
Rita Colletti, nata nel 1921, al suo arrivo in Libia, quando Italo Balbo era governatore di quella colonia italiana, aveva solo 14 anni. Vi ha fatto tutti i suoi studi ed un’esperienza da insegnante prima di ritornare in Italia. Verso il finire della sua esistenza ha voluto raccogliere i ricordi di quegli avvenimenti che hanno marcato profondamente la sua vita. Questa descrizione poetica del giorno del suo arrivo a Tripoli è una pagina dei suoi diari:
TRAMONTI LONTANI
Il rullio della nave che avanzava, si trasformò a poco a poco in un soddisfatto sospiro; ormai Tripoli era là, si distendeva davanti a noi come una lunga striscia verde sul mare azzurro scuro circondata dalla sabbia gialla del deserto sconfinato.
Il sole che tramontava di faccia a noi, filtrando tra le palme e i minareti, ci permetteva di scorgere le case bianche e solide affondate nel verde.
Quando la nave entrò nel porto, fummo avvolti in un caldissimo abbraccio da un’aria infinitamente dolce e toccammo il suolo africano tante volte sognato: il cuore gonfio di una gioia meravigliosa, indagatrice, attenta e interessata.
Era l’ora del tramonto: momento di stupore, di serena fiducia nella Natura e nel suo Creatore, al quale l'uomo stanco si affida come nell’unico porto tranquillo!
Uomini e cose, quella sera, palme, minareti, giardini, cammelli, barracani e tachie vivevano avvolti nello stimolante profumo degli oleandri.
Questo profumo mi ha poi sempre riportato, quasi come un tormento accettato e atteso, a tante ore lontanissime e tante sensazioni indistruttibili.
Non c’erano rondini nel cielo, sarebbero apparse in inverno, a luglio solamente sciami di passeri festeggiano la sera esaltandosi in cinguettii sfrenati ed interminabili: dice bene Leopardi: sono naturalmente gli uccelli le più liete creature dell’universo!
Un altro ricordo libico mi perseguita con martellante rimpianto: quelli di un momento che anni dopo, già liceale vissi a Sabratha, nel teatro romano, dove accanto a mio padre assistevo all’ “Edipo re”, dato in onore del sovrano che veniva dall’Italia. Alla fine della tragedia, mentre sull’immenso palcoscenico deserto si ergeva solenne la figura tragica del vecchio re cieco, che, sostenuto dalla figlia imprecava contro la sorte terribile impostagli dal fato, nel fondo del proscenio un’altissima porta si spalancò ed apparve il mare azzurro e calmo, indifferente all’umano dolore, inghirlandato dai voli dei gabbiani festanti mentre tutto il teatro con la sua dolente umanità era avvolto da una dolce aria impregnata dal profumo delle rose e degli oleandri.
Pochi giorni dopo Dante mi avrebbe suggerito il termine esatto per esternare quell’emozione: trasumanare. Sì, io quella sera a Sabratha mi sentii “trasumanare”.
TRAMONTI LONTANI
Il rullio della nave che avanzava, si trasformò a poco a poco in un soddisfatto sospiro; ormai Tripoli era là, si distendeva davanti a noi come una lunga striscia verde sul mare azzurro scuro circondata dalla sabbia gialla del deserto sconfinato.
Il sole che tramontava di faccia a noi, filtrando tra le palme e i minareti, ci permetteva di scorgere le case bianche e solide affondate nel verde.
Quando la nave entrò nel porto, fummo avvolti in un caldissimo abbraccio da un’aria infinitamente dolce e toccammo il suolo africano tante volte sognato: il cuore gonfio di una gioia meravigliosa, indagatrice, attenta e interessata.
Era l’ora del tramonto: momento di stupore, di serena fiducia nella Natura e nel suo Creatore, al quale l'uomo stanco si affida come nell’unico porto tranquillo!
Uomini e cose, quella sera, palme, minareti, giardini, cammelli, barracani e tachie vivevano avvolti nello stimolante profumo degli oleandri.
Questo profumo mi ha poi sempre riportato, quasi come un tormento accettato e atteso, a tante ore lontanissime e tante sensazioni indistruttibili.
Non c’erano rondini nel cielo, sarebbero apparse in inverno, a luglio solamente sciami di passeri festeggiano la sera esaltandosi in cinguettii sfrenati ed interminabili: dice bene Leopardi: sono naturalmente gli uccelli le più liete creature dell’universo!
Un altro ricordo libico mi perseguita con martellante rimpianto: quelli di un momento che anni dopo, già liceale vissi a Sabratha, nel teatro romano, dove accanto a mio padre assistevo all’ “Edipo re”, dato in onore del sovrano che veniva dall’Italia. Alla fine della tragedia, mentre sull’immenso palcoscenico deserto si ergeva solenne la figura tragica del vecchio re cieco, che, sostenuto dalla figlia imprecava contro la sorte terribile impostagli dal fato, nel fondo del proscenio un’altissima porta si spalancò ed apparve il mare azzurro e calmo, indifferente all’umano dolore, inghirlandato dai voli dei gabbiani festanti mentre tutto il teatro con la sua dolente umanità era avvolto da una dolce aria impregnata dal profumo delle rose e degli oleandri.
Pochi giorni dopo Dante mi avrebbe suggerito il termine esatto per esternare quell’emozione: trasumanare. Sì, io quella sera a Sabratha mi sentii “trasumanare”.