venerdì 31 dicembre 2010

48. Cinque regole per avere buone relazioni e passare un eccellente anno

Dal punto di vista relazionale, per essere sicuri di passare davvero un buon anno, ecco cinque regole infallibili:



1. Liberate il vostro cuore dall'odio
2. Liberate la vostra mente dalle preoccupazione
3. Vivete semplicemente
4. Date di più
5. Aspettatevi di meno



Du point de vue des relations, pour être surs de passer vraiment une bonne année, voilà cinq règles infaillibles:

1. Libérez votre cœur de la haine
2. Libérez votre esprit des inquiétudes
3. Vivez simplement
4. Donnez plus
5. Attendez moins

lunedì 20 dicembre 2010

47. Questa piccolissima serenata......

C'era una volta un innamorato che per conquistare la ragazza del cuore aspettava lo scoccar della mezzanotte poi andava sotto la finestra dell'amata ed eseguiva una bella serenata….
C'era una volta, ma non c'è più: come si può fare oggi con i supercondomini e la musica heavy metal, tecno o hardcore! Impossibile per i giovani creare un'atmosfera di "Luna caprese", "Occhi di ragazza" o "Il cielo in una stanza"…..

Allora, non resta che farmi raccontare queste memorabili serenate da una delle ultime protagoniste che ha avuto la fortuna di viverle. Si tratta di Assunta e, il suo amato, di romantiche serenate glie ne ha fatte molte perché era intonato, sapeva suonare, e, soprattutto, ci teneva a marcare il "territorio" per sapere se la dulcinea accettava o no la sua corte.

C'era un rito specifico? Come avvenivano questi concerti casalinghi e quale impatto avevano presso le famiglie?

La serenata serviva a far capire alla ragazza prescelta che si aveva intenzione di costruire qualcosa di serio con lei e, nello stesso tempo, era anche un impegno "pubblico" preso nei riguardi della famiglia.
Anche se fare la corte era codificato dai tempi antichi, nel paese di Assunta, negli anni '60, la cosa nasceva quasi sempre nel bar. I giovani (solo uomini) vi si riunivano dopo cena per giocare a carte e, aiutati da qualche buon bicchiere di vino che metteva la giusta allegria, cominciavano a suonare e a cantare e finivano, inevitabilmente, per parlare di donne.
«Giovà, oggi t'ho visto che facevi il cascamorto con Assunta. Ti piace la guagliuncella eh?». «Perché non andiamo a fargli una bella serenata?», lanciava uno. E così, qualche volta per scherzo e qualche volta a ragione si formava un gruppetto di amici, una band si direbbe ora, con l'immancabile fisarmonica, e si andava sotto il balcone della bella a suonare almeno tre canzoni. In genere erano scelte dal repertorio napoletano. Ma non mancavano gli ultimi successi canori come quelli di Gianni Morandi, Adriano Celentano, Fausto Leali, Mina, Edoardo Vianello o Massimo Ranieri.

Per queste serenate c'erano due tempi: il primo era quando la ragazza non aveva ancora ufficializzato il rapporto e poteva anche essere completamente all'oscuro del desiderio amoroso del ragazzo. In quel caso ascoltava nella sua stanza, senza accendere la luce od aprire le imposte. Se gradiva o no, lo avrebbe fatto capire all'innamorato il giorno dopo, con uno sguardo (sorridente o duro), incontrandolo per strada. Mentre i cantanti-suonatori potevano rischiare di ricevere una secchiata di acqua in testa dai genitori della ragazza, che non apprezzavano il pretendente, o dai vicini, che non amavano il baccano. Il secondo, invece, era quando i due erano già fidanzati e si dovevano sposare. Lì la serenata era d'obbligo. Bisognava presentarsi allo scader della mezzanotte sotto il balcone dell'amata che, dopo il duetto o quartetto (dipendeva dal numero di cantanti e suonatori) accendeva la luce e, se si affacciava al balcone, accettava la corte! Se le imposte restavano chiuse voleva dire che si era messa male per il futuro sposo.

E il vicinato, come prendeva questi rumori molesti?
Anche se si ascoltava la più melodica delle canzoni, venir svegliati nel cuore della notte era una vera minaccia per gli imprudenti. Ma, per fortuna, queste serenate avevano la loro stagione, l'estate, dove, comunque, si facevano le ore piccole. E Assunta dice che le vicine, il giorno dopo, si felicitavano con lei dicendo quanto fossero stati bravi i cantanti e i suonatori. Insomma tutto il vicinato apprezzava queste serenate che mettevano allegria, che permettevano agli anziani di fare un tuffo nel loro passato e che creavano un diversivo piacevole in un ambiente dove non succedeva mai nulla di nuovo.
Barbara Bertolini©2010tutti i diritti riservati

mercoledì 10 novembre 2010

46. Portati la sedia e cinque lire se vuoi vedere la tivù!

La televisione, al suo apparire, ha un immediato successo: grandi e piccini la vogliono vedere ma il costo per le famiglie contadine di quel tempo è troppo alto. Allora, come si fa? Semplice, la comperano gli unici che vedono circolare un po’ di soldi nel proprio commercio: il bar del paese o lo spaccio che è quasi sempre la stessa cosa.
Da noi di Cà di Pas, il primo ad indebitarsi per comperare il televisore - che costava quanto la paga media di un anno di lavoro - è stato il barista Licinio, il quale l’aveva piazzata nella stanza che prima la sua famiglia aveva adibito a sala da pranzo. Licinio, un omone rotondo, con l’eterno borsalino in testa e un orologio legato con una lunga catena d’oro che suscitava la mia ammirazione, si occupava dell’osteria, mentre l'Adelina, sua moglie, badava ai clienti dell’adiacente negozio e, dopo aver liberato dai pochi mobili la stanza “della televisione”, aveva invitato tutti i paesani che volevano seguire le trasmissioni, a munirsi di sedia e di 5 lire.

Già la prima sera mezzo paese era lì, inchiodato a guardare la tivù. Le massaie si erano affrettate a far la cena e a lavare i piatti perché alle 20 e 50 e, per dieci minuti, era trasmesso il programma più amato dalle famiglie italiane: "Carosello", la pubblicità veicolata da sketch comici o ironici che si ripetevano tutte le sere, come le favole e, per questo, prediletta da noi bambini, arrivati senza sedia (però con i soldini), seduti per terra davanti al piccolo schermo.

Insomma alla fine degli anni Cinquanta la televisione era vista come quando si andava al cinema: commentando, ridendo, piangendo, tutti insieme appassionatamente.
E piano piano Carosello ha formato l’(in)coscienza dei neoconsumatori. Mentre altri programmi come Il Musichiere di Mario Riva, Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno, Il Festival di San Remo, hanno modellato la nostra italianità. 

