lunedì 26 dicembre 2011

58. NATALE E' -ANCHE-



NATALE E’  -ANCHE-
di Margherita Perpetua




Tra luci e festoni,
regali e profumi buoni,
voglio celebrare un Natale diverso…
Perciò, leggete e
non lasciate
il mio pensiero “disperso”.
Per me, infatti, c’è un Natale
che è così
fermatevi un poco qui…


domenica 6 novembre 2011

57. Giornalismo del dopoguerra: linotype e fagioli!

di Nino Amoroso
Negli anni del dopoguerra quando, a Campobasso, sono entrato nel mondo del giornalismo di provincia, il giornale si componeva con le singole lettere di piombo che il bravo tipografo prelevava a grande velocità da un contenitore, diviso in singole caselle per ordine alfabetico. Quindi si creava la colonna inumidita e legata con lo spago, che consentiva di impaginare  e di realizzare tutto il menabò sillaba per sillaba, a pagina intera pronta per il pianale di stampa. Spesso però diventava anche un lavoro di sisifo, perché la colonna si disfaceva e bisognava ricominciare da capo.  Anni dopo arrivò anche in Molise la macchina  linotype con composizione a piombo fuso riga per riga, un po’ più facile da utilizzare rispetto al primo secolare sistema. Per chi è nato con la tastiera del computer vicino alla poltrona, forse ha difficoltà a immaginare il grande vantaggio per l’epoca di un moderno strumento, ma lontano tecnologicamente dalla composizione attuale della scrittura. 


Infatti, ora, per avere l’articolo stampato, lo scrivo sul computer e lo mando in redazione, la quale, dopo controllo,  lo invia all’impaginatore che realizza tutto il giornale con un apposito programma installato sul suo pc e poi, una volta avuto l’ok dal direttore, invia direttamente il tutto alla tipografia e il giornale è realizzato, senza che nessuno si sia mosso dalla propria sedia.
Ai miei tempi, viceversa, il giornalista e il linotipista dovevano lavorare gomito a gomito vicino ad una diabolica macchina, la linotype, che possedeva l’arte di comporre i pensieri con il piombo, come direbbe un poeta. Ma che, in effetti, con un rumore assordante, fondeva il piombo, sprigionando nuvole di vapore e, grazie alle dita agili del linotipista e alla paziente opera di revisione del giornalista, riusciva a comporre il giornale , con una perfezione e nitidezza ineguagliati.
Per come me la ricordo io, la composizione avveniva nel  seguente modo: un “crogiuolo”  posto alto

giovedì 29 settembre 2011

56. Quando a novembre si faceva "San Martino"

Ho 8-9 anni, sono in un ampio cortile, è novembre, ma sembra tornata l’estate,  e sto guardando la mia amica Norina mentre, aiutata dal padre, viene issata su un carro trainato da due mucche che la porterà  verso una nuova vita. Non sono sola, nell’aia si sono radunati  i vicini per un ultimo saluto.
In quel carro è stipato tutto quello che la famigliola possiede: 5-6 sedie, un tavolo, un comò, un armadio, una madia, le stoviglie, gli attrezzi agricoli: pochi metri quadri di miseria. Con lei, il carro si porta via un pezzo del mio cuore perché Norina è  la mia amica più cara, quella con cui ho condiviso i salti nel fienile, le corse nei verdi prati, le camminate alla fonte per prendere l’acqua, il tragitto per andare a scuola: tutto quello che faccio, lo faccio con lei. E non capisco perché la famiglia, ora, debba lasciare il paese ed andare verso una destinazione lontana ed a me ignota.

lunedì 16 maggio 2011

55. Lavorazione a mano delle foglie di granturco o mais

Questi lavori sono stati realizzati a mano con le foglie di granone o mais durante l'inverno 2010/2011 dalla Signora Cristina Gualtieri di Baranello per il blog di Altri tempi.

IL GRANONE NELL'ALIMENTAZIONE
Tra le piante più interessanti del mondo contadino di una volta c'era il granone, o mais, o gran turco o formentone (tutti i nomi vanno bene).

