sabato 15 febbraio 2014

80. GHEDDAFI e le suore italiane da lui volute in Libia

suore all'ospedale El Beida
In questo blog, grazie all’amica Maria Genta, ho potuto parlare della Libia ai tempi di re Idriss (vedere post 6,7,8 e 15) . Ora, un’interessante testimonianza di una suora, le cui consorelle vi hanno vissuto per vent’anni, ci permette di capire meglio la mentalità libica e, soprattutto, il dopo Gheddafi che ben pochi politologi sembrano aver afferrato.


Mi ha raccontato, infatti,  Suor AnnaMaria dell’esperienza delle consorelle della sua Congregazione.
 Le religiose erano state chiamate dall'allora Papa Paolo VI al quale Gheddafi stesso aveva chiesto delle suore per l'ospedale di El Beida. Il rais libico era stato colpito, in effetti, dalla cura e dalla dedizione di due suore francescane, che avevano assistito nell'agonia e nella morte, con grande competenza e amore, il padre colpito dai bombardamenti di Reagan alle caserme in cui viveva la famiglia del capo libico.

domenica 19 gennaio 2014

79 La scuola al tempo del fascismo: tema d’italiano


Dopo il post n.78, ricopio qui il secondo tema svolto dal professor Paperini come esempio per i suoi alunni.  Ritengo, infatti, che non c’è niente di meglio di rileggere i temi d’italiano che dovevano essere svolti dagli scolari degli anni ’30 del secolo appena passato per capire la grande differenza tra loro e gli alunni di adesso. Nessun insegnante si sognerebbe mai di chiedere, oggi,  l’ispezione degli zaini dei nostri ragazzi. E, anche se qualcuno la facesse, non vi troverebbe certo un  grillo canterino, figuriamoci se i bambini di adesso sanno cosa sia! Un’altra parola sparita dal dizionario scolastico è “diligenza”.  Esistono ancora gli scolari diligenti? Chissà … Il rimprovero all’alunno  Gabetti, invece, perché nella sua cartella vi sono giornaletti e polizieschi, è frutto della mentalità dell’epoca: si dovevano leggere solo buoni libri, dimenticando che, invece, sono proprio i primi ad avvicinare l’adolescente alle future letture importanti. Ma vediamo le differenze:  (Barbara Bertolini)

Un’improvvisa ispezione in classe alle cartelle degli alunni

mercoledì 1 gennaio 2014

78. La scuola durante il fascismo: i temi in classe


Siamo sotto il fascismo, la scuola è una cosa molto seria.  Ci si alza in piedi appena l’insegnante entra e si aspetta il suo “seduti!”. Dopo di che, zitti, zitti si segue (o  si fa finta di seguire) con attenzione la lezione. In quel periodo molti genitori sono analfabeti e, l’istruzione è percepita come importante e fondamentale per l’avvenire del proprio figlio. Ecco perché quasi tutti i papà e le mamme che vanno a parlare con gli insegnanti, raccomandano loro di usare le maniere forti con i propri pargoli se non obbediscono e non studiano.
In questo clima di terrore, il prof. Paperini decide di dare una mano agli studenti svogliati realizzando un certo numero di temi che toccano tutti gli argomenti dell’anno scolastico: mamma e papà, l’amico, l’autunno, la vendemmia, la gita in campagna, in montagna e al mare, Natale, La Befana, Pasqua ecc… ecc….
Questi temi, le cui tracce saranno riprese anche dagli insegnanti, rivisti a distanza di anni, finiscono per darci uno spaccato della realtà vissuta dallo scolaro nel periodo fascista……. Ve li ripropongo. Per ora  ecco il primo, molto istruttivo per capire il comportamento degli  alunni dell'epoca:

 Tema: Il nostro maestro

Svolgimento:

martedì 10 dicembre 2013

77. Racconti della terra

Il gallo di Giacinto
di Vincenzo Rossi

A causa di un malore e una successiva caduta, Vincenzo Rossi è costretto a letto per più di un mese, quando un avvenimento inatteso viene a confortare la sua dolorosa immobilità. Ecco il suo racconto:



