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martedì 5 gennaio 2010

29. Cosa portava la Befana ai bambini buoni?

Fino agli anni ’60 nelle famiglie italiane in maggioranza era la befana a portare, nella notte dell’Epifania i doni ai bambini. Babbo Natale apparteneva, allora, alle culture del Nord Europa.
La tradizione italiana, infatti, voleva che i bimbi mettessero sotto il camino una grande calza per permettere alla Befana di riempirla di doni.

Il ceto sociale faceva la differenza tra i doni ricevuti nelle case dei contadini, o di chi aveva un reddito saltuario, rispetto ai “signori”, come si diceva allora.
Rita e Angela ci hanno raccontato i loro ricchi doni ricevuti sotto il camino: bambole, trenini, e vari giochi erano decisamente il sogno degli altri bambini meno fortunati, che rimaneva, tuttavia, davvero un sogno irraggiungibile, quindi rimosso: il bambino povero non osava nemmeno desiderarli. Nella loro calza, invece, quando si svegliavano al mattino e correvano nella stanza dove troneggiava il camino (o la stufa per chi non aveva il camino) e la trovavano gonfia e traboccante di roba, era davvero una grande festa per questi ragazzini che esplodevano di felicità.

Cosa c’era nella calza? Ho chiesto a molti di ricordare. Ed ecco il risultato:

Dal Nord o al Sud il contenuto cambiava poco. Venivano messi mandarini, portugal (che poi erano arance così chiamate sia in Emilia che a Napoli), noci, caramelle, qualche dieci lire, uno o due pacchettini di “mignin” (biscottini industriali fatti a strati che si vendono ancora al giorno d'oggi con il nome di wafer), arachidi, fichi secchi, qualche cioccolatino. Per i più poveri la calza veniva riempita con delle mele. Giochi, molto raramente, a meno di avere uno zio che ritornava dall’America. Qualche volta potevano esserci delle matite colorate, le famose “Giotto”.
Ma quello che non mancava mai sul fondo della calza, per tutti i bambini, poveri e ricchi, che durante l’anno qualche marachella l’avevano di certo commessa, era un bel pezzo di carbone, quello vero ben inteso!
Questa era la nostra Befana, che ci dava comunque una contentezza infinita. Tutta la notte avevamo cercato di stare svegli per sorprendere la vecchietta, invano. Anch’io, come Rita, mi sono fatta mettere il letto vicino al camino, ma la befana è stata più furba di me.

A casa di mia nonna, invece, c’era una tradizione molto bella per noi bambini. Essa realizzava un tortellone dolce, lungo come il tavolo della sala, farcito di noci, cacao, miele e altri ingredienti che non ricordo. Questo tortello particolare veniva cotto dal fornaio del paese, l’unico che aveva un forno adatto per cuocere una alimento così lungo.
Una volta messo in tavola ci dovevamo mettere in fila (dal più piccolo al più grande), ci venivano bendati gli occhi e ci veniva dato un coltello con cui dovevamo tagliare il tortello: mangiavamo il pezzo che eravamo riusciti a tagliare!
Che allegria, che divertimento!
Comunque, ora, meno male che l’Epifania tutte le feste le porta via!

Barbara

lunedì 23 novembre 2009

24. Quelle notti d'inverno dove solo un "prete" poteva esserti d'aiuto....

Di  Barbara Bertolini
Noi in Emilia lo chiamavamo prete, da altre parti, come ha ricordato Mariolina (post 18), lo chiamavano frate, ma chissà quanti altri nomi ha. Insomma quell’aggeggio fatto di due legni sovrapposti, di forma ovale, lungo un metro e che veniva posto fra le lenzuola gelide, con sopra un braciere, aveva lo scopo di riscaldare il letto. Le braci venivano portate in camera un’ora prima di coricarsi. Senza il prete infilarsi nel letto sarebbe stato traumatico.

Nelle case senza riscaldamento il momento più brutto arrivava, infatti, quando si doveva abbandonare il tepore della cucina per andare nelle glaciali camere da letto. Doversi spogliare in un luogo dove la temperatura arrivava talvolta anche sotto lo zero era davvero un’impresa.

Sembra impossibile che il termometro scendesse così in basso nelle stanze, ma è un ricordo ben preciso a dimostrarlo: mia mamma, quando io e mio fratello dovevamo andare a letto, ci dava una bottiglia di acqua calda. Ebbene, quella bottiglia, che finiva quasi sempre per cadere sul scendiletto, qualche mattina l’abbiamo trovata con l’acqua completamente ghiacciata!