E’ la televisione che ci ha insegnato a parlare italiano; è lei che ci ha permesso di memorizzare i confini del mondo, è ancora lei che ci ha fatto venire gli incubi con le immagini di catastrofi, di guerra fredda, di crisi di governo o dell’instabilità della lira. Prima di lei, il nulla.

Per chi vuole saperne di più: la prima televisione meccanica fu inventata da un ingegnere scozzese, un certo John Braird che depose un brevetto nel 1923. Mentre la prima televisione elettronica fu inventata dal giapponese Kenjiro Takayanagi nel 1926. Le prime trasmissioni televisive partirono da Londra nel 1932, quando la BBC intraprese di diffondere programmi regolari di televisione.

In Italia le prime prove sperimentali televisive si svolsero a Torino nel 1934 dal Centro EIAR (in seguito RAI). Il primo trasmettitore televisivo (senza il quale non si possono ricevere i segnali) fu installato a Monte Mario a Roma nel 1939.
Con la guerra Mussolini fece sospendere tutte le trasmissioni. Bisognò aspettare il 1949 prima di ricominciare da capo. In Italia, la prima trasmissione regolare cominciò solo dal 3 gennaio 1954, a cura della RAI.
Barbara Bertolini

mercoledì 27 ottobre 2010

45. La prima volta che ho visto la televisione

Negli anni ’50 del secolo appena passato, una piccola finestra affacciata sul mondo ha rivoluzionato il nostro modo di vedere e percepire le cose:  la televisione!  Ecco la prima volta che ho visto questo schermo magico…. correva l’anno 1958 (forse)





Ho  9 o 10 anni (non ricordo bene), verso le 11 del mattino sto tornando a casa in compagnia di Angela e passiamo davanti all’Asilo, una struttura che a San Giovanni è punto di riferimento importante poiché vi è il cinema e un ricovero gestito da suore che ospita piccini e handicappatati in difficoltà.

Angela, una bella ragazza che ha appena festeggiato i suoi 14 anni, appartiene a quella categoria di persone comunicative, allegre, la simpaticona per eccellenza la cui compagnia è molto richiesta. Dal cinema si affaccia qualcuno e la chiama, le deve far veder una cosa davvero particolare. Entriamo curiose e là, su un tavolo, è poggiato uno scatolone cubico con una facciata a vetro, circondato di legno liscio. Sotto, dei pulsanti che qualcuno s’ingegna a far funzionare. Poi, all’improvviso, lo schermo s’illumina e compare un topolino con una voce nasale strana, che corre dietro ad un cane tonto dal nome Pluto. E’ Mickey Mouse. Non so cosa sia un cartone animato, è la prima volta che ne vedo uno, anzi è la prima volta che vedo la televisione, e la mia risata parte immediata, rigogliosa, prolungata, più vedo il topo e più rido, non riesco a fermarmi. Con la mia ilarità cristallina contagio le tre-quattro persone presenti, tutte adulte. Loro non ridono per topolino, non lo capiscono, ridono della mia allegria. Invece, per me, è amore a prima vista. D’ora in poi, qualsiasi cartone animato mi inchioderà vicino a quella magica scatola e, a qualsiasi età, non smetterò di divertirmi con le animazioni di Walt Disney and Cie.

Va detto che quella trasmissione mattutina era sperimentale, poiché fino alla metà degli anni ’60 i programmi televisivi si trasmettevano solo a partire dalle 8 di sera, in bianco e nero ben inteso.

Barbara Bertolini

sabato 11 settembre 2010

44. Le famiglie patriarcali

(famiglia patriarcale del 1920)


Le famiglie patriarcali di una volta erano litigiose come i Simpson, simpatiche come quella di “Happy Day” o pasticcione come le attuali famiglie allargate?








La famiglia contadina patriarcale si è disgregata con la modernità perché l’invenzione di nuovi mezzi agricoli ha permesso di poter lavorare la terra con meno braccia. Per un piccolo podere di 15 biolche, per esempio lavoravano, un tempo, per quasi 12 ore al giorno, 6-7 adulti. Ora, per la stessa superficie basta e avanza il lavoro di due persone, che possono permettersi anche di svolgere un’altra attività.



Se chiedo alla Signora Armentina della società contadina della sua gioventù, ricorda solo una grande miseria. Riecheggiano ancora alle sue orecchie le esclamazioni della Signora Cesira venuta a chiedere un po’ di farina per i suoi 7 figli: «Oh Lina, incoeu i me’ fieu an gan propria gnent, am dareset un po’d farina per la pulenta?» (O Lina, anche oggi i miei figli non hanno nulla da mangiare. Mi daresti un po' di polenta?) Sì, perché i ricordi arrivano alla sua mente solo in dialetto. Ricordi di povertà, di come mamma Lina aiutava quelli più bisognosi di lei. A casa sua non erano ricchi, ma almeno si mangiava tutti i giorni, anche durante la guerra. Una famiglia di gran lavoratori la sua. Guardando nel  passato rammenta che «non c’erano cose né belle, né simpatiche, si doveva lavorare e basta. La terra, come nelle favole, era generosa solo se gli dedicavi tutte le tue energie. C’era sempre qualcosa da fare: falciare l’erba, mietere il grano, battere la canapa, rastrellare il fieno, mungere, fare il pane per l’intera settimana, travasare il vino, insaccare le salcicce, filare la lana. Tutto e di più ». Così sentenzia l’Armentina.

Però, poco a poco, si delinea nella sua mente la personalità di nonno Orazio, il padre-padrone della famiglia, il patriarca la cui autorità non è mai stata messa in dubbio da nessuno dei figli o dai generi perché aveva saputo, con il tempo, far vivere la sua prole in una certa agiatezza. Nonno Orazio, oltre al podere, commerciava in bestiame con la vicina Toscana. Nella tarda primavera s’incamminava a piedi con le bestie e 3 o 4 vaccari, percorrendo, tra andata e ritorno, anche 200 km. Ritornava orgoglioso degli scambi o delle vendite. Infatti di questi viaggi riportava olio e sale, i due generi alimentari che la sua terra non poteva produrre.