[…] Immobile, supino, notti e giorni, con gli occhi chiusi o fissi al soffitto stetti per una quarantina di giorni… Poi quando avevo perduto quasi tutte le speranze di tornare a una vita piacevole avvenne il miracolo che mi sottrasse da quel costante stato di pena. Una notte mentre stavo osservando nel mio orologio da polso le due lancette che si accavallavano sulla mezzanotte, dal balcone semiaperto penetrò come un dono divino un alto, vigoroso e prolungato canto di un gallo. In me si produsse il miracolo: la mia sofferenza si attenuò, il mio cervello ebbe una illuminazione, una scossa rigenerante attraversò tutto il mio corpo e il mio spirito. La voce di quel misterioso gallo mi giungeva dai piedi del Cimerone dove alcuni contadini avevano sistemato il loro pollaio.

Quell’inattesa voce di gallo era tanto forte che in principio lo scambiai per un ululato di lupo. Cantò sette volte e tacque. Tornò il silenzio e il buio, ma passarono tre, quattro minuti e il gallo riprese il suo canto con sette note e tacque, fece una pausa un po’ più lunga, ma tornò ancora con sette note, l’ultimo “i” lo tenne per una decina di secondi: chicchirichiiiiiii… Compresi che intendeva avvisare il villaggio che era mezzanotte e che non avrebbe cantato più. Infatti stetti in attesa tutta la notte, ma quel canto miracoloso non si ripeté più.

domenica 3 novembre 2013

76. QUANDO SI NASCEVA IN CASA



Fino agli anni ’60 nei paesini di campagna si nasceva in casa. Questo parto avveniva in modo concitato. Nell’imminenza del travaglio si allontanavano dall’abitazione uomini e bambini. Le donne adulte della casa o del vicinato entravano in azione riscaldando grandi pentoloni d’acqua e preparando le varie pezze di stoffa necessarie per il nascituro e la mamma.  Al marito,  l’unica cosa che toccava, era di andare a chiamare la levatrice o la donna esperta del luogo e che si era formata solo dopo una lunga pratica di parti poiché era lei che faceva nascere tutti i bambini del paese. 

sabato 26 ottobre 2013

75. La pastorella impertinente


Questa storia è vera e si svolge all’inizio degli anni ’30 in un pesino dell’Appennino emiliano. Racconta di una pastorella astuta che non voleva proprio andare a pascolare le pecore.
***** 
Emergo con fatica da un sonno profondo. Sento, ovattata, la voce di mia madre che cerca di svegliarmi scuotendomi leggermente, ma il suo movimento mi culla e mi fa sprofondare di nuovo nel sonno. Allora, mi prende in braccio e mi porta in cucina, io piagnucolo come ogni mattina. Per acquietarmi mi dice: «Dai Tina, ti ho preparato un bel bicchiere di latte che ho appena munto per te». Sa, infatti, che è il solo modo per farmi accettare questa levataccia in un ambiente così freddo che richiede una forza di volontà disumana per uscire dalle calde lenzuola. «Le tue amiche sono già pronte, ti aspettano», aggiunge. Continuo a frignare, ma so che non ho altra scelta, è l’alba ed io devo andare fuori  e raggiungere le mie dolci, tenere, deliziose pecorelle, che in effetti sono le mie carnefici.

martedì 8 ottobre 2013

74. La proposta di matrimonio nel '900


Abiti sposa del passato*
La richiesta di matrimonio, nel passato, era una cerimonia ben codificata e questo accomunava quasi tutte le classi sociali della popolazione.  Solo i  poveri non si ponevano il problema con chi doveva sposarsi la figlia o il figlio, tanto, peggio della loro posizione non potevano avere!
Poiché nel passato il matrimonio determinava  la posizione civile di una persona, esso poteva generare una caduta verso un gradino più basso o dare una spinta verso uno più alto della scala sociale. Ecco perché era combattuto il matrimonio d’amore che sbocciava tra due giovani di diversa provenienza sociale. Se si nasceva poveri, era difficile arricchirsi con il matrimonio: solo una fanciulla particolarmente bella, i cui genitori sapevano giocarsi bene  questa carta, preservando la sua integrità fisica, poteva sperare di farcela, altrimenti rischiava di diventare solo una concubina. I libri sono pieni di storie amorose contrastate e di dolci fanciulle inghiottite dai lupi!