Tra le mie reminescenze più sgradevoli del tempo che fu, c’è proprio quella del risveglio alla mattina durante l’inverno, quando dal calduccio del letto dovevo sgusciare fuori in un ambiente molto simile a quello dell’igloo.

Ho ancora nelle orecchie la voce di mia nonna quell’anno del 1957, rimasta con lei e la sua famiglia perché i miei erano emigrati all’estero: «Angelaaaa, Ineees, l’è ora d’alves! (è ora d’alzarsi)», gridava alle figlie, a mo’ di sveglia, dalla cucina dove aveva appena avviato il fuco nella stufa. A quel richiamo, la prima a scendere, in effetti, ero io che avevo sì fatto uno sforzo sovrumano per abbandonare il lettone ma, che, però, venivo gratificata dalla nonna che immancabilmente mi diceva: «tu sì che sei brava, non quelle due dormiglione là». Le due dormiglione come al solito si erano rigirate dall’altra parte e ci avrebbero messo più di mezz’ora prima di sbucare fuori dal letto, e solo perché sentivano la voce minacciosa della madre che si avvicinava. Non avevano torto, però, a prendere tempo. Anche se il letto non era quello molleggiato di ora, ma aveva il materasso di foglie di granone, i loro corpi avevano prodotto una nicchia così calda che ci voleva un bel coraggio per affrontare una nuova giornata che cominciava al freddo e al gelo come nella grotta di Betlemme.

E per ritornare al prete, c'è da dire che oltre ad utile era anche un attrezzo molto pericoloso poiché, pieno di braci, veniva posto in un luogo dove, se rovesciato, avrebbe incendiato tutto facilmente. Infatti, molti materassi contadini erano fatti con le foglie di granone, come detto da Lucia (post 12).

Conoscete qualche altro nome di questo attrezzo?

mercoledì 30 settembre 2009

18. Fonti di calore nel passato


di Mariolina Perpetua

(foto: antico camino di Incoronata Piunno)


Il camino
La fonte di calore, in casa, era il camino, sistemato nella cucina, centro di vita della famiglia. Oltre ad emanare calore nella cucina stessa, dava la possibilità di riscaldare altri ambienti, raccoglieva attorno a sé la famiglia, provvedeva a cuocere i cibi. La fiamma crepitante era la gioia di adulti e piccoli. In realtà la cucina era l’ambiente di tutti: per i più grandi che assolvevano ai loro impegni: cucinare, stirare, sferruzzare, recitare sommessamente la corona del rosario; per i più piccoli che accudivano ai loro compiti o si dedicavano ai giochi. Ricordo che in quasi tutte le stagioni dell’anno il camino rimaneva acceso.
Alla grossa catena che scendeva dalla canna fumaria si appendeva il “caldaio” (paiolo), che permetteva di avere acqua sempre calda e consentiva la cottura di verdure (“le foglie” e pasta (anche “sagne” fatte in casa), nonché la preparazione della polenta, alimento base della popolazione, fino a poco tempo fa, nei paesi ad economia agricola-pastorale. – Lascio immaginare cosa accadeva, ed accadeva, se, per la fretta, non si agganciava bene il caldaio alla catena ed il contenuto si rovesciava sul fuoco. - Recipienti di terracotta, in genere le “pignatte”, erano utilizzati per la cottura di legumi, mentre tegami bassi e larghi erano utili per la cottura di carni e per la preparazione di sughi.
La pignatta era accostata alla fiamma o alla brace - una pignatta di fagioli era “un classico” nel camino di ogni casa -, le altre pentole erano sistemate su “treppiedi” di ferro sotto cui si disponeva la brace. Le “graticole” servivano per gli arrosti di carne e di pesce.
Un gusto ed un sapore particolare assumevano i cibi cotti “sotto la coppa”, ovvero in ruoti di stagno o di rame, internamente battuti in stagno, chiusi da un coperchio su cui veniva sistemata la brace. Buonissime le “patate sotto la brace”. Sotto la brace, mia nonna era solita preparare focaccine o panettoncini di un uovo, dal “gusto particolarissimo”, ma “speciale”, come poteva essere un dolce per una bambina del primissimo dopoguerra, quando non si trovava niente o quasi niente.
Nel panierino dell’asilo era custodito il sapore di casa, delle cose care, della dolcezza e dell’impegno della nonna, che ce la metteva tutta per accontentarmi e rendermi più gradite le ore di permanenza fuori casa.
La mattina non era insolito sentire il borbottio delle “cuccume”, dove bolliva l’acqua per l’orzo o per il the, mentre si riscaldava il latte, ed il gorgoglio del caffè preparato nella “macchinetta alla napoletana”.
Nelle sere d’inverno, spesso, capitava di consumare, per cena, latte e the, secondo un uso nordico, divenuto consuetudine anche nella famiglia di mio padre che era vissuta a lungo nel Nord-Est d’Italia. E quando arrivava “ziPaulill’, perché il tepore del camino conciliava il sonno, si partiva per il “teatro Bianchini tra coperte e cuscini”, intiepiditi durante l’inverno, per attenuare il senso di freddo e di umidità che inevitabilmente si percepiva sotto le coperte, nonostante pesanti camicie da notte o pigiami.
Il focolare era adibito, dunque, a molti usi. La brace, infatti, sistemata in scaldini veniva infilata nel letto, con un apposito “attrezzo”: il monaco”, che serviva a tenere lontano le coperte dal fuoco. Messa in “bracieri”, riscaldava le altre stanze e nella stagione fredda gli stessi bracieri, sormontati da una “campana” in doghe di legno assai flessibili, si trasformavano in “asciugatrici”. Anche la cenere aveva la sua utilità. Infatti, grazie al suo contenuto di carbonato sodico e potassico, sali che un tempo si estraevano in larga scala proprio dalla cenere dei vegetali, era usata per fare il bucato.