Originaria del nuovo Messico, la pianta, portata in Spagna dopo la scoperta dell'America, ha stentato a diffondersi fino al '600. Furono, infatti, gli arabi, che avevano soggiornato in Andalusia nel periodo musulmano, a diffondere il mais nel Medio Oriente. La pianta venne successivamente reintrodotta in Europa dai commercianti italiani: da lì il nome di "gran turco".

Questa pianta ha ancora, al giorno d'oggi, un'importanza primordiale nell'alimentazione umana e animale.
Il mais può essere mangiato in vari modi. Il più semplice è di lessare o fare alla griglia le sue pannocchie. Inoltre, i grani, schiacciati e tostati, diventano corn flakes, oppure, solo tostati, scoppiano e si trasformano in pop corn. In Italia la farina, ricavata dalla macinazione dei chicchi, è utilizzata per preparare piatti gustosi come la polenta o la pizza di granone, alimentazione fondamentale per la sopravvivenza durante gli anni di carestia in Italia (come per esempio nei periodi di guerra). Dice mia madre, che, dopo aver mangiato polenta tutte le mattine, le contadinelle uscivano dall'inverno fresche come rose… ci dovremmo provare anche noi!
Altro prodotto importante dal mais è l'olio: tra i migliori dopo quello di oliva. E, infine, non tutti sanno che il mais è impiegato anche nella fabbricazione di liquori.
Questo è il lato "alimentare" della pianta. Ma dal granturco, in tempi non molto lontani, la donna riusciva ad utilizzare integralmente tutto l'arbusto.
Per esempio, le sue le foglie, una volta seccate, venivano utilizzate per imbottire i materassi (come già detto nel post 12 da Lucia), oppure, intrecciate, formavano cestini, vassoi e scarpette o ciabattine. Inoltre, la sua pannocchia vuota, ovvero il "mulgat", come si chiamava in dialetto emiliano, o "catullo" in quello molisano, veniva utilizzata per accendere il camino perché si infiammava facilmente. E altrettanto si faceva con il gambo che si adoperava quasi sempre quando si doveva far bollire l'acqua del paiolo per fare il bucato.

Insomma questa pianta era davvero preziosa per i contadini che erano quasi totalmente autosufficienti dal punto di vista alimentare, ma anche da quello manufatturiero.
Inoltre, il mais era ed è ancora molto importante nell'alimentazione animale.

Vassoio con pigna

L'UTILIZZO DELLE FOGLIE DI GRANONE O MAIS NEL MONDO CONTADINO

martedì 29 marzo 2011

54. Guerra in Umbria: 1943, i ricordi di un ragazzino di allora

La guerra è stata ed è per quelli che si avvicinano agli ottanta un ricordo incancellabile. Questo blog, incentrato sui tempi passati, non poteva non tenerne conto. Ecco la lucida e interessante testimonianza di Giorgio Bechelloni di Città di Castello…..





Città di Castello, in Umbria, ha un nome che fa pensare a uno scenario di fiaba. E per i quattro ragazzi Bechelloni (fra cui io, Giorgio, nato nel 1930) − famiglia della quale si hanno notizie in Umbria fin dal Cinquecento – nelle vicinanze c’era un luogo veramente fiabesco: Villa San Savino.

Giunta a mia madre Laetitia per via ereditaria, e in origine una casa di caccia, è una villa di oltre 50 stanze, costruita nell’Ottocento in stile pseudo-rinascimentale toscano tipico della zona, circondata da un'ampia tenuta. Un particolare però la distingue da altre dimore del genere: la sua torretta è stata riconosciuta dalla Società Geografica Italiana come il punto trigonometrico dell’Italia centrale: insomma, segna esattamente il centro dell’Italia centrale!

Il cancello monumentale in ferro battuto, la “pergola greca”, cosiddetta per via delle antiche colonne provenienti da una villa in Toscana sempre dello zio proprietario originario di Villa San Savino, la limonaia, il parco dove si erge anche un mandorlo millenario, il vasto panorama sulla Val Tiberina: per noi ragazzini di città era un regno sconfinato, magico, di bellezza e libertà.