Ecco il racconto di Armentina:
«Quando sono nata, negli anni Venti, in casa vivevano 11 persone, di cui tre bambine. Poi due giovani zie si sono sposate e siamo rimasti in 9 di cui 4 maschi adulti e 5 femmine. Successivamente sono nati altri bambini.
L’incontestabile figura di Orazio regnava su tutti noi. La mattina o la sera, intorno al tavolo, discuteva con gli uomini i lavori da fare: erano ordini precisi, netti, indiscutibili. Se c’erano delle controversie era lui a redimerle. Insomma era il grande saggio e, a distanza di tempo, mi è rimasta una percezione molto positiva di quest’uomo, malgrado la sua severità.
La figura della “razdora”, la padrona di casa, veniva assunta

sabato 26 giugno 2010

43. Il bucato del tempo passato

“♪ Amor dammi quel fazzolettino, amor dammi quel fazzolettino vado alla fonte e lo vado a lavar. Io lo lavo con acqua e sapone……♫”, recita una delle più conosciute canzoni del folclore italiano.

Un giovane oggi non capirebbe perché un innamorato doveva andare alla fonte per lavare il fazzoletto e non nel lavandino di casa o dentro la lavatrice?

Cari ragazzi, che sapete tutto sui videogiochi, telefonino, software, facebook , sms o gps, vi siete persi un collegamento importante nella vita, quello tra saper fare e saper utilizzare! Voi siete solo gli utilizzatori finali dei prodotti. Mentre nel passato bisognava soprattutto saper fare poiché da ciò dipendeva la sopravvivenza della famiglia.

E questo blog è “l’anello mancante” quello che fa riemergere dal passato il “saper fare”!
Ecco perché mi sono fatta raccontare dall’Armentina una delle attività più importanti della “razdora”, padrona di casa, ovvero come si lavava il bucato quando non c’era l’acqua in casa e i detersivi che si utilizzavano.

Come si faceva il bucato prima della modernità?
Il bucato del “bianco”, lenzuola, canovacci, tovaglie, asciugamani di canapa ecc… veniva fatto una volta al mese. E bastava, perché la fatica era molta e vi lavoravano tutte le donne di casa per un’intera giornata che doveva essere soleggiata. Poiché si viveva in famiglie allargate, si arrivava facilmente a 15 persone e il cumulo della biancheria riempiva decine di ceste.

Dopo aver portato a casa l’acqua, si faceva una prima passata ai panni, sporchissimi, con spazzola, sapone, e molto olio di gomito. Questa biancheria appena strofinata

martedì 1 giugno 2010

42. Colpita da un fulmine è salvata dalla terra....

La croata IVANKA lascia a questo blog una testimonianza davvero fuori dal comune.

Se ora posso raccontarvi la mia storia lo devo a zio NEDO che ha saputo riportarmi in vita con un metodo antichissimo, tramandato dalla memoria del tempo.
Ero nelle mie 17 primavere, la mia casa era situata in un grazioso paese croato, circondata da tante altre. Ero sola nella mia stanza, mentre mia mamma e mia sorella stavano affaccendate in cucina. Di fronte alla mia casa c’era quella di zio Nedo che stava guardando dalla sua finestra il forte temporale che si era abbattuto sulla zona. I nostri sguardi si sono incrociati e ci siamo fatti un cenno di saluto. Poi, all’improvviso, un forte bagliore ha invaso tutta la mia stanza e io mi sono accasciata. Mia mamma e mia sorella non si sono accorte di nulla. Solo zio ha capito che qualcosa non andava perché dopo il bagliore non mi ha più visto. Corre da noi, allerta mia mamma: mi trovano inanimata sul pavimento, colpita da un fulmine. Non reagisco ai loro strattonamenti. Mamma vuole portarmi immediatamente in ospedale. Zio la ferma e, come un forsennato, esce e chiama tutto il vicinato. Ordina loro di scavare una fossa nel giardino il più rapidamente possibile. Nedo è un uomo molto stimato in paese e tutti lo assecondano. Sotto la pioggia battente scavano rapidi fino a quando possono immergervi tutto il mio corpo. Poi, sempre secondo gli ordini di zio, mi ricoprono interamente di terra, lasciandomi fuori solo la testa. E aspettano…., aspettano per ore, preoccupati, scettici, tentennanti. Solo Nedo è sicuro di quello che fa. Ed ha ragione perché all’improvviso apro gli occhi. Mi guardo intorno e non capisco. «Ivanka! Ivanka!» chiama mia madre. Ruoto gli occhi allibita e mi chiedo cosa faccio sotto terra, sotto un diluvio di acqua, sotto gli sguardi meravigliati delle persone?

Nel frattempo è arrivato anche il medico che non può far altro che stupirsi di questo metodo. Mi tolgono dalla terra e mi portano in ospedale. Anche i dottori confermano che se fossi stata portata subito lì, probabilmente non vi sarei giunta viva.
Del fulmine che mi ha folgorata mi rimarrà solo una bruciatura alla gambe e alle mani, il resto, la terra lo ha assorbito.
Nedo aveva scoperto questa antica tecnica facendo il servizio militare, quando un commilitone fu colpito in montagna da un fulmine e curato così.

A mia volta ve la racconto perché sappiate come agire se dovesse succedere la stessa cosa a qualcuno, in un posto magari sperduto.
Di questa storia rimane comunque un profondo mistero: com’è entrato quel fulmine nella mia stanza priva di camino, senza rompere nulla, e con porte e finestre chiuse?
Nessuno, nemmeno la polizia ha mai saputo dare una risposta a questa domanda.
Ivanka            (storia raccolta da Barbara Bertolini)

martedì 18 maggio 2010

41. In Libia al mio primo impiego ero l'unica ragazza

di Maria Genta

Dopo aver conseguito il diploma di ragioniera a Tripoli, il mio primo lavoro fu presso la ditta di nettezza urbana della città, dove aiutavo nella contabilità.
All'inizio ero la sola ragazza in mezzo a tanti uomini, ed ho un bel ricordo di quel periodo perché tutti gli operai mi rispettavano. Ricordo in particolare il rito del tè: c'erano sempre uno o più operai addetti esclusivamente a preparare questa bevanda per tutti gli altri. Ero fiera perché a me veniva sempre offerto per prima, ma ero anche orgogliosa di far parte del loro mondo.



Il servizio di nettezza urbana, era decisamente all’avanguardia, perché laggiù si faceva già all'epoca (primi anni ‘60) la cernita tra i vari elementi in discarica, e la parte organica veniva preparata per fare concime, che poi si rivendeva agli agricoltori.
In quel periodo andavo in ufficio in bicicletta, che avevo comprato con il mio primo stipendio. L'ufficio era abbastanza lontano da casa e percorrevo tante stradine con case abitate esclusivamente da libici. Il ricordo più vivo è quello delle feste della pasqua musulmana , l'Aid el Kebir, quando ogni famiglia sacrificava un agnello, e ciò avveniva per strada. Una tortura per me perché sentivo la sofferenza degli animali, per cui pedalavo cercando di non guardare né a destra né a sinistra, ma anche l'udito aveva la sua parte. Ripassando più tardi, era l'olfatto ad essere coinvolto, con il profumo di carne arrostita sulle braci, ed allora iniziava la festa!