Il forno
Per il pane, che si faceva in casa, ci si serviva del forno, generalmente sistemato accanto al camino. Il forno dei miei ricordi non era diverso dai molti che ancora oggi si vedono nelle case di campagna: “edificio a volta con apertura semicircolare nel quale va cotto il pane, dopo averlo riscaldato” (Zanichelli). Come per accendere il fuoco nel camino, anche per preparare il forno e capire la temperatura giusta per una buona cottura del pane, l’esperienza era preziosa. Il calore del forno, dopo “l’infornata” del pane, serviva anche a cuocere cibi, in particolare pizze al pomodoro preparate con la stessa pasta del pane, e dolci.
La fornacella
Nella buona stagione, in estate soprattutto, che, tra l’altro, al mio paese non durava molto, era utilizzata “la fornacella”, costruzione solida, in muratura, ricoperta da piastrelle di ceramica azzurra e gialla, a due sportelli che davano l’accesso a piccole “camere” per l’accensione dei carboni. Sul ripiano, due bocche coperte da cerchi concentrici di ferro, che venivano tolti e aggiunti a seconda della grandezza delle pentole. Non era raro accendere contemporaneamente camino e fornacella per accelerare i tempi di preparazione del pranzo e della cena.

sabato 12 settembre 2009

16. Quelle nostre estati degli anni '50


di Rita Frattolillo
(nella foto famiglia Frattolillo al mare, anno 1949)
Quest’estate in via di archiviazione mi sta regalando più di un pomeriggio vuoto che fa camminare più veloci certi pensieri.
Ogni tanto passa una voce registrata che reclamizza le griffe scontate nelle boutique del centro.
Sto al mare e, attraverso gli occhiali scuri, oltre le palme che ondeggiano e le file di ombrelloni azzurri, ne scorgo la superficie increspata dal vento di terra che soffia con forza.
Certi giorni lo sento particolarmente estraneo, questo Adriatico apparentemente calmo e gestibile, in realtà dall’umore variabile e un po’ traditore. Niente a che vedere con il “mio” Tirreno, quello della mia infanzia, delle favolose “villeggiature”, come le chiamavamo una volta.
Il Tirreno è un mare aperto, impetuoso, lo vedi subito come sarà la tua giornata. Quasi mai piatto come una tavola, ma cavalloni a volontà, in cui tuffarsi intrepidi e da cui emergere grondanti e storditi, ma pronti agli schiaffi fragorosi della prossima, furiosa ondata!
Sarà l’avanzare dell’età, ma sempre più spesso la mente scivola verso l’Amarcord, a quando noi bambine non stavamo più nella pelle, divorate da un’ansia crescente con l’avvicinarsi del giorno fatidico della partenza.