Alcuni miei incancellabili ricordi sono legati a Villa San Savino e vorrei menzionarli qui in occasione dell' anniversario dell’unità d’Italia.
Era il 1943. L’Italia era divisa in due, al Nord c’era la Repubblica Sociale sotto il tallone dei nazisti. A Roma si moriva letteralmente di fame, c'era il coprifuoco, la benzina era razionata, non c’era riscaldamento, si viveva nella paura. Una sera mia madre ci annunciò avvilita che l’intera cena della nostra famiglia consisteva in un’unica cipolla. Il po’ di carne che rimaneva era per la balia che allattava la mia sorellina di pochi mesi. Io scoppiai a piangere perché sentivo i morsi della fame.
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mercoledì 16 marzo 2011

53. VIVA L'ITALIA

Noi italiani abbiamo la fortuna di essere nati in uno dei paesi più belli del mondo. Da Nord a Sud i paesaggi sono da mozzafiato. I nostri antenati ci hanno lasciato un patrimonio urbanistico eccezionale. Siamo una terra di grandi geni che hanno arricchito il mondo con le loro idee: scienziati, poeti, scrittori, cineasti, santi, navigatori, musicisti, tenori, pittori, architetti. Il Dizionario biografico degli italiani, che raccoglie tutte le biografie dei più grandi e famosi, è arrivato al 70esimo libro e ne sono previsti 110!


Non può essere che si butti a mare tutto per mero interesse economico. Dobbiamo ricordarci che la ruota gira e, non è detto, che fra 20, 30 o 40 anni sia il Sud à essere più ricco.
Stringiamoci "a coorte", e siamo orgogliosi di questo paese!
Ringrazio i padri fondatori che hanno saputo realizzare il loro grande sogno unificando l'Italia che − anche nella mente di altri popoli − era già tale molto prima del 1861.
Auguri a tutti gli italiani.

VIVA L'ITALIA! UNITA E INDIVISIBILE.
Barbara Bertolini

domenica 13 marzo 2011

52. Il ricordo di un garibaldino per festeggiare l'Unità d'Italia

Anche questo blog vuole unirsi ai festeggiamenti per l'unità d'Italia. L'occasione me la dà Nicoletta Barbarito, che ormai conoscete perché dalla sua penna escono pezzi da grande "reporter"...
Ella scrive:


Ecco il mio piccolo contributo alle commemorazioni dell'anniversario dell'unità d'Italia:
la foto del mio bisnonno, Emilio de Lama, di Parma, che nel 1866, a 16 anni, scappò di casa per unirsi alle truppe di Garibaldi. Una bravata poco apprezzata dalla famiglia che comunque non gli avrebbe dato il permesso di partire.
La foto fu scattata a Brescia, punto di raccolta dei giovani di Garibaldi. La camicia rossa e il berretto rosso furono in seguito donati dalla figlia Albertina, mia nonna materna, al Museo garibaldino che si trova a Roma accanto annesso alla basilica di S. Maria degli Angeli a Roma.

Tutto quello che so di lui viene solo dai ricordi di mia nonna (la quale fisicamente gli somigliava moltissimo).
Era aitante, simpatico (da giovane anche gran burlone, scavezzacollo), con gli occhi azzurri, e una splendida voce da tenore. Cantava con le finestre aperte e i vicini lo applaudivano incantati. Sognava di calcare le scene del Teatro Regio di Parma, allora come adesso celebre tempio della lirica. Anche in questo caso però la famiglia de Lama - di piccola nobiltà provinciale e tradizionale - si dimostrò contraria.

Emilio ebbe una bambina dalla giovane moglie Marianna, di famiglia modesta, che morì di parto. Si risposò successivamente con Laudomia Toscani, una bravissima ragazza che faceva la sarta a Parma. I genitori, infastiditi da questo nuovo colpo di testa, costrinsero Emilio a lasciare Parma. Della famiglia di Parma mia nonna Albertina conservò fino alla morte una grande nostalgia, ricordandone la grande casa, i nonni imponenti (che lei, "la bimbina", chiamava Babbo Grande e Mamma Grande) che si esprimevano in dialetto parmigiano o in francese, la villa in campagna, i numerosi zii e zie, dei cugini dai nomi impossibili che amava ripetere ridendo: Azelia, Burcarda, Cadmo, Driope, Elle, Fillide, Glauco, Learco, Romano (quest'ultimo almeno se l'era cavata!). Su quei parenti raccontava vecchi e spassosi aneddoti, che evidentemente sapeva da suo padre. Se Emilio non fosse stato un giovane tanto "scomodo", Albertina avrebbe probabilmente avuto una vita più serena e agiata.
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martedì 8 marzo 2011