In un paese dove convivevano gente di tutte le nazionalità, la conoscenza delle lingue era importantissima per lavorare. Ci fu il boom delle ricerche petrolifere e scoperte di molti giacimenti importanti, il nostro mondo quindi si allargò alle abitudini di altri paesi ed altri popoli. La convivenza con la gente locale è sempre stata molto cordiale: come donna, logicamente, i contatti erano soprattutto con le donne ed i loro bambini, ma loro erano sempre riservati e non cercavano mai di invadere o di entrare nel nostro mondo.
Per puntualizzare il racconto, mi sono diplomata nel capitale della Libia quando c’era Re Idriss, periodo in cui l'amministrazione non era più italiana. Il sindaco di Tripoli era il libico Dr Caramanli, che credo avesse studiato in Italia. La lingua più usata (dopo l'arabo ) era l'italiano e tutti i libici lo parlavano, quindi noi italiani eravamo poco pressati ad apprendere la loro lingua. A scuola, dalla prima elementare, si insegnava l'arabo letterale, un po’ diverso da quello parlato (un po’ come i nostri dialetti), ma almeno la radice delle parole era abbastanza simile.

Così si imparava a leggere ed a scrivere in arabo, ma difficilmente si riusciva a fare delle traduzioni che non fossero più che semplici. La numerazione, invece, mi è stata molto utile nel mio primo lavoro. La contabilità era tenuta in italiano, ma doveva essere tutta tradotta in arabo, quindi c'erano doppi registri. La traduzione delle scritture di contabilità, in partita doppia, veniva fatta da un libico, ed io mi occupavo di tutta la trascrizione numerica. E' divertente pensare che io, anche molti anni dopo, in Italia, ho continuato a tenere i miei piccoli conti, con le cifre in arabo!

martedì 4 maggio 2010

40. Vacanze al mare sull’Adriatico negli anni '50

Nicoletta Barbarito (con il padre nella foto) fa rivivere, con maestria, un mondo antico di villeggianti e poveri pescatori, immergendoci negli anni ’50 del secolo appena passato

Abruzzo adriatico. Quello di prima. E’sedimentato nella mia memoria con colori, odori, sapori, nomi, facce, gesti, voci. Pare fissato con quella colla che una volta avvenuta la presa non molla più. Parlo di un posto specifico dove non torno da oltre 40 anni. Non tengo nemmeno a riandarci, anche se ormai grazie all’autostrada la distanza è breve; è ingrandito e trasformato dal turismo e dal progresso. Per il meglio, da molti punti di vista, se non fosse rimasto com’era dentro di me per via di quella colla così poco attuale nella sua incorruttibilità.

Mio padre, classe 1908, raccontava che con la famiglia ci aveva passato l’estate per la prima volta, a due anni. Cent’anni fa! Avendo sempre continuando ad andarci regolarmente, subito dopo la guerra si era costruito una piccola casa, che vendette poi negli anni Settanta.
Benché non nativo del luogo, aveva finito per essere considerato un personaggio “storico” del paese. Per una ragione o per l’altra, lì nessuno gli era estraneo. Da adulto amava portare in testa un berretto da marina (si usava, allora, al mare) e molti lo chiamavano “Capitano” anziché “professore” qual era. E siccome da giovane avrebbe desiderato diventare ufficiale di marina invece che laurearsi in lettere, palesemente si compiaceva di quella temporanea, seppur menzognera,identità. Dato che amava la storia, era curioso di ogni particolare sulla storia locale, in fondo insignificante se non dal punto di vista umano.

Nel 1910 quel piccolo agglomerato di case - appendice “marina” di un pittoresco antico paese in collina, Montepagano - si chiamava Rosburgo, borgo delle rose, come l’aveva chiamato un nobile tedesco, pittore, tale Von Thauler, rimasto affascinato dall’abbondantissima fioritura di rose che lo aveva accolto in primavera. Più tardi quel nome fu italianizzato al pari di altri toponimi ritenuti sconvenienti o non autoctoni.
Il nome del pittore tedesco, vero scopritore del luogo, è ricordato in una piccola strada con un sottopassaggio (sotto i binari della ferrovia), a lungo unico collegamento con il litorale. Quel sottopassaggio veniva comunemente chiamato “il taulero”, il perché certamente incomprensibile ai più. All’entrata del taulero c’era la botteguccia di un vasaio che fabbricava orci, scodelle, piatti, brocche e bricchetti, scaldini, sia semplici che decorati con rose, galli o paesaggi. Faceva anche graziosissimi

martedì 27 aprile 2010

39. Penna, inchiostro e calamaio

Daniela anni fa mi chiese: «Ma cos’è sto calamaio di cui sento parlare in una trasmissione televisiva?»
Perbacco, mi sono detta, come si fa a non conoscere questo strumento che è stato, fino al 1959, il pane quotidiano per milioni di ragazzini che hanno frequentato le scuole elementari di mezzo mondo? Ma Daniela è nata dopo gli anni ’70 e questa boccettina piena d’inchiostro, in cui si intingeva la penna per poter scrivere, non l’ha mai usata, così come non l’hanno usata tutti quelli che sono entrati in prima elementare dopo il 1960.

A decretare la morte del calamaio (insieme alla penna con pennino e all’inchiostro) è stata la BIC.
Insomma la fantastica penna a biro che non doveva più essere immersa nell’inchiostro per scrivere, che non faceva più macchie una volta posata sulla carta, che non sporcava più i quaderni, le mani, il grembiulino e i compagni di banco di qualche bambino birichino che si divertiva a spruzzarli con l’inchiostro, è nata nel 1953.

Fu il barone francese Bich a liberare migliaia di ragazzini dalla schiavitù dell’inchiostro. Il nobile francese non inventò la biro, perché questa era già stata inventata nel 1938 da due fratelli ungheresi, Lazlo e Georg Biro che si erano rifugiati in Argentina durante il fascismo, ma mise a punto un processo di fabbricazione industriale che permise di abbassare enormemente il costo della penna a sfera e, quindi, di venderla ad un prezzo che sfidava qualsiasi concorrenza. La BIC cominciò ad essere commercializzarla in tutta Europa dopo la metà degli anni ’50. Pensate che ancora al giorno d’oggi se ne vendono più di 15 milioni di esemplari al giorno.
I bambini di prima si ricordano ancora del banco di scuola a due posti dove, sul lato destro di ogni scolaro o in mezzo, vi era un buco per far entrare il calamaio: una boccetta di vetro che si riempiva di inchiostro.
Una tortura utilizzare la penna e il pennino che si spuntava quasi sempre, macchiando e bucando il foglio appena scritto. Lo scolaro quando ritornava a casa aveva continuamente il pollice destro sporco di blù, così come era blù un angolo della bocca dove egli appoggiava la parte finale della penna mentre era assorto nelle sue profonde riflessioni.

