domenica 12 aprile 2009

4. A 12 ANNI LA PRIMA PAGA COME CANNEGGIATORE


Ecco il racconto del Signor Franco Palladino:


«Nato nel 1948 in una famiglia di contadini molisani, a 12 anni ero un ometto cui spettavano già varie responsabilità, come quella di accudire gli animali del piccolo podere che avevamo. Un giorno un geometra venne a trovare mio padre e, vedendomi all’opera, chiese se poteva portarmi con sé perché aveva bisogno di un ragazzetto in gamba per un lavoretto. Sarei stato pagato, disse, e, il lavoro era alla mia portata poiché si trattava di fare il canneggiatore. Né io, né mio padre sapevamo cosa fosse questo mestiere. Il geometra allora spiegò che si trattava di prendere le misure dei terreni e io avrei dovuto allenarmi a fare un passo di un metro e poi di percorrere il perimetro dell’area contando i passi che facevo. Così diventava più facile per lui calcolarne le misure.
Si chiamava canneggiatore perché, all’inizio per le misurazioni topografiche si utilizzava una canna, diventata poi metrica, ovvero un’asta graduata la cui lunghezza variava da regione a regione entro 2 o 3 metri.
Mio padre acconsentì e dovetti immediatamente mettermi all’opera per imparare a fare quel famoso passo lungo esattamente un metro. Mi ci vollero tre-quattro giorni di allenamento prima di essere pronto. Svolsi poi il mio compito con grande attenzione e il geometra ne fu contento.
Quando terminai il periodo e dovetti andare in banca a prendere i soldi guadagnati fu emozionante: 64 mila lire, una fortuna per me!
Ma che delusione quando l’impiegato non volle consegnarmeli perché ero minorenne. Negò, altresì, di darli a mio padre che non aveva svolto lui il lavoro. Insomma una situazione kafkiana poiché pretendeva di consegnarmeli alla mia maggiore età, cioè a 21 anni. Poi, per fortuna, il geometra riuscì a trovare una soluzione e io, con quei soldi, mi rivestii tutto: scarpe, pantaloni lunghi (li avevo ancora corti), camicia, cravatta, giacca…. e ne avanzarono altri.
Al giorno d’oggi, per misurare un terreno, basta il GPS che punta il satellite e l’area è calcolata in un attimo! Addio canneggiatore».

lunedì 6 aprile 2009

3. LA MIA PRIMA ESPERIENZA DA MONDINA: AVEVO 13 ANNI


«Affondo le mani per mondare il riso in un’acqua stagnante che mi arriva alle ginocchia. E’ il mio primo giorno di risaia, ho 13 anni e mezzo e cerco di imparare il più in fretta possibile. Ma ecco che tra le mani, invece di una pianta infestante mi capita una cosa viscida che si muove: oddio, è una grossa biscia! Terrorizzata, lancio un urlo e faccio un salto all’indietro, andando a finire addosso al “padron” che sta proprio alle mie spalle, osservando il mio lavoro. Cadiamo tutti e due in acqua. L’uomo, infuriato, non si trattiene e declama una raffica di bestemmie che non finisce più perché si è tutto inzuppato. Dobbiamo tornare alla cascina per cambiarci i vestiti e io mi sento come un cane bastonato».

E chi se lo può scordare questo primo giorno di maggio del 1937? Da allora la mondina l’ho fatta quasi tutti gli anni, per altri vent’anni.
Non ero certo la sola a partire per la risaia. Migliaia di contadine si avviavano dall’entroterra di Piacenza, Parma, Reggio, Modena per due volte all’anno. Era l’unica attività lucrativa per la donna, perché la mondina veniva pagata in soldi e in “riso”. L’organizzazione era perfetta. Le richieste arrivavano ai comuni. Ci si iscriveva e, il giorno fatidico, arrivava un camion che raccoglieva tutte le donne dei vari paesini della zona e ci portava alla stazione. Io prendevo il treno a Reggio Emilia. All’arrivo a Vercelli, Novara o Pavia, ci aspettava il cavallante con il suo carretto per portarci alla cascina che ci era stata assegnata.

