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Diligenza con "trapelo" (cavallo dietro) |
Tante
parole della lingua italiana utilizzate nel passato sono andate perdute e,
molte, invece, stanno in un angolino del nostro cervello, seppellite da montagne
di informazioni, pronte a risorgere appena qualche scrittore ha la bontà di
adoperarle.
Secondo
Zanichelli, che ha lanciato l’allarme, sono all’incirca 2800 le parole italiane
che rischiano, ora, l’estinzione. Tra queste, per esempio, “imbolsire
(ingrassare), invacchiare (andare a male e segnato come errore da Word!),
misoneista (contrario ad ogni innovazione), belluino (feroce), ecc…”. Ma anche tanti termini dei mestieri
scomparsi.
Ho
ritrovato un testo delizioso di Giuseppe Prezzolini (1882-1982) sulla parola “trapelo”, che
voglio condividere con voi poiché riporta in vita un bel pezzo di altri tempi,
un racconto che è stato pubblicato per la prima volta nel 1954 dall’editore
Longanesi. Barbara Bertolini
IL
TEMPO DEL “TRAPELO”
[…] La parola “trapelo” era sparita di
circolazione, dopo aver servito per qualche migliaio d’anni la gente del
Mediterraneo; messa via; a disposizione (di chi? di chi aveva troppi anni come me); e a riposo (dopo aver
tirato tante diligenze, carrozzoni, vetture da signori, e carichi di mercanti).
Era dunque una parola disusata,
invecchiata, antiquata, anzi
forse già arcaica e certamente morta per la gente non più giovanissima, una
parola che, presto, i compilatori di dizionari avrebbero preso con le pinze
dalle colonne vive nell’alto della pagina e depositato in basso.
Quella
parola l’avevo adoperata come se fosse viva ancora fra le nuove generazioni,
dimenticando che queste erano nate quando non si andava più in “diligenza”, e
la parola “corriera” aveva già acquistato il significato di un carrozzone
automobile. Avevo dunque evocato uno
spettro, e d’un tratto mi parve di aver abbandonato il salotto di Madison
Avenue, col suo calore di calorifero, e d’esser tornato ai tempi in cui, per me
ragazzo, la fermata per attaccare il “trapelo” significava che potevo uscire
dalla corriera, e accompagnare al passo i tre ronzini che traevano avanti il
corpo della diligenza e di passeggeri più anziani; e mi permetteva di andare
avanti e indietro con un frustino in mano cavato dalla prima siepe che fosse
capitata a portata di temperino.
Pensavo
che erano bastati pochi anni per far cadere in disuso una parola antica di
secoli; pronunciata da gente del popolo e adoperata da letterati, magari chi sa
da quanti poeti.
Trapelo voleva dire passeggiata
libera, aria e sole, rincorse con altri ragazzi, uscita dall’atmosfera dei
“grandi” chiusi tutti con le loro chiacchiere tabaccose nel rumore di ferraglia
e di vetrame della diligenza. Era una parola che mi faceva riudire i campanelli
dei cavalli, gli schiocchi di frusta del vetturale ed il fruscio dei prati e
delle messi al passare d’un alito di vento.
Ora
anche la vista di quella funzione (di attaccare un “trapelo”), generalmente su
sfondo di un’osteria, significava lontananza dal potere immediato di mio padre.
Quelle gite, quelle spedizioni, quelle avventure erano la libertà.
Ora
la figura di mio padre mi fa tornare a mente altre cose tramontate insieme con
il “trapelo”. Subito che penso a lui, mi viene in mente la figura davanti al
caminetto, col dorso verso il fuoco e le mani sollevano le due falde del trait per riscaldare meglio le parti
deretane; mentre nello stesso tempo s’accalora e discute. Ecco un vestito
completato da pantaloni a righe che non si porta più. Ecco un atteggiamento che
non usa più. Sulla tavola dove lavorava sta un lume detto “livello”, e l’olio
contenuto in un serbatoio scende lentamente mantenendo una fiamma uguale e
quieta che riverbera luce soltanto sulla pagina da leggere o da scrivere
mediante una cupola di smalto verde prato fuori e bianco latte all’interno. Mio
padre fuma ogni tanto un sigaro corto
che si chiama Cavour. E quando dà una
buona mancia è una moneta d’argento chiamata cavurrino.
[…] E’ il tempo del “trapelo”. Nella cucina tutti
si cuoce sui fornelli a forza di carbone di legna, e la cuoca si lamenta che le
hanno rifilato troppi “fumi” in mezzo ai pezzi buoni. In biblioteca arriva l’ultimo libro di un
giovane, che fa impressione, si chiama Guglielmo Ferrero e decreta la fine
delle Nazioni latine superate da quelle nordiche. Il primo noleggio di biciclette viene aperto
e si chiede al genitore i soldi per poterla inforcare. Più tardi la vorremmo
comperare.
E’
il tempo del “trapelo”. In cantina arriva la damigiana di Chianti che bisogna
travasare nei fiaschi. I fiaschi vengono poi riempiti d’olio e sopra la bocca
si mette un cappuccio di terra cotta perché i topi non vengano con la coda a
sorbirlo. A scuola arrivano le prime “signorine”. Cominciano le ostilità che
preludono all’amore. Portano sottane lunghe e stivaletti alti con molti
bottoni. Quanto tempo ci vorrà a farli uscire dai loro occhielli? Arrivano i
padrini per un duello del fratello maggiore, c’è gran sussurro in casa. Sono
dei signori vestiti di un palamidone nero, e fanno la faccia feroce. Anche io
faccio a duello ai pugni con un compagno e sono accompagnato dai miei padrini
in un prato dove imparo a buscarne senza lamentarmi e a stringere la mano
all’avversario.
[…]
E’ il tempo del “trapelo”. Non lo rimpiango. Non lo elogio. A me già dava a
noia e volemmo farne un altro. Questo non è migliore, perché già puzza per
molti.
Estratto
da L’italiano inutile, Rusconi edit., Milano 1983 –
pp. 9-13
Nota:
Quando
parla di Madison Avenue è perché Prezzolini si era trasferito in America ed era
lì che era nata la discussione tra di lui e personaggi del “bel mondo” di
italiani di New York. (BB)
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