Nel ‘900 come avveniva la proposta di matrimonio  quando i genitori erano consenzienti?

sabato 8 giugno 2013

73. Il S. Maria nuova di Reggio Emilia e l’igiene negli ospedali degli anni ‘50/60 dai ricordi di un'infermiera

Vecchio ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia


Sono stata contattata da un’insegnante che stava svolgendo una ricerca sull’igiene del passato nell’Appennino.  In questo blog ci sono vari post che, indirettamente, ne parlano. Ma soprattutto ho segnalato, alla ricercatrice, una ex infermiera, Ines Bonini, entrata all’Ospedale S. Maria nuova di Reggio Emilia nel 1961 e che, quindi, avrebbe potuto chiarire tutte le sue domande su come veniva gestita l’igiene nella metà del secolo scorso.

Ho interrogato anch’io Ines, perché la cosa mi incuriosiva e, quello che mi ha raccontato degli ospedali degli anni ‘50/60, mi ha lasciata allibita. Infatti, l’ospedale  descritto dall’ex infermiera è uno di quei luoghi dove nessuno di noi vorrebbe mai  trovarsi. Non solo per la sofferenza che vi regnava, ma anche per la mancanza totale di igiene e pulizia che lo caratterizzava. Se Ines non si è mai presa nessuna infezione lo deve solo ai robusti anticorpi formatisi quand’era bambina a contatto con il bestiame, in un mondo contadino dove non ci si preoccupava troppo dell’igiene.

martedì 21 maggio 2013

72. Il WWW festeggia i suoi 20 anni: tank you Mr Tim Berners-Lee



Il “www” ovvero “World Wide Web” compie  vent’anni. Questo blog non si occupa di storie così recenti, ma quella che voglio raccontare è davvero particolare,  perché i vent’anni trascorsi sembrano un’eternità. Da quando Tim Berners-Lee (nella foto), che lavorava al CERN di Ginevra, ha creato il WWW e ha permesso che venisse messo a disposizione di tutti gratuitamente, il nostro mondo è cambiato. Questo blog e i milioni di altri blog sparsi nei continenti esistono grazie a lui, così come i miliardi di messaggi email che ci scambiamo ogni giorno, le informazioni e le ricerche che riusciamo ad avere con un “clic”, i giornali on line e gli ebook che leggiamo;  tutto si può vedere grazie all’invenzione di questo fisico britannico che, con i suoi ipertesti, ci ha aperto una finestra sul mondo.

Ma la cosa più  importante  è che  Berners-Lee abbia scelto di brevettare il suo WWW  lasciando il libero utilizzo,  sapendo che così facendo non sarebbe mai diventato miliardario.

sabato 27 aprile 2013

71. L'inquinamento domestico negli anni '50

La parola "inquinamento" fino alla metà del secolo scorso non aveva ancora fatto la sua apparizione poiché nelle case contadine di rifiuti domestici ne rimanevano ben pochi. Questo per due ragioni: la prima perché si comperava lo stretto indispensabile e, la seconda, perché gli animali da cortile spazzavano via, con voracità, il cibo che avanzava.
Anche l’abbigliamento, veniva ancora cucito a mano e, spesso, come raccontato in questo blog (post 2), realizzato dalle massaie dalla A alle Z, ovvero dalla produzione e realizzazione della stoffa stessa, alla sua finale trasformazione con questi passaggi:

venerdì 8 marzo 2013

70. Il matto del paese



Ogni paese ha sempre avuto il suo personaggio eccentrico, sopra le righe e, talvolta, proprio matto. Una persona che tutti conoscevano, evitavano o aiutavano a seconda  della sua personalità. Anche attraverso questo racconto si intravvede la vita paesana del tempo che fu.  La storia del pazzo,  che ci racconta lo scrittore Vincenzo Rossi, si è svolta nel periodo fascista a Cerro al Volturno (nella foto), in provincia di Isernia, ed è davvero inconsueta: ogni notte egli svegliava i paesani facendo un fracasso infernale, fino a quando…