In realtà i miei genitori, una volta chiusi gli impegni scolastici, programmavano l’estate tra collina (“alle bambine così inappetenti l’aria farà bene e le rimetterà in carne”) e mare.
Ma per me e mia sorella Angela, di due anni più grande, il pensiero fisso erano quei giorni mitici che avremmo passato immerse nell’abbraccio liquido del mare. Per noi l’anno, tolto Natale e la Befana, si divideva in un prima e un dopo. Prima, erano settimane effervescenti, proiettate sulle nostre imprese future; dopo, una volta tornate a casa, riempivamo le nostre serate con i racconti esaltanti dei momenti vissuti, che si diradavano per poi scomparire, di pari passo con la nostra tintarella. Sta di fatto che dei nostri soggiorni collinari mi torna solo qualche frammento sfocato: la grande villa dall’orto incolto, in cui convivevano confusamente alberi da frutta, vegetazione spontanea, fiori. Villa e orto, alle porte del paese, Caserta Vecchia, erano teatro delle nostre bravate: l’orto un bosco dove nascondersi, e le stanze, infilate l’una nell’altra, un labirinto dove le voci rimbalzavano prima di affondare nell’imbottitura dei divani. Lì andavamo a caccia di attrezzi da adattare per il prossimo gioco, incuranti dello sguardo severo che ci indirizzavano i personaggi ritratti alle pareti. Ricordo le ricottine nel cestino intrecciato che la contadina ci consegnava la mattina; e i concerti serali all’aperto, nella piazza del borgo medievale dominata da un torrione grigio e imponente nel mio ricordo…

Ma per Angela e me, Caserta Vecchia era una tappa obbligata per poter accedere al nostro paradiso, pur se, la nascita, a distanza ravvicinata, delle altre due sorelle, ci impedì per più di un’estate di proseguire fino alla nostra “vera” meta estiva.
Niente tuffi, niente lotte con i cavalloni, allora, ma solo giochi nel giardino incantato della villa, e i concerti, ai quali regolarmente mi addormentavo, spossata dal troppo correre e saltare.
Un mese era lungo da passare, e i giocattoli scarseggiavano, così bisognava aguzzare l’ingegno e mettere a punto nuovi giochi, che chiamavano a raccolta anche le bimbette del vicinato. Quelli più scatenati li facevamo di pomeriggio, quando potevamo finalmente sfuggire alla sorveglianza dei miei genitori, che, sopraffatti dalla cura di ben quattro mocciose, si concedevano la meritata pennichella .

Non è che mancassero i momenti di tregua; uno era colmato dal cinema…fatto in casa. Credo che molti miei coetanei sappiano di che parlo: dopo aver incollato pagina a pagina un fumetto (di quelli a striscia stretta e lunga), avvolgevamo le due estremità a delle cannucce. Uno scatolo di scarpe dal fondo accuratamente ritagliato quel tanto che bastava, faceva da cornice alla “pellicola”, che girava manovrata da me o da mia sorella, mentre le piccole spettatrici, sedute in circolo per terra, seguivano la contrastata (lo è sempre) storia d’amore tra un principe indiano ( di cui non ricordo il nome, ma l’esclamazione “Per la Trimurti!”) e la bella maharani.
Dopo varie puntate a Sorrento e dintorni, la preferenza cadde, per via delle Terme, su Castellammare di Stabia, l’antica città offesa, con Pompei ed Ercolano, dalla furia devastatrice del Vesuvio nel 79 d. C.

Sono nata nel 1945, e, per quel che ricordo, posso dire che, finita la guerra e preso atto della drammatica realtà, la gente si rimboccò le maniche e si industriò per raggranellare qualche soldo.
A Castellammare fervevano le attività e piccoli commerci; il monte Faito (“Faggeto”) elargiva da sempre tante varietà di acque che avevano reso famose e frequentate le Terme, sbocco occupazionale “naturale” degli stabiani; poi c’erano i cantieri navali, il cementificio di Pozzano, di cui ricordo ancora lo stridio durante la macinazione, che sputava nell’aria un finissimo velo di polvere bianca che si attaccava tenace ovunque .
Chi non aveva lavoro, se lo inventava, mettendo a frutto la propria competenza, o, in alternativa, subaffittando la propria abitazione ai villeggianti.
In tutto il centro città un solo albergo, il Montil, più tardi dotato anche di cinema (un vero lusso!), inavvicinabile per stipendi di insegnanti statali…
Così, alloggiavamo in un appartamento dove la padrona o chi per essa – erano i patti – passava ogni mattina a preparare la colazione e riordinare.