Il gesto per scrivere era quello di intingere la penna col pennino nel calamaio, poi si davano due colpetti per togliere l’inchiostro in eccesso (che spesso andava a finire sulla schiena dello scolaro davanti) e, via sul foglio a scrivere quello che dettava la maestra.
L’altro strumento importante da utilizzare con la penna e l’inchiostro era la carta assorbente: senza quella la macchia si allargava e invadeva metà foglio. Per cui ognuno di noi ne aveva una buona scorta. Nei casi disperati si utilizzava anche il talco, un assorbente antico ed efficiente. Altra scorta indispensabile era quella dei pennini che, per chi aveva la mano pesante come la mia, li spuntava continuamente.
Noi scolari di “penna, inchiostro e calamaio” siamo passati alla biro senza nemmeno accorgercene, anche se la differenza tra prima e dopo è stata enorme. Merci Monsieur Bic!
Barbara Bertolini   -   tutti i diritti riservati

lunedì 5 aprile 2010

38. Nell'Appenino reggiano una bella tradizione pasquale

L’uovo, simbolo di rinascita, è il perno su cui ruota una delle più antiche tradizioni pasquali sulle montagne emiliane.



E scussin” (dal verbo scusser, cioè sbattere contro) si praticava in quasi tutti i paesini a Pasquetta.
Un incaricato del posto comperava 5-6 ventine di uova e le cuoceva colorandole: per il verde utilizzava sia l’ortica sia l’erba tout court; per il rosso impiegava, invece, la tintura vera e propria. Dove c’era concorrenza, la decorazione poteva essere più raffinata.
Queste uova sode venivano vendute sulla piazza del paese. Il gioco, e il divertimento, consisteva nello sbattere il proprio uovo contro quello di un avversario. Vinceva l’uovo chi era riuscito a rompere per primo quello del rivale, dunque la persona che aveva pescato l’uovo più duro, ma che sapeva anche utilizzare una tecnica particolare per sbaragliare i concorrenti.
A questo giochetto partecipavano tutti: uomini, donne e bambini. Il vincitore assoluto era quello che, partito con un uovo, riusciva a racimolarne il più possibile, perché l'uovo "cocciato" diventava suo.
Racconta la Signora Armentina che il suo record fu di sette uova prima di essere sconfitta da un altro più duro del suo!
Una tradizione quindi conviviale, simpatica, semplice ed economica che continua al giorno d’oggi nei paesini di montagna come Castelnuovo Monti, Carpineti o Marola.
Barbara Bertolini

martedì 9 marzo 2010

37. Regolamento del perfetto impiegato


Ecco un regolamento trovato negli archivi e che data della fine dell'Ottocento. Esso stabilisce, in 10 punti, cosa dovevano fare gli impiegati.
Tutti quelli che soffrono perché il lavoro è troppo duro dovrebbero meditare sul fatto che all’epoca si pretendeva che non solo l’impiegato lavorasse bene ma che avesse una vita familiare e sociale decorosa. L’unico dubbio che mi rimane è: perché fumare sigari spagnoli fa dubitare dell’onestà di una persona?



Regolamento ufficio del 1889
1. Gli impiegati dell’ufficio devono scopare i pavimenti ogni mattina, spolverare i mobili, gli scaffali e le vetrine.


2. Ogni giorno devono riempire le lampade a petrolio, pulire i cappelli e regolare gli stoppini, e una volta la settimana dovranno lavare le finestre.


3. Ciascun impiegato dovrà portare un secchio d’acqua e uno di carbone per la necessità della giornata.


4. Tenere le penne con cura; ciascuno può fare la punta ai pennini secondo il proprio gusto.


5. Questo ufficio si apre alle sette del mattino e si chiude alle otto di sera, eccettuata la domenica, nel qual giorno resterà chiuso. Ci si aspetta che ciascun impiegato passi la domenica dedicandosi alla chiesa e contribuendo liberamente alla causa di Dio.


6. Gli impiegati uomini avranno una sera libera alla settimana a scopo di svago, e due sere libere se vanno regolarmente in chiesa.


7. Dopo che un impiegato ha lavorato tredici ore in ufficio, dovrà passare il rimanente tempo leggendo la Bibbia o altri buoni libri.


8. Ciascun impiegato dovrà mettere da parte una somma considerevole della sua paga per gli anni della vecchiaia, in modo che egli non diventi un peso per la società.


9. Ogni impiegato che fuma sigari spagnoli, faccia uso di liquori in qualsiasi forma, frequenti biliardi o sale pubbliche, o vada a radersi dal barbiere, ci darà una buona ragione per sospettare del suo valore, delle sue intenzioni, della sua integrità e onestà.

10. L’impiegato che avrà svolto il suo lavoro fedelmente e senza errori per cinque anni, avrà un aumento di paga di 5 centesimi al giorno, ammesso che i profitti della ditta lo permettano.

domenica 28 febbraio 2010

36. Ultima serata prima della partenza per l'America: anno 1956

Loreta Giannetti, italo-canadese, ci racconta la partenza per l’America. Una partenza dolorosa, straziante, vista con gli occhi di una bambina che sente sparire il proprio mondo. Gli emigrati che hanno vissuto le stesse emozioni si ritroveranno nel racconto della piccola molisana.


Fine dicembre 1956. Fa freddo in casa. Domani si parte per Napoli dove prenderemo il bastimento per l’America. Non riconosco più la mia casa. I mobili sono stati venduti. Sono rimaste solo tre sedie in mezzo alla cucina e le casse recuperate per la costruzione del presepio.
Il camino acceso che ci riscalda ci fa un po’ di luce con la sua fiamma. Fuori è buio. Notte senza stelle. Mia madre mi sembra più grande del solito. Quando cammina per la cucina, la sua ombra arriva fino al soffitto. Ho paura. Mia sorella dorme su una cassa che gli fa da culla. La casa la chiudiamo domani.

Stasera si veglia e si aspettano parenti e amici venuti a salutarci. Arrivano i nonni, arrivano gli zii e zie. Non sanno dove mettersi; mamma offre le sedie ai piu anziani e le casse ai più giovani. Nessuno ha voglia di parlare; si piange solamente. Anche il fuoco tace stasera. Fa freddo e buio. Tutti di nero vestiti, come ad un funerale. Solamente occhi rossi, solo occhi bagnati da tante lacrime.
La nonna si mette a parlare a bassa voce con mia madre. Forse gli parla di mio padre, suo figlio che ci aspetta in America. Ma le lacrime di mamma aumentano sempre più. Mi avvicino e lei mi prende fra le sue braccia. La prima volta da tanti mesi.

