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venerdì 11 dicembre 2009

25. Bambinaia a Milano negli anni '50

Che anni duri per le contadinelle adolescenti costrette a lavorare per racimolare qualche lira!



di Ines Bonini


Doveva essere la prima metà degli anni ’50, non avevo più di 12 anni e fino a quel momento mi ero allontanata dal mio paese al massimo una ventina di chilometri per andare a trovare i vari parenti. Era un giorno d’autunno e mi stavo preparando per partire a Milano. Una paesana aveva la figlia che lavorava in quella città e mi aveva trovato un posto da bambinaia. Baby-sitter si direbbe oggi, ma allora ero considerata serva, tò, proprio perché giovane, servetta, ovvero una domestica che avrebbe vissuto in una famiglia e che avrebbe dovuto occuparsi di un bambino di 7 mesi e della pulizia della casa per una coppia di giovani sposi benestanti ma non ricchi, che abitavano San Donato Milanese.

Partii di buon’ora con la corriera che mi portava a Reggio Emilia e lì, da Porta Castello, dove si fermava il mezzo, sarei dovuta andare a piedi alla stazione, prendere il treno e, una volta giunta a Milano mettermi una fascia bianca al braccio e sperare di trovare la Signora che mi veniva a prendere. Per me già Reggio Emilia fu una scoperta incredibile: tutte quelle case, quel via vai di gente. Ma quando giunsi a Milano, ormai verso sera, rimasi a bocca aperta. Non avevo mai visto tanta gente prima, chi andava su, chi andava giù, chi a destra, chi a sinistra, in un moto perpetuo. Mi prese un’angoscia terribile di non trovare la Signora in mezzo ad una folla così. E le luci! Mamma mia che illuminazione potente, sembrava di stare in estate a mezzogiorno. Nemmeno il sole riusciva ad illuminare così bene le strade come i lampioni della stazione di Milano. Nel mio paese non esisteva l’elettricità per cui passare dalla lucerna alla luce fosforescente delle lampadine al neon mi sembrava straordinario.

Alla fine del binario una giovane signora si fece avanti e io mi sentii infine salva. Ma quando fui fuori dalla stazione e vidi tutte quelle auto percorrere velocemente le strade mi ritornò la paura perché mi chiedevo come avremmo fatto ad attraversare!

San Donato Milanese cominciava solo allora ad urbanizzarsi per cui, quando la domenica andavo a trovare la mia amica che abitava molto distante e tornavo di sera, avevo sempre una gran paura ad attraversare il quartiere ove giravano brutti ceffi.

In quella casa di San Donato Milanese trovai anche una vecchietta che mi prese in simpatia. La sera, quando avevo fatto addormentare il bambino e sistemato la cucina, mi chiamava in camera sua ad ascoltare le commedie alla radio…. anche quella una grande novità per me!

Con il primo stipendio, 12 mila lire, mi comperai il cappotto, che non avevo. La Signora mi portò alla Rinascente (mai immaginato un negozio con tutto quel ben di dio e le scale mobili!). Purtroppo, per quella somma mi dovetti accontentare di uno bruttissimo che non mi piaceva indossare. A San Donato Milanese stetti per otto mesi. Tornai a casa con una grande voglia di rivedere la mamma. Speravo mi aspettasse alla corriera. Quando scesi, c’era una signora girata di spalle che le assomigliava. Le corsi incontro a braccia aperte. Che delusione quando si girò. Mia madre, invece, come al solito stava nella stalla ad accudire le mucche.

Feci un’altra esperienza da “serva” l’anno dopo. Fu più divertente perché ci presero in due nella stessa casa. L’episodio che più mi è rimasto impresso di questa seconda esperienza è il fatto che una sera, quando i padroni erano già andati a dormire e stavo per mettere della carta nella stufa, da questi giornali stropicciati caddero delle lire. Dispiegai il tutto e scoprii che dentro c’erano parecchi soldi. Era l’incasso della giornata che i due, commercianti, avevano sbadatamente abbandonato vicino alla stufa avvolti appunto in un giornale spiegazzato, probabilmente per nasconderli ad eventuali rapinatori. Fui così in collera con loro che li andai a svegliare e glie li feci vedere dicendogli: «Se io non me ne fossi accorta in tempo, voi domani mi avreste accusato di furto!»