51. Quando l'insegnamento scolastico terminava in 3a elementare

Diploma di maturità, laurea, master, i giovani di oggi, in fatto di istruzione, non soffrono certo più di analfabetismo, anzi. Super istruiti, superpreparati culturalmente, hanno passato i primi vent'anni della loro esistenza nello studio delle conoscenze: in 10 mila anni di storia dell'umanità, è la prima volta che il sapere viene inculcato ad intere generazioni di ragazzi nel mondo intero!

Nessuno di loro può quindi immaginare in che condizioni andavano a scuola i loro nonni o bisnonni.

Nel piccolo paesino emiliano di San Giovanni, l'anno 1930 è lo spartiacque dell'istruzione. Quelli nati prima, andavano a scuola dell'obbligo solo fino alla terza elementare. Gli altri (generati dal 1930 al 1949) terminavano la quinta elementare. Dopo il 1960 l'obbligo, in Italia, si è esteso anche alle medie.

A raccontarmi l'istruzione rattoppata delle passate generazioni, ci prova Adele, nata sul finire degli anni venti del '900. Lei, rispetto alle sorelle maggiori, ha avuto la fortuna di fare qualche mese di quarta. Ma, come le altre, prima di andare a scuola, doveva portare a pascolare le pecore: alzata all'alba, poi via per campi e boschi, ritorno a casa con quelle maledette bestie che scappavano da tutte le parti, poi, grembiule, cartella, provvista di legna per la stufa durante l'inverno, e di corsa a scuola. Alle 8.30, come lei, tutti i bambini del paese si raccoglievano a Cà d'Funsin, in una stanza dove l'unica maestra, Teresa Munarini, impartiva le lezioni a tre classi contemporaneamente. Aste e punto il primo anno, per imparare a scrivere. Il secondo, un po' di aritmetica e di scrittura e, il terzo, scrittura, lettura e aritmetica.



mercoledì 23 febbraio 2011

50. Antichi Romani e il mio viaggio-studio negli Stati Uniti

di Nicoletta Barbarito

Anni fa con il mio nipotino di 5 anni - in visita dalla California – andai al Colosseo. Più che dall’immenso edificio, il bambino fu impressionato dai finti gladiatori romani con le facce truci, cimieri, mantelli svolazzanti e daghe di legno argentato. Li osservò a lungo, pensieroso, girando loro intorno, poi disse in tono serio, “Nonna, quando tu eri piccola, al tempo degli antichi Romani…”

Domanda giustificata, agli occhi dei bambini tutto è contemporaneo! Proprio al tempo degli antichi Romani non c’ero, risposi, ma a Roma nell’altro secolo sì, fin da prima della metà. Sempre tempi antichi erano.
In quei tempi di romani antichi, andai in America (1960).

Fra il vecchio e il nuovo mondo non c'era soltanto l’oceano. Era proprio un altro mondo. Chi in Italia conosceva i due Paesi (emigranti a parte) ci era arrivato attraverso gli studi, i libri, il cinema, le canzonette, il jazz. Dopo la ricostruzione degli anni Cinquanta, l'Italia era sì in pieno boom economico, ma nelle famiglie borghesi e in generale per le ragazze, ancora poco si era mosso. Il femminismo era di là da venire, i diritti delle donne erano ai primordi, non c’era il divorzio. Solo chi aveva finito il liceo poteva accedere a tutte le facoltà universitarie: studi seri, i professori onnipotenti, severi, distanti. Turisti di passaggio e residenti stranieri a parte, nello stivale tutti erano italiani, mangiavano all’italiana, pochi avevano familiarità con le lingue (e semmai con il francese). La maggioranza degli intellettuali italiani che nel dopodguerra hanno tradotto gli autori americani non aveva mai messo piede negli States.