Fuori una fisarmonica si mette a suonare: una canzone triste poi altre due e niente più. Si sente il passo del musicista che si allontana. Arriva altra gente, vicinato, amiche di mia madre, comari e compari: cominciano piano piano grida di dolore.
Grida di mamma straziata da questa partenza e grida di quelli che rimagono. Grida delle nonne, delle zie, delle comari. Gli uomini tacciono e fissano il fuoco del camino, la sigaretta in bocca. Non dicono niente. Dopo un po’ se ne vanno tutti. «Vi accompagniamo domani alla stazione!».
La cucina si è riscaldata; il fuoco rimane fedele: è lui che ci fa compagnia fino alla fine della notte.

Mia sorella dorme sempre. Mia madre prepara un lettino fatto di casse di legno del presepio. Ci mette la grossa coperta verde e mi prende fra le braccia e lì, distese sulla terra di Betlemme, vicino al fuoco, arriva il sonno. Tutto ormai è buio intorno a noi.


Loreta Giannetti

sabato 20 febbraio 2010

35. La messa, la questua.... e le arance

Due storie, quella di Betty e quella di Armentina (post 34), chiariscono la vita religiosa di allora. Tutta la giornata era segnata dalla religiosità: rosari, campane che scandivano il tempo contadino, riti e feste religiose che fermavano il lavoro e la messa che diventava il momento scelto dai giovani per scambiarsi occhiate e sondare le intenzioni. Insomma si era religiosi perché così andava il mondo. La prima storia si svolge negli anni '50, mentre la seconda all'inizio degli anni '30.



Betty Delacrétaz racconta:

en allant à la messe du dimanche je passais devant la vitrine du magasin d'alimentation. Or un dimanche que vois-je : des oranges !
Je n'avais pour argent que les lires que Maman mettait dans le livre de messe. Des lires pour payer la chaise, et d'autres pour la collecte.
Je comptais et recomptais ma fortune et courageusement j'entrais dans le magasin, avec toutes mes lires je reçus 2 oranges.
Pendant tout le trajet du retour (environ 1 heure) j'ai contemplé et humé le parfum délicieux de ces fruits. En arrivant j'ai donné les oranges à Maman qui les a partagées entre tous.
Il fallait se tenir à la table tant elles étaient acides.
Pour moi ces oranges restent dans ma mémoire comme étant les fruits les plus délicieux , savoureux et parfumés que j'ai mangés.
C'étaient d'autres temps. Ce vécu me fait apprécier chaque jour le bien-être dont je jouis.

Traduzione :
Andando a messa la domenica, passavo davanti ad una vetrina del negozio alimentari. Una volta vidi delle belle arance. Avevo in tasca solo le lire che Mamma mi metteva nel libro della messa. Lire che servivano per pagare la sedia in chiesa e per la questua.
Contai e ricontai il mio piccolo tesoro e coraggiosamente entrai nel negozio: con quei soldi ricevetti due arance.
Durante tutto il tragitto di ritorno (quasi un’ora) ho contemplato e annusato il profumo delizioso di questi frutti. Arrivando ho dato le arance a Mamma che le ha divise tra tutti.
Bisognava afferrarsi al tavolo per quanto erano acide. Ma per me queste arance restano ancora nella mia memoria come i frutti più deliziosi, saporiti e profumati che abbia mai mangiato.
Erano altri tempi. Questo vissuto mi fa apprezzare ogni giorno il benessere di cui godo.

34. Le pecore di Sant'Antonio

Armentina, invece, non aveva una mamma altrettanto tollerante e, bisogna dirlo, la sua azione è stata molto più insolente di quella di Betty.



Racconta dunque l’Armentina:

Premetto che da quando avevo 6 anni tutte le mattine da aprile a ottobre mia mamma mi svegliava all’alba per mandarmi a pascolare le pecore (ore 5 o 4, secondo i mesi). In inverno, invece, mi si buttava giù dal letto alle 8. Solo con la neve facevo festa perché le pecore non uscivano.
Un lavoro che ho sempre odiato per vari motivi: facevo una fatica immane per uscire dal sonno, non amavo questo attività dove non serviva la bravura, ma soprattutto perché solo a me era richiesta tale mansione; mai a mia sorella più grande.
Dovevo avere 8-9 anni quando mia madre mi mandò a messa e mi diede 20 centesimi per darli a Sant’Antonio. Mi disse che gli dovevo chiedere la grazia di conservare i nostri animali sani. Era, infatti, il 17 gennaio festa di Sant’Antonio Abate. Andai in chiesa e la statua del santo era stata messa in mezzo alla navata, sopra un grande drappeggio dove tutti buttavano i loro soldi e chiedevano la grazia. La chiesa era affollata, la messa veniva ufficiata da vari celebranti e io osservavo attentamente il Santo: ting, ting, le monetine cadevano a fiotti sul telo, ma lui non si abbassava mai e non diceva grazie. Allora, tra me e me, mi son detta che non era lui a ricevere i soldi ma i preti e ho quindi deciso di spendere quelli che mi aveva dato mia mamma (una grande somma per il periodo) per comperare il castagnaccio e gli “scachetti” (arachidi) che avevo visto su una bancarella prima di entrare. Ma prima di uscire dalla chiesa domandai comunque al Santo una grazia: quella di far morire tutte le pecore e di salvare solo gli altri animali.



Il proprietario della bancarella fece resistenza, gli sembrava strano che una bambina potesse spendere tanti soldi per delle golosità. Alla fine cedette, allora chiamai tutti i miei amici e ci facemmo una scorpacciata di castagnaccio come mai era capitato in vita nostra.
Appena arrivata a casa, andai subito nell’ovile a verificare se le pecore erano morte. Ma niente, Sant’Antonio non mi aveva fatto nessuna grazia: erano tutte lì, vive e vegete. Che delusione!
Quando mia madre mi chiese se avevo dato i soldi risposi di no, perché quei soldi non se li prendeva il Santo ma i preti che c’erano. Mi corse dietro con le pinze del camino. Per fortuna uno zio presente  la bloccò e le disse: «la bambina ha detto la verità e guai a te se la tocchi!» E, per la prima volta in vita mia, me la cavai senza botte, com’ero contenta…..

martedì 16 febbraio 2010

33. Fino agli anni '50 il latte appena munto veniva consegnato tutti i giorni porta a porta

Ines e Armentina rispondono alla domanda di Simonetta, ovvero come veniva trasportato e conservato il latte nelle case prima del frigorifero.

