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mercoledì 30 settembre 2009

18. Fonti di calore nel passato


di Mariolina Perpetua

(foto: antico camino di Incoronata Piunno)


Il camino
La fonte di calore, in casa, era il camino, sistemato nella cucina, centro di vita della famiglia. Oltre ad emanare calore nella cucina stessa, dava la possibilità di riscaldare altri ambienti, raccoglieva attorno a sé la famiglia, provvedeva a cuocere i cibi. La fiamma crepitante era la gioia di adulti e piccoli. In realtà la cucina era l’ambiente di tutti: per i più grandi che assolvevano ai loro impegni: cucinare, stirare, sferruzzare, recitare sommessamente la corona del rosario; per i più piccoli che accudivano ai loro compiti o si dedicavano ai giochi. Ricordo che in quasi tutte le stagioni dell’anno il camino rimaneva acceso.
Alla grossa catena che scendeva dalla canna fumaria si appendeva il “caldaio” (paiolo), che permetteva di avere acqua sempre calda e consentiva la cottura di verdure (“le foglie” e pasta (anche “sagne” fatte in casa), nonché la preparazione della polenta, alimento base della popolazione, fino a poco tempo fa, nei paesi ad economia agricola-pastorale. – Lascio immaginare cosa accadeva, ed accadeva, se, per la fretta, non si agganciava bene il caldaio alla catena ed il contenuto si rovesciava sul fuoco. - Recipienti di terracotta, in genere le “pignatte”, erano utilizzati per la cottura di legumi, mentre tegami bassi e larghi erano utili per la cottura di carni e per la preparazione di sughi.
La pignatta era accostata alla fiamma o alla brace - una pignatta di fagioli era “un classico” nel camino di ogni casa -, le altre pentole erano sistemate su “treppiedi” di ferro sotto cui si disponeva la brace. Le “graticole” servivano per gli arrosti di carne e di pesce.
Un gusto ed un sapore particolare assumevano i cibi cotti “sotto la coppa”, ovvero in ruoti di stagno o di rame, internamente battuti in stagno, chiusi da un coperchio su cui veniva sistemata la brace. Buonissime le “patate sotto la brace”. Sotto la brace, mia nonna era solita preparare focaccine o panettoncini di un uovo, dal “gusto particolarissimo”, ma “speciale”, come poteva essere un dolce per una bambina del primissimo dopoguerra, quando non si trovava niente o quasi niente.
Nel panierino dell’asilo era custodito il sapore di casa, delle cose care, della dolcezza e dell’impegno della nonna, che ce la metteva tutta per accontentarmi e rendermi più gradite le ore di permanenza fuori casa.
La mattina non era insolito sentire il borbottio delle “cuccume”, dove bolliva l’acqua per l’orzo o per il the, mentre si riscaldava il latte, ed il gorgoglio del caffè preparato nella “macchinetta alla napoletana”.
Nelle sere d’inverno, spesso, capitava di consumare, per cena, latte e the, secondo un uso nordico, divenuto consuetudine anche nella famiglia di mio padre che era vissuta a lungo nel Nord-Est d’Italia. E quando arrivava “ziPaulill’, perché il tepore del camino conciliava il sonno, si partiva per il “teatro Bianchini tra coperte e cuscini”, intiepiditi durante l’inverno, per attenuare il senso di freddo e di umidità che inevitabilmente si percepiva sotto le coperte, nonostante pesanti camicie da notte o pigiami.
Il focolare era adibito, dunque, a molti usi. La brace, infatti, sistemata in scaldini veniva infilata nel letto, con un apposito “attrezzo”: il monaco”, che serviva a tenere lontano le coperte dal fuoco. Messa in “bracieri”, riscaldava le altre stanze e nella stagione fredda gli stessi bracieri, sormontati da una “campana” in doghe di legno assai flessibili, si trasformavano in “asciugatrici”. Anche la cenere aveva la sua utilità. Infatti, grazie al suo contenuto di carbonato sodico e potassico, sali che un tempo si estraevano in larga scala proprio dalla cenere dei vegetali, era usata per fare il bucato.

Il forno
Per il pane, che si faceva in casa, ci si serviva del forno, generalmente sistemato accanto al camino. Il forno dei miei ricordi non era diverso dai molti che ancora oggi si vedono nelle case di campagna: “edificio a volta con apertura semicircolare nel quale va cotto il pane, dopo averlo riscaldato” (Zanichelli). Come per accendere il fuoco nel camino, anche per preparare il forno e capire la temperatura giusta per una buona cottura del pane, l’esperienza era preziosa. Il calore del forno, dopo “l’infornata” del pane, serviva anche a cuocere cibi, in particolare pizze al pomodoro preparate con la stessa pasta del pane, e dolci.
La fornacella
Nella buona stagione, in estate soprattutto, che, tra l’altro, al mio paese non durava molto, era utilizzata “la fornacella”, costruzione solida, in muratura, ricoperta da piastrelle di ceramica azzurra e gialla, a due sportelli che davano l’accesso a piccole “camere” per l’accensione dei carboni. Sul ripiano, due bocche coperte da cerchi concentrici di ferro, che venivano tolti e aggiunti a seconda della grandezza delle pentole. Non era raro accendere contemporaneamente camino e fornacella per accelerare i tempi di preparazione del pranzo e della cena.