***

 

Per la cronaca, dopo queste esperienze milanesi, sono riuscita ad entrare nell’Ospedale di Reggio Emilia dove ho frequentato i corsi per infermiera, diventando poi infermiera neonatologa (a qualcosa è servito lavorare come bambinaia!).

lunedì 6 aprile 2009

3. LA MIA PRIMA ESPERIENZA DA MONDINA: AVEVO 13 ANNI


«Affondo le mani per mondare il riso in un’acqua stagnante che mi arriva alle ginocchia. E’ il mio primo giorno di risaia, ho 13 anni e mezzo e cerco di imparare il più in fretta possibile. Ma ecco che tra le mani, invece di una pianta infestante mi capita una cosa viscida che si muove: oddio, è una grossa biscia! Terrorizzata, lancio un urlo e faccio un salto all’indietro, andando a finire addosso al “padron” che sta proprio alle mie spalle, osservando il mio lavoro. Cadiamo tutti e due in acqua. L’uomo, infuriato, non si trattiene e declama una raffica di bestemmie che non finisce più perché si è tutto inzuppato. Dobbiamo tornare alla cascina per cambiarci i vestiti e io mi sento come un cane bastonato».

E chi se lo può scordare questo primo giorno di maggio del 1937? Da allora la mondina l’ho fatta quasi tutti gli anni, per altri vent’anni.
Non ero certo la sola a partire per la risaia. Migliaia di contadine si avviavano dall’entroterra di Piacenza, Parma, Reggio, Modena per due volte all’anno. Era l’unica attività lucrativa per la donna, perché la mondina veniva pagata in soldi e in “riso”. L’organizzazione era perfetta. Le richieste arrivavano ai comuni. Ci si iscriveva e, il giorno fatidico, arrivava un camion che raccoglieva tutte le donne dei vari paesini della zona e ci portava alla stazione. Io prendevo il treno a Reggio Emilia. All’arrivo a Vercelli, Novara o Pavia, ci aspettava il cavallante con il suo carretto per portarci alla cascina che ci era stata assegnata.

Venivamo sistemate in grossi silos (che avrebbero poi raccolto il riso), suddivisi in cosiddette stanze da 20 posti e più dove c’erano predisposte delle brandine. La prima cosa da fare era andare a prendere il pagliericcio, cioè della paglia che veniva da noi sistemata in una grossa fodera portata apposta da casa e che ci serviva da materasso.
Il giorno dopo cominciava il duro lavoro. Sveglia alle 5 ½. Dopo aver bevuto ¼ di latte e un tocco di pane si andava nel campo da riso da mondare. Estirpare non era facile, c’erano delle piante così radicate nel terreno che per tirarle via ci voleva la forza di due persone.
Stop a mezzogiorno. La cuoca ci preparava un piatto di riso con fagioli o patate, e questo era il menu di tutti i giorni. Alle due si ritornava in risaia fino alle 19. Grazie ai sindacati, questo limite fu successivamente abbassato di un’ora.
Per cena, stesso menu del pranzo.
Ma per noi, anche se eravamo stanche morte, era la sera il momento magico, perché dopo aver mangiato e sistemato le nostre cose ci ritrovavamo tutte insieme a chiacchierare a cantare o a ballare tra donne. Gli uomini erano infatti molto pochi: solo i cavallanti. E quella, comunque, era una vita dura, ma non diversa da quella che facevamo nelle nostre famiglie.
L’unica cosa veramente insopportabile erano gli insetti, di cui la risaia era infestata: al mattino i moscerini, a mezzogiorno i tafani e la sera fameliche zanzare che non ti lasciavano dormire: una tortura.
Al giorno d’oggi tutto è stato sostituito dalle macchine e le mondine si sono emancipate… Altri tempi!

Armentina