Una volta scesi dal treno, si proseguiva fino alla destinazione in carrozzella, armi e bagagli. Niente autobus, e macchine rare come mosche bianche. Al trotto, con lo schiocco della frusta nelle orecchie, costeggiavamo buon tratto di lungomare, abbagliate dal pittoresco display che ci si apriva davanti. Alla nostra sinistra scorrevano le facciate degli alti condomini; sbiadite e scalcinate che fossero, la nostra gioia era tale che tutto ci sembrava bello e unico. A destra il respiro del mare scintillante al sole. L’animazione della città con le sue mille facce ci veniva incontro. Gente sciamava dai sopportici invadendo un groviglio di vicoli colorati e affollati come suk in un flusso perpetuo. Ambulanti spingevano carretti carichi di costumi da bagno americani (usati?) a buon mercato; qualcuno strillava « E’ m’lùun’é fuòok’ » davanti ad una enorme piramide di cocomeri dalla scorza scurissima; donnone sedute comodamente davanti alle porte aperte dei bassi pulivano verdure da vendere; un altro friggeva crocchette (é panzaròtt’); più avanti, alla Fonte acqua della Madonna (con cui impastavano i biscotti a forma di grissino di cui andavamo ghiotte) scugnizzi scalzi, destreggiandosi sulle chiare mattonelle scivolose, riempivano fiaschi e brocche in cambio di qualche moneta; pescatori, appoggiati alle barche tirate sull’arenile, rammendavano le reti.
Tra una piega di lenzuolo o mentre l’orzo (meglio dire “cioféka”, dal momento che la stessa miscela veniva riciclata senza pietà) sgocciolava nella napoletana, Carmela, figlia adolescente della padrona di casa, a cui un fisico assai lontano dalle pin up e baffi già da corsara non impedivano di passare da un Catello all’altro (Catello sta a Castellammare come Gennaro sta a Napoli), Carmela, dicevo, trovava il tempo di aggiornarci sui suoi spasimanti, intercalando i particolari succulenti con «Mamm’ ro’ Càrm’n’!» esclamazione che le fece guadagnare il soprannome che le appioppammo.
Aiutandola nelle faccende, seguivamo trasognate le sue affabulazioni e le sue evoluzioni da una camera all’altra, poi, di corsa alla villa comunale, trascinando le piccole Rosa e Maria, che ci trotterellavano dietro a fatica. In villa troneggiava l’artistica Cassa armonica, che, con la sua orchestra, la sera attirava soprattutto dame tintinnanti di gioielli che si sventagliavano placidamente.
Dalla villa comunale si scendeva ai Bagni.

I Lidi degli anni ’50 avevano poco in comune con quelli a cui ci siamo abituati in seguito. Niente bar, piscine, trampolini o campi da minigolf, come al Kursaal di Ostia, che frequentammo dopo il nostro trasferimento a Roma. Niente acqua-gym, animatori e balli all’ombra dei gazebo. Allora, solo l’indispensabile, ma per noi era l’eden, anche se nello stile un po’ descamisado della fauna più o meno ruspante che ritagliava il territorio. Piccole come eravamo, respiravamo la vita senza mediazioni né filtri, svincolate da qualsivoglia cronologia, e tuttavia percepivo il fermento forte che si respirava dopo la proclamazione della Repubblica. A Castellammare il clima politico era caliente con tendenza al rosso acceso, si cercava lo scontro e si veniva facilmente alle mani.
I miei andavano presto alle Terme per poterci raggiungere ai Bagni Elena. Capitò un giorno che mentre mio padre leggeva il suo giornale sotto l’ombrellone, venne provocato da un vicino che, dopo aver sogguardato con intenzione il quotidiano, se ne uscì con un commento offensivo su tale on. democristiano. Mio padre, che non era tipo da passarci sopra e ha sempre difeso i propri convincimenti, rispose a tono dando la stura ad un alterco che sarebbe diventato violento senza l’intervento pacificatore delle rispettive mogli.