Lorenzaccio, il pazzo di Cerro al Volturno            di    Vincenzo Rossi

Di solito, tra l’una e le tre di notte, Lorenzaccio il Pazzo, svegliatosi nel suo pagliaio di Cincinuso, veniva a scuotere il paese con i suoi colpi di martello. Alla Pianuzza indossava l’armatura, conservata in una grotta: infilava la testa in un secchio al quale aveva attaccato quattro corna di bue, due davanti e due dietro, si legava intorno al corpo due lastre di zinco, una avanti e una dietro, tenute da fili di ferro alle spalle e ai fianchi; s’infilava nelle narici due lunghe penne di tacchino; impugnava un grosso martello di legno e raggiungeva in silenzio le prime case. Qui attaccava a battere se stesso e quanti oggetti riteneva potessero rispondere al suo musicale desiderio: canaloni, ringhiere, pali, tubature, ecc. Le prime notti che scoppiò quel fracasso, molti  si alzarono, scesero a osservare la fonte dell’indesiderata orchestra, lo minacciarono, gli fecero promesse, ma nessuno riuscì a convincerlo di smetterla. Puntualmente nel cuore della notte riappariva, percorrendo  il paese due volte, in salita e in discesa. A poco a poco le orecchie si assuefecero e c’era chi non avvertiva neppure l’arrivo di Lorenzaccio, che con i colpi faceva tremare tutte le ringhiere alle quali giungeva il suo martello. Io ne sentivo l’arrivo ai piedi del paese dal pagliaio di Arcangiancalla, o dalle Aie.

lunedì 11 febbraio 2013

69. LA FONTE DEL PAESE e le sue storie




Quando l’acqua non arrivava nelle abitazioni, la fonte era il luogo d’incontro più importante del paese perché almeno un membro della famiglia  vi andava, ogni giorno,  ad attingere l’acqua che sarebbe servita non solo per dissetare, ma anche per tutte le altre attività familiari come cucinare, lavarsi e lavare.
Il racconto poetico che segue è dello scrittore molisano Vincenzo Rossi  - che ringrazio per avermi permesso di mettere sul blog –  e che ci fa comprendere con vividezza  come la fonte, verso l’imbrunire, diventasse per il paese una agorà dove le donne si incontravano, discutevano e, perché no, litigavano anche. Ma bastava un bel cocomero per rappacificare tutti.  Siamo negli anni ’30 del secolo appena passato, a Cerro al Volturno (Molise), ma poteva accadere in qualsiasi  altro paesino d’Italia…  
***

La vecchia fonte, non più luogo di vita     di   Vincenzo Rossi*
Avvolta da profonda tristezza, di giorno e di notte, quasi non si riconosce. Le selci scavate dai ferri di muli e cavalli sono ricoperte da uno strato di terriccio dal quale traggono vita rigogliosi ciuffi di falasco; i solchi di scolo, ripieni d’acqua putrida, immobili, assorbono la luce sfuggita alle ginestre e ai rami inselvatichiti dei pioppi; i muri di cinta, che l’hanno in qualche modo protetta dal terreno franoso, ancora la rilevano nella sua forma rettangolare e le consentono di dissetare le bocche che le fanno visita. L’ampia pietra scalpellata, che ne copre la vaschetta dalla quale fuoriesce l’acqua, è la sola a ripresentarsi agli occhi, avidi di leggervi le tracce del tempo, quasi come allora. Una lieve patina ne offusca l’antico splendore.

domenica 13 gennaio 2013

68. Cosmetica del passato

Le donne di tutte le epoche hanno sempre saputo migliorare il loro aspetto attingendo ai prodotti di bellezza  naturali. Le egiziane, cinesi, greche, romane  dei secoli avanti Cristo avevano già scoperto i tanti segreti della cosmesi e utilizzavano intrugli di tutti i tipi per la cura del corpo.