Le Olimpiadi di Roma erano lì lì per cominciare. Ero appena laureata (allora ci si laureava in 4-5 anni, era normale), parlavo piuttosto bene l'inglese avendo fatto due lunghi soggiorni in Inghilterra come ragazza alla pari. Grazie ad una borsa di studio, insieme ad altri 9 borsisti feci la traversata da Napoli a New York sulla "Leonardo da Vinci". Delle mie compagne, soltanto due avevano passato un anno in America, una in un college sempre grazie ad una borsa di studio, l’altra ospite di uno zio giornalista corrispondente da Washington. Anche fra gli intellettuali che negli anni precedenti avevano tradotto e pubblicato in Italia gli autori americani, del resto, pochi avevano visto la Statua della Libertà, avendo imparato l’inglese – chi più chi meno - sui libri.

Arrivati a New York i 10 borsisti presero strade diverse. La destinazione mia e di due bolognesi era Cornell University a Ithaca, stato di New York, non lontano dalle cascate del Niagara. Un immenso campus su verdi colline, con torrenti, laghetti e una cascata.

Il nome “Ithaca”, in particolare, mi attraeva, venivo da studi classici. Che fosse la fine piuttosto che l’inizio di un’avventura? Un ritorno? Non troppo lontano da Ithaca, circa sei ore di viaggio da NY, vedo tre cartelli direzionali: Berlin, Babylon, Rome. Fantastica, sconcertante geografia, anche liberatoria. Nel Nuovo Mondo è tutto da inventare. Ma perché aver chiamato “Babilonia” una tranquilla cittadina nel verde? (magari c'è anche una Sodoma,da queste parti...)
Vi passo, scrivendole al presente, alcune mie impressioni di allora. Sì, è roba stantìa, banale “déjà vu”! Le distanze ormai non esistono più, gli italiani viaggiano freneticamente, Google solleva in un attimo da ogni curiosità. Ma allora, per una "antica romana" oltretutto giovane, erano grandi novità da scrivere a casa (obbligatoriamente una volta la settimana), esperienze invidiabili e invidiate.
 

venerdì 21 gennaio 2011

49. Il tempo dilatato dell'infanzia

Non si può andare, come Proust, alla ricerca del tempo perduto. Ma si può sognare di quel tempo dilatato che hanno usufruito, durante la loro infanzia, quelli nati fino agli anni '60 del secolo scorso. Dopo non è più possibile, perché i tempi moderni hanno catapultato nel nostro mondo mezzi che hanno fatto correre il tempo, tanto da metterci l'affanno per tenergli dietro. Cosa è successo? Perché ognuno di noi ha l'impressione che le settimane, i mesi, gli anni, volino?
Quando penso al tempo della mia infanzia, affiora subito alla mia mente un'immagine di infinita serenità: un biroccio trainato da due pacifiche mucche mi sta trasportando, con tutto il carico, verso casa. Sono seduta su un enorme mucchio di erba che inebria le mie narici con i suoi mille odori. Non c'è nessuna fretta, i ruminanti conoscono la strada e la percorrono, lentamente. E' una bella giornata di maggio, comodamente seduta, assaporo i raggi del sole e il procedere cadenzato delle bestie mi culla e mi lascia la libertà di far vagare la mia mente.
Questo è il mio tempo dilatato, quello che rimpiango quando, ora, troppi impegni si accavallano.
Un tempo che sembra anni luce lontano da quello attuale. All'epoca vivevamo in simbiosi con i cicli della natura e, poiché si andava sempre a piedi o, al massimo in bicicletta, non poteva esserci fretta.

Racconta la Signora Armentina (la decana di questo blog) che addirittura quando era giovane (1940), in casa sua non c'erano orologi. Per cui ci si regolava per le varie attività della giornata solo dalla luce del giorno e dalle campane che, nei paesini, suonavano alle sei, a mezzogiorno, al vespro per richiamare i fedeli ma che, in effetti, scandivano la giornata di lavoro agricolo: inizio lavoro, pausa pranzo, fine lavoro; un suono che si espandeva nelle campagne a distanza di chilometri.
Un altro fattore importante per regolarsi sul tempo, era il sole. Armentina dice che, per accendere il fuco per il pranzo, le bastava guardare quando l'ombra arrivava al secondo scalino della sua gradinata. Nel mondo contadino tutto era questione di osservazione, attraverso questa, infatti, e alle esperienze acquisite, l'agricoltore sapeva far fruttare la natura: tradizioni e savoir faire tramandati da generazioni.