Venivamo sistemate in grossi silos (che avrebbero poi raccolto il riso), suddivisi in cosiddette stanze da 20 posti e più dove c’erano predisposte delle brandine. La prima cosa da fare era andare a prendere il pagliericcio, cioè della paglia che veniva da noi sistemata in una grossa fodera portata apposta da casa e che ci serviva da materasso.
Il giorno dopo cominciava il duro lavoro. Sveglia alle 5 ½. Dopo aver bevuto ¼ di latte e un tocco di pane si andava nel campo da riso da mondare. Estirpare non era facile, c’erano delle piante così radicate nel terreno che per tirarle via ci voleva la forza di due persone.
Stop a mezzogiorno. La cuoca ci preparava un piatto di riso con fagioli o patate, e questo era il menu di tutti i giorni. Alle due si ritornava in risaia fino alle 19. Grazie ai sindacati, questo limite fu successivamente abbassato di un’ora.
Per cena, stesso menu del pranzo.
Ma per noi, anche se eravamo stanche morte, era la sera il momento magico, perché dopo aver mangiato e sistemato le nostre cose ci ritrovavamo tutte insieme a chiacchierare a cantare o a ballare tra donne. Gli uomini erano infatti molto pochi: solo i cavallanti. E quella, comunque, era una vita dura, ma non diversa da quella che facevamo nelle nostre famiglie.
L’unica cosa veramente insopportabile erano gli insetti, di cui la risaia era infestata: al mattino i moscerini, a mezzogiorno i tafani e la sera fameliche zanzare che non ti lasciavano dormire: una tortura.
Al giorno d’oggi tutto è stato sostituito dalle macchine e le mondine si sono emancipate… Altri tempi!

Armentina

domenica 5 aprile 2009

2. Come realizzare tessuti in canapa: dalla semina della pianta alla tela


La Signora Armentina, 84 anni, ha deciso di affidare alla memoria di questo blog la LAVORAZIONE DELLA CANAPA, attività che ha svolto fino agli anni ’50 nel suo paese di Sang Giovanni di Querciola e che permetteva alle famiglie di contadini di essere completamente autonome anche nella realizzazione dei tessuti, in particolare per il corredo delle figlie, allora indispensabile per ogni giovane sposa. Bastava seminare mezza biolca di terreno per il fabbisogno di una famiglia di 10 persone.
Ecco la sua descrizione:


LAVORAZIONE DELLA CANAPA nei ricordi di Armentina


La canapa assomiglia alle piantine di marijuana, ma noi, all’epoca, non sapevamo proprio cosa fosse la droga.
La semina avveniva nel mese di aprile e la raccolta a settembre.
Dopo aver raccolto la pianta si toglieva la semenza che sarebbe servita per la futura semina. Per togliere questa semenza la si bolliva con un po’ d’acqua e la si lasciava macerare.
In quanto alle piante di canapa, venivano fatte delle fascine che si immergevano nell’acqua per quaranta giorni.
Quando era pronta, la si toglieva dall’acqua, la si lavava, e la si metteva ad asciugare.
Una volta asciutta, veniva posta sopra un’ascia dove la si batteva con dei bastoni. Da questa battitura, venivano fuori i filamenti.
Questi fili vegetali grezzi venivano dati ad una persona che aveva il mestiere, cioè un attrezzo che serviva a pettinare i fili.
Da questa pettinatura uscivano tre tipi di filatura: il primo, il tarzeul era il filo più fine, quello che avrebbe fatto il lenzuolo più bello; il secondo era un trama un po’ più grossa e il terzo (tozz) era riservato alla filatura meno pregiata, ovvero asciugamani e canovacci.
Quando venivano restituite queste matasse di filo dovevano essere sbiancate, ovvero lavate in acqua bollente dentro un grande mastello, con l’aggiunta di cenere.
Una volta asciugate, si poteva passare a realizzare, con il telaio, la tela vera e propria.
Il telaio era di proprietà familiare ed occupava almeno cinque metri su quattro di una stanza (come quello nell’immagine).
Realizzata questa tela, veniva di nuovo sbiancata, ovvero stesa nel prato e lasciata alle intemperie per circa un mese. Questo passaggio permetteva di sbiancare e ammorbidire la tela.
A questo punto la tela era pronta per essere cucita e ricamata. La tessitura della canapa avveniva durante i mesi invernali, prima di quella della lana, che si doveva tessere sempre con lo stesso telaio.
Le “razdore” (massaie) erano in grado di realizzare, con questi due tipi di tele, anche il tessuto per i vestiti da uomo sia estivi che invernali. Insomma la famiglia contadina dell’epoca era autosufficiente non solo nel mangiare ma anche nel vestire.
Barbara Bertolini - tutti i diritti riservati