La studiosa Patrizia Turrini, dell’Università di Siena, che ha fatto un’indagine in merito, ci parla di una certa Trotula, donna sapiente e colta, medico della scuola salernitana, vissuta nel  Medioevo,  e quindi più vicina a noi, che, oltre alle malattie femminili, si è occupata anche di igiene e di bellezza. Ebbene, questa medichessa nel suo trattato, Il De Ornatu,  già  insegnava alle donne come eliminare rughe e peli superflui, come rendere smaglianti i denti e la pelle bianca e libera da impurità, come evitare le borse sotto gli occhi e le screpolature, ma anche come truccare viso e labbra e tingere di biondo o di nero i capelli.

martedì 25 dicembre 2012

67. Natale e balocchi



Quanta grazia Sant’Antonio! è proprio il caso di esclamare quando si va in qualsiasi casa durante le feste di Natale.
Alcuni  di noi, che hanno vissuto la loro infanzia accontentandosi di misere cose, vanno proprio in escandescenza. Mi ha raccontato un’amica, nonna felice di una bella brigata di quattro nipotini, che ha sentito il proprio marito, il cui studio è stato invaso da una montagna di regali che non riuscivano ad essere collocati sotto l’albero di Natale, dire a se stesso: «Su Antonio, non ti abbattere sono solo due giorni poi tutto passerà, fatti coraggio!» 

venerdì 16 novembre 2012

66. Le colonie marine degli anni Cinquanta



Appena penso a “colonie marine” mi viene in mente una vecchia canzone francese che le dissacrava: «Les jolies colonies de vacances, merci maman merci papa…» (che belle  le colonie, grazie mamma, grazie papà) e  che si cantava negli anni ’60 del secolo appena passato.  Nate nell’800 per i bambini affetti da malattie tubercolari, esse si sono poi diffuse in tutta Europa.
In Italia fioriscono sotto il fascismo, dove il culto del corpo e della salute  sono tra gli obiettivi prioritari di questo regime. Esse vengono frequentate da grandi masse di ragazzi e bambini, e ciò in linea con la politica fascista del sostegno alle famiglie meno abbienti e di maggiore educazione e controllo delle future generazioni.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale cresce ulteriormente la notorietà delle colonie marine a cui vengono inviati bambini di tutte le classi sociali. Da una mappatura degli anni ’80 risulta che sulla sola riviera romagnola ce n’erano ben 246.

lunedì 8 ottobre 2012

65. Storie d'altri tempi, storie di autoproduzione


di Federica (orto sul terrazzo)

Mentre cercavo in internet delle testimonianze su come vivevano le nostre nonne, come organizzavano il lavoro di casa e quali attività svolgessero, mi sono imbattuta in un blog molto bello e interessante: altritempiraccontati.blogspot.it. Si tratta di una raccolta di testimonianze su come si viveva una volta, soprattutto nella prima metà del secolo scorso. Vi si trovano aneddoti e racconti per lo più su come si svolgeva la vita in campagna.
I miei preferiti sono i racconti della signora Armentina, nata e cresciuta in una famiglia patriarcale. Armentina spiega in varie occasioni come questi tipi di nucleo domestico riuscissero ad essere totalmente indipendenti ed in grado di autoprodurre tutto quanto servisse loro.

lunedì 17 settembre 2012

64. Come si fa l'aceto balsamico a Modena

Foto presa da: www.lanoce.it/it/about/acetaia/

 Un affare di famiglia
di    Silvana Abati


In tanti supermercati si vende, a basso prezzo, un aceto “balsamico” che delle acetaie modenesi non ha proprio nulla. E’ impossibile, infatti, acquistare a pochi euro un nettare che per arrivare sulle nostre tavole ha dovuto essere assistito amorevolmente per più di due decenni. Parola di modenese: se lo trovate lasciate perdere o, comunque, non chiamatelo aceto balsamico di Modena perché sarebbe una grande offesa per tutti quelli che si occupano di questo particolare prodotto.
Da quando sono nata ho sempre visto l’acetaia nel solaio di famiglia: ce l’aveva mio nonno,  mio padre e, quando mi sono sposata, l’ha realizzata anche mio marito. Ora che ho raggiunto una certa età, la nostra acetaia è passata ad un nipote, contagiato anche lui dalla passione per questa antichissima tradizione che affonda le radici nel Medioevo.
Poiché di aceto balsamico me ne intendo, quando mi è stato chiesto da Barbara di lasciare sul blog di “Altri tempi” la mia conoscenza su questo “cibo degli dei” non ho esitato un istante. La mia è tuttavia un’esperienza unicamente familiare perché le nostre acetaie sono sempre state realizzate ad  uso privato e non commerciale.