Pensavo di cavarmela con due parole, ma sentendo le esperte ho capito che ci scappava un post.

Ebbene sì, il latte veniva comperato giorno per giorno sia in città che in campagna perché poteva al massimo durare due giorni, ma solo se faceva freddo.
A San Giovanni, negli anni ’40, e fino agli anni ’50 c’era una donna che chiamavano “la lataröla”, che passava di casa in casa con il suo latte contenuto in un bidone di alluminio, che trasportava sopra un rudimentale carretto. Aveva un mestolo che misurava esattamente mezzo litro. Per cui versava il latte richiesto nei contenitori che le porgevano le massaie, quasi sempre una bottiglia di vetro dal collo largo. La lataröla chiedeva alle famiglie se volevano il latte anche il giorno dopo e, sapeva quindi, grosso modo, quanto latte portare. Altrettanto si faceva in città, dove passava un contadino o contadina con i suoi bei bidoncini.
Questo latte non era pastorizzato e, normalmente, lo si doveva bere solo dopo averlo bollito. Io ricordo invece di una zia che, sapendo la mia passione per il latte, quando mungeva la mucca, me lo spruzzava direttamente in bocca (e inevitabilmente sul viso), buonissimo!
Nei paesi dove c’era la latteria, le mamme mandavano i figli a prendervi il latte con un bottiglione o un piccolo bidone che aveva una chiusura ermetica. Ma durante i mesi invernali (da novembre a marzo) la latteria chiudeva. Ed era in quel momento che la “razdora”, altro termine emiliano per indicare la padrona di casa, con il latte delle sue mucche faceva il formaggio, il burro e la ricotta. Molti di voi, sono sicura, hanno ancora in bocca il sapore di questa ricotta calda appena fatta, che veniva messa sul pane con un cucchiaio di siero.

La contadina nel passato era una lavoratrice instancabile, a tempo pieno, e riusciva non solo a rassettare la casa, occuparsi dei figli, del marito, degli uomini e anziani della famiglia, preparare il pranzo, ma anche a produrre alimenti, ad accudire il bestiame, lavorare i campi e realizzare tessuti per indumenti.
***°°°***
Ecco una buona notizia: è ritornato nelle nostre città il latte di giornata, quello munto di fresco.
Infatti, Ines dice che a Reggio Emilia ci sono ormai vari negozi dove si può comperare latte di giornata. Una mucca disegnata in grande sulla vetrina indica inequivocabilmente il tipo di prodotto venduto. Ci siamo stancati di bere latte che non sa più di nulla, non si sa dove e quando è stato prodotto e arriva sulle nostre tavole dopo aver percorso anche 2000 km. Questi negozi certificano, invece, la provenienza vicina e la qualità del latte: EVVIVA LA GENUINITA’

Barbara

martedì 9 febbraio 2010

32. Quando la Chiesa dettava le regole della sobrietà, anche ai bambini



di Betty Delacrétaz



Je me souviens, j'avais environ 6 ans nous étions à Valle di Sotto province de Vicenza, où comme dans beaucoup de régions les curés régnaient en maîtres et seigneurs.
Nous nous préparions avec enthousiasme à la Fête Dieu. A cette occasion des petits paniers en osier avaient été fabriqués Ils étaient remplis de pétales de roses. Pour moi c'était un évènement....
La procession allait démarrer, tous les enfants étaient derrière le baldaquin et la joie était à son comble, lorsque une dame proche du curé qu'on appelait « la perpetua »s'approcha de moi, me prit par la main, et me fit sortir des rangs car ma robe ne couvrait pas les genoux. Mon crime: j'avais grandi un peu trop vite et, faute de moyens, la garde-robe n'avait pas suivi!

Je demeure persuadée que la stupidité et l'ignorance de certains ont largement contribué à la désertification des églises.


***°°°***
Traduzione:
Mi ricordo, avevo circa 6 anni e vivevamo a Valle di Sotto in provincia di Vicenza, dove come in molte altre regioni i preti regnavano padroni e sovrani incontrastati.
Ci preparavamo con entusiasmo alla festa del Corpus Domini. Per l’occorrenza erano stati realizzati piccoli cesti in vimini che avevamo riempito di petali di rose. Per me era un avvenimento eccezionale….
La processione iniziava, tutti i bambini erano dietro al baldacchino e la gioia era al culmine quando la “perpetua, una signora al servizio del sacerdote , mi si avvicinò, mi prese per mano e mi fece uscire dalla fila perché il mio vestito non copriva le ginocchia. Il mio crimine: ero cresciuta troppo in fretta e, per mancanza di soldi, il guardaroba non aveva seguito l’evoluzione!
Rimango persuasa che la stupidità e l’ignoranza di certi hanno largamente contribuito alla desertificazione delle chiese.
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La Signora Delacrétaz è svizzera d'origine vicentina e ha deciso di lasciare a questo blog, nella lingua che domina meglio, le sue considerazioni sul passato. La ringrazio di cuore. La traduttrice-traditrice del suo pezzo sono io. Barbara

domenica 31 gennaio 2010

31. Come si faceva il burro a mano?


Cara Silvia, grazie per la domanda. Ho chiesto alla Signora Armentina, la consulente ormai ufficiale di questo blog. Ed ecco le sue spiegazioni:



Per realizzare il burro a mano si metteva la panna in una bottiglia. Ci si sedeva e, appoggiando la bottiglia sulle ginocchia, la si faceva andare avanti e indietro energicamente, fino a quando questo composto si condensava diventando burro. Questa operazione poteva durare anche mezz’ora.
Dopo di ché, si svuotava la bottiglia in una teglia e, con le mani, si dava al burro la forma che si voleva. Chi aveva fantasia poteva, con un coltello o in piccolo bastoncino, comporre dei disegni. Inoltre, nelle case contadine ma soprattutto nei paesini delle Alpi, esistevano anche stampi di legno, realizzati con varie decorazioni (come quelli della foto) – intagliati a mano durante i mesi invernali – per dare una conformazione graziosa al burro.
Questa tecnica è valida anche al giorno d’oggi per chiunque voglia realizzare in proprio il burro.
Mentre, per ritornare al “casaro” (del post 30), lui, aveva un attrezzo che funzionava all’inizio del ‘900 a manovella e, successivamente a motore. Con l’aggiunta del ghiaccio, riusciva a ricavare tanto burro quanto voleva.

venerdì 22 gennaio 2010

30. La conservazione degli alimenti senza frigorifero

Vi ricordate i film americani anni ‘60? Primo piano sul soggetto che entra in casa, apre la porta, e subito dopo il «ciao cara», senza svestirsi, si fionda sul frigorifero e beve la sua bottiglietta di coca-cola o di birra come se, per ritornare dal lavoro avesse attraversato un immenso deserto.