17. Fonti di calore nei tempi passati - 2 -




Riscaldamento e scuola di Mariolina Perpetua

Come le abitazioni, anche le aule scolastiche erano molto fredde. L’intervento del Comune in fatto di fornitura di legna da ardere in piccole stufe di terracotta o di ghisa di cui erano dotate le scuole, era sempre insufficiente; per questo ogni alunno doveva portare un piccolo fardello di legna da ardere. Per me era facile rifornirmi in casa, ma per i miei compagni la situazione era un po’ diversa, essendo il paese molto povero. Infatti essi “facevano la legna”, quando portavano al pascolo “gli animali”, stando ben accorti a non entrare nelle proprietà private.

 
Per concludere, dopo gli anni ’50, una “cucina economica”, a legna, emanava un dolce tepore nella “cucina” della casa dove ho trascorso la mia infanzia. Con la canna fumaria si riscaldavano anche le freddissime camere da letto del secondo piano. La cucina economica sostituiva in pieno il camino e la fornacella. Intorno agli anni ’60 sulla fornacella fu deposto un fornello a gas a tre fuochi. Poco dopo la “fornacella” fu abbattuta e sostituita da un bel mobile bianco, nuovo, in ferro smaltato. Eravamo entrati in un’altra era, anche la mia famiglia si convertiva alla “tecnologia”.

domenica 7 giugno 2009

11. Come pungevano le maglie di lana di pecora!


di Mariolina Perpetua
Negli anni ’50 gli inverni furono lunghi e freddissimi. Nel ’54 e nel ’56 abbondantissime nevicate imbiancarono ripetutamente i paesi del Molise, impedendo la circolazione o rendendola difficoltosa. Cumuli di neve a lungo fiancheggiarono le strade, dopo il passaggio degli spazzaneve, lenti e pesanti. Il transito avveniva solo con catene e avventurarsi su uno spesso strato di ghiaccio fu consuetudine per molti giorni. Le precipitazioni furono tali che anche l’attività scolastica venne interrotta.
Il ricordo dell’infanzia è sempre dilatato, ma le nevicate di quegli anni sono proverbiali. Oggi, per le mutate condizioni atmosferiche, non si verifica niente di simile.

Ciò di cui vorrei parlare, però, non è tanto dell’inclemente stagione invernale, quanto del freddo che essa comportava e dei sistemi con cui si era soliti difendersi. La sensazione fastidiosa delle maglie di lana di pecora è ancora viva: la cardatura della lana, infatti, non era raffinata e le impurità diventavano, sulla pelle, piccolissimi aculei. La lana stessa con cui erano realizzate le maglie intime, le sottovesti e spesso anche le calze, era grezza. Solo ripetuti lavaggi rendevano quegli indumenti più sopportabili. Ogni cambio di maglia nuova, pulita, era una vera tragedia. Tuttavia, riuscivano allo scopo, quello di far fronte al freddo e all’umidità del mio paese Carpinone, sito in montagna (m. 657 l/m nel punto più basso - la stazione ferroviaria -) ed attraversato dal fiume Carpino.

La lana era lavorata nel mio stesso paese da un opificio a conduzione familiare, che provvedeva alla filatura della materia prima, alla cardatura, alla ritorcitura e alla confezionatura della lana appena tosata. La materia prima, sebbene in piccola percentuale, era fornita dagli stessi contadini che affiancavano al lavoro dei campi l’allevamento ovino. Risuonano ancora nelle orecchie il ticchettio della macchina e la spola che torna indietro. Qualche volta mi sono affacciata nel buio locale e ricordo di aver visto fusi di lana grigiastra, intrisa di olio. A lavoro concluso e prima della lavorazione, la lana, ridotta in matasse, veniva sciorinata al sole, dopo essere stata lavata e sbattuta sul greto del fiume.

Gli indumenti intimi erano, dunque questi, per tutti. Anzi, gli uomini indossavano lunghi mutandoni, sotto i pantaloni. Era facile, a quei tempi, vedere le donne sferruzzare sull’uscio di casa durante la buona stagione. Confezionavano gli indumenti di cui ho appena accennato, spesso disfacendoli per farne nuovi, adatti ai rampolli in crescita. La perizia era tale che le contadine, tornando dal lavoro dei campi, avevano tra le mani piccoli ferri, generalmente quattro, adatti soprattutto a realizzare calze; calze che duravano una vita, rattoppate, allungate, allargate.

Gli indumenti della mia famiglia, erano, invece, confezionati da brave magliaie. Solo negli anni di scuola media, potei indossare maglie di lana Borgosesia, sempre a manica lunga, rosa o beige, confortevoli, soffici, piacevoli al contatto della pelle. Piccoli aggiustamenti erano affidati a mia nonna, abbastanza capace di rifacimenti e rammendi. Col tempo, durante gli anni ’60, grazie anche al riscaldamento degli ambienti, gli indumenti divennero più leggeri, più eleganti e raffinati. Oggi, realizzati in tessuti sempre più nuovi e ricercati, non mancano di gusto e di raffinatezza.