mercoledì 20 giugno 2012

63. Ufficio: evoluzione tecnologica dagli anni Sessanta in poi



Chi è entrato a lavorare negli uffici negli anni ’60 ha visto un’evoluzione epocale del modo di operare durante i quarant’anni seguenti a causa dell’arrivo di nuova tecnologia.
Allora era utilizzata soprattutto la macchina da scrivere meccanica e, negli uffici più evoluti, c’era quella elettrica. Per il calcolo, invece, la calcolatrice poteva essere elettrica, anche se non mancava quella azionata a manovella. Si è dovuto, tuttavia, aspettare la metà degli anni ’70 per veder circolare la prima calcolatrice tascabile. Di personal computer nemmeno l’ombra, essi sono arrivati solo alla metà degli anni ’80. Prima c’erano unicamente macchinoni enormi (inventati negli anni ’50 in America, ma arrivati negli uffici importanti verso la fine degli anni ’60 in Italia)  che occupavano intere stanze e che facevano calcoli considerati allora stratosferici, ma che un piccolo personal computer di adesso batte largamente.

Personalmente, ho seguito passo a passo tutta l’evoluzione.
Dalla penna inchiostro e calamaio sono passata alla biro. Poi, macchina da scrivere meccanica, una “Remington” che, ancora studentessa,  mi sono comperata con i primi soldi guadagnati facendo lavoretti.
La macchina da scrivere aveva un nastro che doveva essere cambiato quando si esauriva l’inchiostro. I tasti erano duri e bisognava battere forte con i polpastrelli delle dita per farli imprimere sulla carta. Per andare a capo, bisognava accompagnare il carrello con una mano.  Se si sbagliava a scrivere si strappava dal rullo la lettera, la si arrotolava e la si gettava nel cestino, ricominciando tutto daccapo.  Arrivò poi la possibilità di fare correzioni ( anni ’70), prima con il bianchetto, una specie di smalto bianco con cui si ricopriva la lettera o la parola sbagliata e poi lo stick, sempre con lo stesso principio del bianchetto ma ingessato in una cartina che si frapponeva fra tasto e foglio, permettendo piccole correzioni.
La macchina da scrivere divenne sempre più veloce grazie all’elettricità e Ibm ne inventò varie, tra cui una con una palla al posto dei caratteri tradizionali e un’altra che fece impazzire le segretarie perché ogni lettera aveva uno spazio diverso, secondo la grandezza e, quando si sbagliava, erano dolori perché le lettere non combaciavano più. Questo sistema, però, permetteva una scrittura molto armoniosa.

La rivoluzione della macchina da scrivere arrivò a metà anni ottanta: una Olivetti che memorizzava una riga prima di battere il testo sulla carta, e permetteva quindi una correzione più facile. Una vera rivoluzione che guardavamo con meraviglia non immaginando quello che sarebbe arrivato dopo.


Per la comunicazione dei dati arrivò la telescrivente o telex  una macchina che inviava informazioni via telefono. Ma non copiava nulla per cui bisognava scrivere tutto quello che si doveva mandare. Per velocizzare l’invio, e pagare quindi meno telefono, fu inventata una striscia che, man mano si scriveva il testo (non in diretta) veniva forata dai tasti del telex. Poi, durante la trasmissione, si inseriva la striscia e la macchina leggeva lo scritto che arrivava così molto velocemente in tutte le parti dei paesi industrializzati.