E’ questa immagine che mi viene in mente per parlare di “nevaia” o “ghiacciaia”, ossia come nel passato si riusciva a produrre ghiaccio e a conservare gli alimenti quando non si possedeva il frigorifero.

Infatti, l’elettrodomestico tutt’oggi più utilizzato nelle case degli italiani, è stato inventato nel 1919 a Chicago, con il nome di “kelvinator”, trasformato poi in “frigorifero”. Esso, però, fu prodotto a livello industriale, sempre negli Stati Uniti, solo a partire dal 1931.
In Italia è arrivato verso la metà degli anni ’40 e, solo nelle case ricche, poiché troppo costoso. Ha cominciato a svilupparsi dappertutto dopo gli anni ’60.

E fino ad allora, come si faceva a conservare gli alimenti deperibili? Ma soprattutto, come si faceva a produrre ghiaccio in piena estate?

Nella vita contadina il ghiaccio era indispensabile per fare il burro, uno degli alimenti di primaria necessità poiché nelle regioni del Nord era (ed è) utilizzato al posto dell’olio.
Ogni paese aveva la sua “nevaia” o “ghiacciaia” , un buco profondo, in un luogo freddo, dove si raccoglieva la neve durante l’inverno e si copriva il tutto con fascine. Questa neve finiva per trasformarsi in ghiaccio che durava fino all’inverno successivo. La persona che custodiva la nevaia, tagliava, con una sega, man mano il ghiaccio necessario e, alla fine dell'estate, il buco era diventato così profondo che gli occorreva una scala a pioli per arrivare in fondo alla nevaia.

Senza il ghiaccio così conservato, come detto, il “casaro” non era in grado di produrre il burro dal suo latte. E’ possibili farlo a mano senza ghiaccio, ma solo in piccole quantità e con molto “olio di gomito”, ecco perché, per la difficoltà di realizzazione di questo alimento, il casaro era addetto alla produzione di burro per tutti.
Il ghiaccio della nevaia, veniva comperato anche dalle famiglie per realizzare sorbetti o granite. Il pezzo di ghiaccio veniva grattato poi, sul composto ottenuto, si versava la menta o lo sciroppo, quasi sempre d’amarena al Nord e limone al Sud: una delizia per grandi e piccini. Racconta Nicoletta Barbarito (post 40) che le famiglie benestanti possedevano piccole ghiacciaie composte di legno e di zinco dove ci si calava dentro un grosso cilindro di ghiaccio. Questo ghiaccio veniva recapitato giornarlmente da un apposito venditore.
Altri alimenti deperibili venivano consumati in giornata o, al massimo nei due giorni successivi.
La carne di maiale, per esempio, che poteva essere macellata solo in inverno, veniva, invece, messa sotto la sugna per durare più a lungo, così come tutto quello che riguardava l'insieme della produzione suina.
Altri alimenti deperibili potevano essere messi in salamoia, sotto sale, sott’olio, sottaceto, sotto il grasso della sugna, come detto, oppure essiccati o affumicati. Con l'essicazione, per esempio, si eliminava l’umidità naturale attraverso il calore o l’aria rendendo così un alimento durevole oltre che trasportabile (si pensi al merluzzo). E l’essicazione  non altera il  valore nutrizionale dei cibi e, anzi, ne esalta il gusto.

Questi erano sistemi di conservazione degli alimenti che duravano da millenni e che continuano a durare e che hanno permesso all’uomo la sua crescita (mangiate e moltiplicatevi!).

Barbara Bertolini  -   tutti i diritti riservati

martedì 5 gennaio 2010

29. Cosa portava la Befana ai bambini buoni?

Fino agli anni ’60 nelle famiglie italiane in maggioranza era la befana a portare, nella notte dell’Epifania i doni ai bambini. Babbo Natale apparteneva, allora, alle culture del Nord Europa.
La tradizione italiana, infatti, voleva che i bimbi mettessero sotto il camino una grande calza per permettere alla Befana di riempirla di doni.

Il ceto sociale faceva la differenza tra i doni ricevuti nelle case dei contadini, o di chi aveva un reddito saltuario, rispetto ai “signori”, come si diceva allora.
Rita e Angela ci hanno raccontato i loro ricchi doni ricevuti sotto il camino: bambole, trenini, e vari giochi erano decisamente il sogno degli altri bambini meno fortunati, che rimaneva, tuttavia, davvero un sogno irraggiungibile, quindi rimosso: il bambino povero non osava nemmeno desiderarli. Nella loro calza, invece, quando si svegliavano al mattino e correvano nella stanza dove troneggiava il camino (o la stufa per chi non aveva il camino) e la trovavano gonfia e traboccante di roba, era davvero una grande festa per questi ragazzini che esplodevano di felicità.

Cosa c’era nella calza? Ho chiesto a molti di ricordare. Ed ecco il risultato:

Dal Nord o al Sud il contenuto cambiava poco. Venivano messi mandarini, portugal (che poi erano arance così chiamate sia in Emilia che a Napoli), noci, caramelle, qualche dieci lire, uno o due pacchettini di “mignin” (biscottini industriali fatti a strati che si vendono ancora al giorno d'oggi con il nome di wafer), arachidi, fichi secchi, qualche cioccolatino. Per i più poveri la calza veniva riempita con delle mele. Giochi, molto raramente, a meno di avere uno zio che ritornava dall’America. Qualche volta potevano esserci delle matite colorate, le famose “Giotto”.
Ma quello che non mancava mai sul fondo della calza, per tutti i bambini, poveri e ricchi, che durante l’anno qualche marachella l’avevano di certo commessa, era un bel pezzo di carbone, quello vero ben inteso!
Questa era la nostra Befana, che ci dava comunque una contentezza infinita. Tutta la notte avevamo cercato di stare svegli per sorprendere la vecchietta, invano. Anch’io, come Rita, mi sono fatta mettere il letto vicino al camino, ma la befana è stata più furba di me.

A casa di mia nonna, invece, c’era una tradizione molto bella per noi bambini. Essa realizzava un tortellone dolce, lungo come il tavolo della sala, farcito di noci, cacao, miele e altri ingredienti che non ricordo. Questo tortello particolare veniva cotto dal fornaio del paese, l’unico che aveva un forno adatto per cuocere una alimento così lungo.
Una volta messo in tavola ci dovevamo mettere in fila (dal più piccolo al più grande), ci venivano bendati gli occhi e ci veniva dato un coltello con cui dovevamo tagliare il tortello: mangiavamo il pezzo che eravamo riusciti a tagliare!
Che allegria, che divertimento!
Comunque, ora, meno male che l’Epifania tutte le feste le porta via!

Barbara