sabato 4 aprile 2009

1. ANNI '50: SENZ'ACQUA, SENZA SERVIZI IGIENICI, COME SI VIVEVA NELLE CASE?

Era l’anno di grazia 1956, ma per me e per gli abitanti di un piccolo paese sperduto nell’Appennino reggiano era il Medioevo.
Non c’era l’acqua nelle case, non c’era elettricità e, per il bagno, «accomodatevi!»: la scelta variava da una puzzolentissima e vomitevole latrina; un campo all’aria aperta dietro un cespuglio o la stalla dove le mucche, all’occorrenza, potevano avere lo stesso impellente bisogno del malcapitato e, quindi, inondarlo di urina. La stalla rimaneva comunque l’ultima scelta anche perché c’era un serio problema di privacy poiché chiunque poteva entrare in qualsiasi momento mettendo in imbarazzo tutti e due.
Ditemi voi se questa non poteva essere considerata una storia d’Altri tempi!

Come si faceva a vivere senz’acqua e senza energia elettrica? Come avevano fatto per migliaia di anni tutti quelli che ci hanno preceduto.
La cucina aveva un lavandino non profondo e molto largo sul quale veniva posto un secchio che si andava a riempire d’acqua alla fontana. Un bottiglione di vetro, invece, veniva riempito un po’ prima del pranzo direttamente alla sorgente, perché l’acqua da bere era così più fresca. Questo compito, in generale, spettava ai bambini della famiglia:
«Va a tor l’acqua c’a magnom!» (va a prendere l’acqua che mangiamo!). Questo era il comando che mi sentivo rivolgere da mio nonno che conosceva, in famiglia, solo l’imperativo. E, con il mio bel bottiglione in mano, via alla sorgente, che non era proprio vicina, ma mi ci voleva una mezz’ora di tempo tra andata e ritorno.

Le case d'inverno, senza riscaldamento, erano freddissime e la gente del paese per trovare un po' di tepore e di compagnia si riuniva la sera, dopo cena, nelle stalle. Vedere il mio post . 10 (Quando le sere d'inverno ci si riuniva nelle stalle).

Per lavarsi, si riempiva il catino d’acqua. Durante i mesi invernali nella stufa, sempre accesa dalla mattina alla sera, vi era inserito un contenitore d’acqua di circa 5 litri, per cui almeno nei mesi freddi c'era sempre acqua calda disponibile.
Solo il sabato si svolgeva la cerimonia del bagno completo, dentro una grande tinozza, che veniva piazzata nella stanza più calda (la cucina) e ci si lavava lì, a turno. Però, dopo due bagni l’acqua veniva cambiata. Non come nel Medioevo dove, invece, in quella stessa tinozza si lavavano (una volta a stagione) prima tutti gli uomini della famiglia, poi le donne, poi i bambini, e, infine, il neonato: ecco perché esiste il detto: «attenti a non buttare con l'acqua sporca anche il bambino!»

Catapultata ora nel XXI secolo, posso, invece, sguazzare in una maxi vasca idromassaggio tutte le sere. Che tempi!
Barbara Bertolini - tutti i diritti riservati

foto di www.cera1volta.altervista.org