sabato 14 aprile 2012

62. La buona cucina nelle case borghesi del dopoguerra


di Nicoletta Barbarito

 Entro in una qualsiasi libreria e trovo libri di cucina a iosa, occupano interi scaffali.  Accendo la TV e anche lì cuochi e cuoche a non finire. Apro una rivista dal parrucchiere, idem.
E a casa? Nei piccoli paesi e nelle città di provincia, più o meno ricche e informate, ancora si cucina due volte al giorno, spesso in modo tradizionale. Nelle grandi città ho, invece, i miei dubbi. Le donne, lavorando fuori, hanno meno voglia e tempo di cucinare e i mariti, se e quando le sostituiscono ai fornelli,  a meno che non siano dei  fanatici gourmets -  e ce ne sono -   cucinano quanto basta per sopravvivere;  i piatti pronti da banco spopolano (nonostante i prezzi) e i giovani affollano di sera i punti di ristoro nutrendosi di roba unta, pizze e crostini.  Nei ristoranti, varietà di cibo di tutti i paesi,  sapori e terminologia sono ormai familiari: anche i bambini sanno cos’è il sushi. Vale la pena saperlo anche preparare?
Nei miei ricordi da subito dopo la guerra fino agli anni Cinquanta,  la cucina, anzi la buona cucina, nelle famiglie romane medio-borghesi,  è un elemento fisso, curato ma  senza particolari fronzoli,  la cui varietà e quotidiano successo sono dati per scontato. Far da cucina avendo mano svelta, naso fino e occhio attento non dava diritto a medaglie: roba da donne, la sapevano fare, la facevano e basta. La geografia era fattore discriminante, la cucina essendo  allora essenzialmente locale.  Cose oggi banali a livello nazionale, per  esempio il pesto o la pasta alla carbonara, erano praticamente sconosciute al di fuori del  loro luogo d’origine.
A casa mia, dove i fornelli erano di competenza della mia nonna materna,  golosa nonché ricca di fantasia,  erano tenuti in alta considerazione “Il Talismano della felicità” e “La Cucina romana”, entrambi opera di Ada Boni. Mia nonna si vantava di aver conosciuto l’autrice proprio  nella sua bella  abitazione all’ultimo piano di Palazzo Odescalchi, e  la citava con grandissima stima. In realtà quei due libri di ricette venivano ammirati più che usati da mia nonna (mia madre, invece, ne fece poi costante e devoto uso).  Mia nonna faceva tutto ad occhio e a memoria, conosceva un vasto numero di ricette, soprattutto  emiliane, che di divertiva anche a trasformare. 

domenica 1 aprile 2012

61. L'orologio del passato

«Che ora è?» «Quanto tempo mi rimane per finire questo lavoro?» «A Che ora devo venire?» «Mi raccomando, sii puntale perché dopo ho un altro appuntamento». Il tempo è la nostra ossessione moderna e, per ricordarcelo, abbiamo nella casa un’infinità di marcatori del tempo. Orologi elettronici, svegliette, timer… non c’è angolo del nostro alloggio dove non ce ne siano, oltre ai vari orologi da polso che possediamo perché, ovunque ci troviamo, dobbiamo sempre sapere esattamente che ore sono per riuscire a chiudere la giornata.  Viceversa, negli anni ’50 a casa di mia nonna c’era una sola sveglia, unica testimone del tempo che passava lentamente e che, quindi, non aveva bisogno di essere cronometrato.  Negli anni ’40 addirittura in casa non c'era  nulla e per sapere quando buttare la pasta bastava guardare l’ombra degli scalini dell'abitazione: quando arrivava al terzo scalino, era l’ora buona!

Ma la famosa sveglia, eccola qua, faceva un rumore infernale quando suonava per un appuntamento mattutino molto importante. Mi ha raccontato la Meris che quando studiava all’università faceva le ore piccole sui libri e, al mattino, malgrado il rumore assordante dell’orologio, non riusciva a svegliarsi per seguire i corsi. Allora, per essere sicura di sentire la sveglia, la posava su un piattino con tante monetine dentro. Solo così, con il baccano infernale che faceva il tutto quando si metteva a trillare e, quindi a vibrare, riusciva ad emergere dal sonno profondo. La Meris è diventata poi medico, e successivamente, medico condotto proprio a San Giovanni e dintorni. 

