mercoledì 23 febbraio 2011

50. Antichi Romani e il mio viaggio-studio negli Stati Uniti

di Nicoletta Barbarito

Anni fa con il mio nipotino di 5 anni - in visita dalla California – andai al Colosseo. Più che dall’immenso edificio, il bambino fu impressionato dai finti gladiatori romani con le facce truci, cimieri, mantelli svolazzanti e daghe di legno argentato. Li osservò a lungo, pensieroso, girando loro intorno, poi disse in tono serio, “Nonna, quando tu eri piccola, al tempo degli antichi Romani…”

Domanda giustificata, agli occhi dei bambini tutto è contemporaneo! Proprio al tempo degli antichi Romani non c’ero, risposi, ma a Roma nell’altro secolo sì, fin da prima della metà. Sempre tempi antichi erano.
In quei tempi di romani antichi, andai in America (1960).

Fra il vecchio e il nuovo mondo non c'era soltanto l’oceano. Era proprio un altro mondo. Chi in Italia conosceva i due Paesi (emigranti a parte) ci era arrivato attraverso gli studi, i libri, il cinema, le canzonette, il jazz. Dopo la ricostruzione degli anni Cinquanta, l'Italia era sì in pieno boom economico, ma nelle famiglie borghesi e in generale per le ragazze, ancora poco si era mosso. Il femminismo era di là da venire, i diritti delle donne erano ai primordi, non c’era il divorzio. Solo chi aveva finito il liceo poteva accedere a tutte le facoltà universitarie: studi seri, i professori onnipotenti, severi, distanti. Turisti di passaggio e residenti stranieri a parte, nello stivale tutti erano italiani, mangiavano all’italiana, pochi avevano familiarità con le lingue (e semmai con il francese). La maggioranza degli intellettuali italiani che nel dopodguerra hanno tradotto gli autori americani non aveva mai messo piede negli States.

Le Olimpiadi di Roma erano lì lì per cominciare. Ero appena laureata (allora ci si laureava in 4-5 anni, era normale), parlavo piuttosto bene l'inglese avendo fatto due lunghi soggiorni in Inghilterra come ragazza alla pari. Grazie ad una borsa di studio, insieme ad altri 9 borsisti feci la traversata da Napoli a New York sulla "Leonardo da Vinci". Delle mie compagne, soltanto due avevano passato un anno in America, una in un college sempre grazie ad una borsa di studio, l’altra ospite di uno zio giornalista corrispondente da Washington. Anche fra gli intellettuali che negli anni precedenti avevano tradotto e pubblicato in Italia gli autori americani, del resto, pochi avevano visto la Statua della Libertà, avendo imparato l’inglese – chi più chi meno - sui libri.

Arrivati a New York i 10 borsisti presero strade diverse. La destinazione mia e di due bolognesi era Cornell University a Ithaca, stato di New York, non lontano dalle cascate del Niagara. Un immenso campus su verdi colline, con torrenti, laghetti e una cascata.

Il nome “Ithaca”, in particolare, mi attraeva, venivo da studi classici. Che fosse la fine piuttosto che l’inizio di un’avventura? Un ritorno? Non troppo lontano da Ithaca, circa sei ore di viaggio da NY, vedo tre cartelli direzionali: Berlin, Babylon, Rome. Fantastica, sconcertante geografia, anche liberatoria. Nel Nuovo Mondo è tutto da inventare. Ma perché aver chiamato “Babilonia” una tranquilla cittadina nel verde? (magari c'è anche una Sodoma,da queste parti...)
Vi passo, scrivendole al presente, alcune mie impressioni di allora. Sì, è roba stantìa, banale “déjà vu”! Le distanze ormai non esistono più, gli italiani viaggiano freneticamente, Google solleva in un attimo da ogni curiosità. Ma allora, per una "antica romana" oltretutto giovane, erano grandi novità da scrivere a casa (obbligatoriamente una volta la settimana), esperienze invidiabili e invidiate.