende fra le braccia e lì, distese sulla terra di Betlemme, vicino al fuoco, arriva il sonno. Tutto ormai è buio intorno a noi.


Loreta Giannetti

sabato 20 febbraio 2010

35. La messa, la questua.... e le arance

Due storie, quella di Betty e quella di Armentina (post 34), chiariscono la vita religiosa di allora. Tutta la giornata era segnata dalla religiosità: rosari, campane che scandivano il tempo contadino, riti e feste religiose che fermavano il lavoro e la messa che diventava il momento scelto dai giovani per scambiarsi occhiate e sondare le intenzioni. Insomma si era religiosi perché così andava il mondo. La prima storia si svolge negli anni '50, mentre la seconda all'inizio degli anni '30.



Betty Delacrétaz racconta:

en allant à la messe du dimanche je passais devant la vitrine du magasin d'alimentation. Or un dimanche que vois-je : des oranges !
Je n'avais pour argent que les lires que Maman mettait dans le livre de messe. Des lires pour payer la chaise, et d'autres pour la collecte.
Je comptais et recomptais ma fortune et courageusement j'entrais dans le magasin, avec toutes mes lires je reçus 2 oranges.
Pendant tout le trajet du retour (environ 1 heure) j'ai contemplé et humé le parfum délicieux de ces fruits. En arrivant j'ai donné les oranges à Maman qui les a partagées entre tous.
Il fallait se tenir à la table tant elles étaient acides.
Pour moi ces oranges restent dans ma mémoire comme étant les fruits les plus délicieux , savoureux et parfumés que j'ai mangés.
C'étaient d'autres temps. Ce vécu me fait apprécier chaque jour le bien-être dont je jouis.

Traduzione :
Andando a messa la domenica, passavo davanti ad una vetrina del negozio alimentari. Una volta vidi delle belle arance. Avevo in tasca solo le lire che Mamma mi metteva nel libro della messa. Lire che servivano per pagare la sedia in chiesa e per la questua.
Contai e ricontai il mio piccolo tesoro e coraggiosamente entrai nel negozio: con quei soldi ricevetti due arance.
Durante tutto il tragitto di ritorno (quasi un’ora) ho contemplato e annusato il profumo delizioso di questi frutti. Arrivando ho dato le arance a Mamma che le ha divise tra tutti.
Bisognava afferrarsi al tavolo per quanto erano acide. Ma per me queste arance restano ancora nella mia memoria come i frutti più deliziosi, saporiti e profumati che abbia mai mangiato.
Erano altri tempi. Questo vissuto mi fa apprezzare ogni giorno il benessere di cui godo.

34. Le pecore di Sant'Antonio

Armentina, invece, non aveva una mamma altrettanto tollerante e, bisogna dirlo, la sua azione è stata molto più insolente di quella di Betty.



Racconta dunque l’Armentina:

Premetto che da quando avevo 6 anni tutte le mattine da aprile a ottobre mia mamma mi svegliava all’alba per mandarmi a pascolare le pecore (ore 5 o 4, secondo i mesi). In inverno, invece, mi si buttava giù dal letto alle 8. Solo con la neve facevo festa perché le pecore non uscivano.
Un lavoro che ho sempre odiato per vari motivi: facevo una fatica immane per uscire dal sonno, non amavo questo attività dove non serviva la bravura, ma soprattutto perché solo a me era richiesta tale mansione; mai a mia sorella più grande.
Dovevo avere 8-9 anni quando mia madre mi mandò a messa e mi diede 20 centesimi per darli a Sant’Antonio. Mi disse che gli dovevo chiedere la grazia di conservare i nostri animali sani. Era, infatti, il 17 gennaio festa di Sant’Antonio Abate. Andai in chiesa e la statua del santo era stata messa in mezzo alla navata, sopra un grande drappeggio dove tutti buttavano i loro soldi e chiedevano la grazia. La chiesa era affollata, la messa veniva ufficiata da vari celebranti e io osservavo attentamente il Santo: ting, ting, le monetine cadevano a fiotti sul telo, ma lui non si abbassava mai e non diceva grazie. Allora, tra me e me, mi son detta che non era lui a ricevere i soldi ma i preti e ho quindi deciso di spendere quelli che mi aveva dato mia mamma (una grande somma per il periodo) per comperare il castagnaccio e gli “scachetti” (arachidi) che avevo visto su una bancarella prima di entrare. Ma prima di uscire dalla chiesa domandai comunque al Santo una grazia: quella di far morire tutte le pecore e di salvare solo gli altri animali.



Il proprietario della bancarella fece resistenza, gli sembrava strano che una bambina potesse spendere tanti soldi per delle golosità. Alla fine cedette, allora chiamai tutti i miei amici e ci facemmo una scorpacciata di castagnaccio come mai era capitato in vita nostra.
Appena arrivata a casa, andai subito nell’ovile a verificare se le pecore erano morte. Ma niente, Sant’Antonio non mi aveva fatto nessuna grazia: erano tutte lì, vive e vegete. Che delusione!
Quando mia madre mi chiese se avevo dato i soldi risposi di no, perché quei soldi non se li prendeva il Santo ma i preti che c’erano. Mi corse dietro con le pinze del camino. Per fortuna uno zio presente  la bloccò e le disse: «la bambina ha detto la verità e guai a te se la tocchi!» E, per la prima volta in vita mia, me la cavai senza botte, com’ero contenta…..

martedì 16 febbraio 2010

33. Fino agli anni '50 il latte appena munto veniva consegnato tutti i giorni porta a porta

Ines e Armentina rispondono alla domanda di Simonetta, ovvero come veniva trasportato e conservato il latte nelle case prima del frigorifero.