Fortunatamente bastava un tuffo per sciogliere ogni apprensione, e le giornate, scandite dall’urlo prolungato della sirena dei cantieri, passavano sempre troppo in fretta, a colpi di sfide acquatiche lanciate dai giovanissimi - ma già navigati - stabiani, a cui non sfuggivano i … visi pallidi.
In verità Angela, biondissima e riccioluta, attirava invariabilmente uno stuolo di piccoli ammiratori, che cercavano di impressionarla con mille acrobazie. Uno, in particolare, biondo, occhi smeraldini che spiccavano nella tintarella, si era promosso nostro paladino, bandendo senza cerimonie la ciurma dei…molestatori.
Poteva far comodo: uno dei primi costumi di cui ho memoria - ebbe vita breve ma è stato immortalato in una foto - era uno slip di cotone stampato a barchette che, una volta inzuppato, tendeva a calare, sicché lo dovevo trattenere mentre cercavo di tenermi a galla in un’acqua subito alta. Fu prontamente sostituito, anche perché la mia disperata manovra non era sfuggita ad una banda di scugnizzi che, guizzando sott’acqua, facevano accrescere la mia ansia. Sostituito con uno intero, di taffeta verde, di quelli con la pattina, come era la moda. Più tardi, compariranno i costumi da bagno di…lana. Il mio era blu e fece la fine di quello a barchette, e per lo stesso motivo.
In seguito, diminuì il numero dei giovani che, avendo ceduto il letto ai villeggianti, la mattina si trascinavano con l’asciugamano fino all’ombra di una cabina, per poter finalmente dormire, dopo l’ennesima nottata passata in bianco allungati sul balcone di casa. Fecero la loro apparizione gli abbronzanti (ricordate la bimba del cartellone Coppertone?), e le rotonde con il jukebox. Grande fu il nostro stupore davanti alle coppiette che verso l’imbrunire si muovevano strette su una musica lenta. Da allora, la musica inondò l’aria, facendo da colonna sonora alle nostre esistenze.

Una delle ultime volte a Castellammare, la nostra padrona di casa sfoggiava per orecchini delle monete d’oro che trovai di dubbio gusto, ma che erano indizio certo di un raggiunto benessere.
Di lì a poco sarebbe esploso il boom economico; si profilava la mutazione genetica, la trasformazione irreversibile di cui continuiamo ad essere comparse e testimoni impotenti. Anche la terminologia, come tutto il resto, si rinnovava, e la parola “villeggiatura”, dopo decenni di onorato servizio, cedeva davanti ai rampanti “vacanza” e “ferie”, chiaro segnale di un diverso stile di vita.

lunedì 15 giugno 2009

13. Nel mio paese il banditore medioevale ha “strillato” nelle piazze gli eventi e l’arrivo dei vari mercanti fino alla metà degli anni ‘70


di Anna Maria Cenname

Il banditore durante il medioevo rendeva pubbliche le ordinanze delle autorità ai cittadini. Con il passare del tempo questa figura assunse una duplice valenza: se da un canto informava il popolo su quelle che erano le leggi da rispettare dall’altro propagandava le attività commerciali (antesignana delle attuali forme pubblicitarie).
Ricordo ancora il banditore del mio paese, Castelmauro, che al mattino annunciava, dopo uno squillo della sua trombetta, l’arrivo al mercatino coperto del paese del pescivendolo, del fruttivendolo, dell’arrotino o del venditore di vestiti.
Tommaso era un uomo smilzo, stempiato, ipovedente, e nonostante la cecità si muoveva autonomamente; conosceva tutte le insidie e i pericoli del suo percorso giornaliero. In paese lo chiamavano affettuosamente Tommasino lu banditaure. La sua maestria stava non solo nel modulare il tono di voce, ma anche nello scegliere il crocevia dove il richiamo, forte e chiaro, si propagava in modo uniforme così da non affaticare troppo le sue corde vocali.
Il compenso a volte consisteva in una sorte di baratto; il banditore esercitava la sua arte e il venditore lo pagava con la sua merce. Tommasino non è mai andato in pensione, ha continuato a dare voce alla sua trombetta fino agli ultimi giorni della sua vita intorno alla metà degli anni settanta.

mercoledì 6 maggio 2009

5. Ecco come nel passato si lucidavano e si rendevano idrorepellenti le “preziosissime” scarpe

Ce lo racconta Anna Maria Cenname
Le scarpe, durante il periodo della Grande Guerra e anche precedentemente, erano considerate un bene di lusso, quindi dovevano essere indossate solo per le grandi occasioni: Natale, Pasqua, Feste patronali e per i matrimoni. A volte venivano anche date in prestito ad amici o parenti. Per la loro pulizia e per evitare che l’acqua o la neve potesse rovinarle e per renderle lucide i nostri antenati adottarono un metodo molto semplice, poco costoso e idrorepellente. Bastava battere ben bene del grasso e aggiungerci della fuliggine (che si formava sempre a causa della legna della stufa) grattata dal tegame che si usava per scaldare l’acqua. Quando il tutto si era amalgamato si facevano delle palline che servivano per essere passate sulle scarpe.