Pensavo di cavarmela con due parole, ma sentendo le esperte ho capito che ci scappava un post.

Ebbene sì, il latte veniva comperato giorno per giorno sia in città che in campagna perché poteva al massimo durare due giorni, ma solo se faceva freddo.
A San Giovanni, negli anni ’40, e fino agli anni ’50 c’era una donna che chiamavano “la lataröla”, che passava di casa in casa con il suo latte contenuto in un bidone di alluminio, che trasportava sopra un rudimentale carretto. Aveva un mestolo che misurava esattamente mezzo litro. Per cui versava il latte richiesto nei contenitori che le porgevano le massaie, quasi sempre una bottiglia di vetro dal collo largo. La lataröla chiedeva alle famiglie se volevano il latte anche il giorno dopo e, sapeva quindi, grosso modo, quanto latte portare. Altrettanto si faceva in città, dove passava un contadino o contadina con i suoi bei bidoncini.
Questo latte non era pastorizzato e, normalmente, lo si doveva bere solo dopo averlo bollito. Io ricordo invece di una zia che, sapendo la mia passione per il latte, quando mungeva la mucca, me lo spruzzava direttamente in bocca (e inevitabilmente sul viso), buonissimo!
Nei paesi dove c’era la latteria, le mamme mandavano i figli a prendervi il latte con un bottiglione o un piccolo bidone che aveva una chiusura ermetica. Ma durante i mesi invernali (da novembre a marzo) la latteria chiudeva. Ed era in quel momento che la “razdora”, altro termine emiliano per indicare la padrona di casa, con il latte delle sue mucche faceva il formaggio, il burro e la ricotta. Molti di voi, sono sicura, hanno ancora in bocca il sapore di questa ricotta calda appena fatta, che veniva messa sul pane con un cucchiaio di siero.

La contadina nel passato era una lavoratrice instancabile, a tempo pieno, e riusciva non solo a rassettare la casa, occuparsi dei figli, del marito, degli uomini e anziani della famiglia, preparare il pranzo, ma anche a produrre alimenti, ad accudire il bestiame, lavorare i campi e realizzare tessuti per indumenti.
***°°°***
Ecco una buona notizia: è ritornato nelle nostre città il latte di giornata, quello munto di fresco.
Infatti, Ines dice che a Reggio Emilia ci sono ormai vari negozi dove si può comperare latte di giornata. Una mucca disegnata in grande sulla vetrina indica inequivocabilmente il tipo di prodotto venduto. Ci siamo stancati di bere latte che non sa più di nulla, non si sa dove e quando è stato prodotto e arriva sulle nostre tavole dopo aver percorso anche 2000 km. Questi negozi certificano, invece, la provenienza vicina e la qualità del latte: EVVIVA LA GENUINITA’

Barbara

martedì 9 febbraio 2010

32. Quando la Chiesa dettava le regole della sobrietà, anche ai bambini



di Betty Delacrétaz



Je me souviens, j'avais environ 6 ans nous étions à Valle di Sotto province de Vicenza, où comme dans beaucoup de régions les curés régnaient en maîtres et seigneurs.
Nous nous préparions avec enthousiasme à la Fête Dieu. A cette occasion des petits paniers en osier avaient été fabriqués Ils étaient remplis de pétales de roses. Pour moi c'était un évènement....
La procession allait démarrer, tous les enfants étaient derrière le baldaquin et la joie était à son comble, lorsque une dame proche du curé qu'on appelait « la perpetua »s'approcha de moi, me prit par la main, et me fit sortir des rangs car ma robe ne couvrait pas les genoux. Mon crime: j'avais grandi un peu trop vite et, faute de moyens, la garde-robe n'avait pas suivi!

Je demeure persuadée que la stupidité et l'ignorance de certains ont largement contribué à la désertification des églises.


***°°°***
Traduzione:
Mi ricordo, avevo circa 6 anni e vivevamo a Valle di Sotto in provincia di Vicenza, dove come in molte altre regioni i preti regnavano padroni e sovrani incontrastati.
Ci preparavamo con entusiasmo alla festa del Corpus Domini. Per l’occorrenza erano stati realizzati piccoli cesti in vimini che avevamo riempito di petali di rose. Per me era un avvenimento eccezionale….
La processione iniziava, tutti i bambini erano dietro al baldacchino e la gioia era al culmine quando la “perpetua, una signora al servizio del sacerdote , mi si avvicinò, mi prese per mano e mi fece uscire dalla fila perché il mio vestito non copriva le ginocchia. Il mio crimine: ero cresciuta troppo in fretta e, per mancanza di soldi, il guardaroba non aveva seguito l’evoluzione!
Rimango persuasa che la stupidità e l’ignoranza di certi hanno largamente contribuito alla desertificazione delle chiese.
****
La Signora Delacrétaz è svizzera d'origine vicentina e ha deciso di lasciare a questo blog, nella lingua che domina meglio, le sue considerazioni sul passato. La ringrazio di cuore. La traduttrice-traditrice del suo pezzo sono io. Barbara