domenica 12 febbraio 2012

60. IL DENTISTA DEI TEMPI MIEI

Sono le tre di notte e un dolore lancinante mi fa schizzare fuori dal letto. E’ una stramaledetta carie che mi fa male da diversi giorni e si diverte a scegliere i momenti meno opportuni per tenere sveglia tutta la famiglia. Ho 9 anni e mia nonna ha cercato in tutti i modi di farmi andare dal dentista, ma io ho una tremenda paura.  Mi ha promesso di prestarmi la sua bicicletta, niente. Di farmi accompagnare dalla mia amata zia, niente. Di permettermi di andare al cinema il sabato successivo, senza dover prima addormentare mio fratello, e sempre niente. Ma questa volta non ne può più e, presto di mattina, mi prende per mano e mi accompagna a piedi dal dentista di Casina, una evoluta cittadina collinare che dista una decina di chilometri dal troglodita paese di San Giovanni.
Ci accomodiamo nella sala d’attesa, aspettando il nostro turno ed entriamo, ma appena vedo un omone grande, grosso, minaccioso, con il suo bel camice bianco venirmi incontro, comincio già a strillare. Il dentista non si scompone. Mi mette sulla sedia di forza e, a mo’ di anestetico, mi molla un potente ceffone che mi tramortisce e mi lascia a bocca aperta. Effetto perfetto per lui, che comincia tranquillamente il suo lavoro. Ovvero, mi toglie, senza complimenti (è proprio il caso di dire), tutto il dente, per una banalissima carie. 

domenica 8 gennaio 2012

59. LA GALLINA DELLA SUOCERA

Nel passato nei paesini si sapeva tutto di tutti e persino le galline, a cui veniva dato un nome, erano riconosciute dai loro proprietari che ne seguivano attentamente le abitudini. C’era, per esempio, una gallinella che, per deporre le uova, invece di andare nel proprio pollaio, preferiva il fienile del vicino. Domanda: a chi appartenevano queste uova, quando la Teresina, bella bella, usciva cantando coccodé dal sopraimputato fienile?  I contendenti  non andavano dall’avvocato solo perché ero costoso, ma il dilemma rimaneva e le liti pure.

lunedì 26 dicembre 2011

58. NATALE E' -ANCHE-



NATALE E’  -ANCHE-
di Margherita Perpetua




Tra luci e festoni,
regali e profumi buoni,
voglio celebrare un Natale diverso…
Perciò, leggete e
non lasciate
il mio pensiero “disperso”.
Per me, infatti, c’è un Natale
che è così
fermatevi un poco qui…


domenica 6 novembre 2011

57. Giornalismo del dopoguerra: linotype e fagioli!

di Nino Amoroso
Negli anni del dopoguerra quando, a Campobasso, sono entrato nel mondo del giornalismo di provincia, il giornale si componeva con le singole lettere di piombo che il bravo tipografo prelevava a grande velocità da un contenitore, diviso in singole caselle per ordine alfabetico. Quindi si creava la colonna inumidita e legata con lo spago, che consentiva di impaginare  e di realizzare tutto il menabò sillaba per sillaba, a pagina intera pronta per il pianale di stampa. Spesso però diventava anche un lavoro di sisifo, perché la colonna si disfaceva e bisognava ricominciare da capo.  Anni dopo arrivò anche in Molise la macchina  linotype con composizione a piombo fuso riga per riga, un po’ più facile da utilizzare rispetto al primo secolare sistema. Per chi è nato con la tastiera del computer vicino alla poltrona, forse ha difficoltà a immaginare il grande vantaggio per l’epoca di un moderno strumento, ma lontano tecnologicamente dalla composizione attuale della scrittura. 


Infatti, ora, per avere l’articolo stampato, lo scrivo sul computer e lo mando in redazione, la quale, dopo controllo,  lo invia all’impaginatore che realizza tutto il giornale con un apposito programma installato sul suo pc e poi, una volta avuto l’ok dal direttore, invia direttamente il tutto alla tipografia e il giornale è realizzato, senza che nessuno si sia mosso dalla propria sedia.
Ai miei tempi, viceversa, il giornalista e il linotipista dovevano lavorare gomito a gomito vicino ad una diabolica macchina, la linotype, che possedeva l’arte di comporre i pensieri con il piombo, come direbbe un poeta. Ma che, in effetti, con un rumore assordante, fondeva il piombo, sprigionando nuvole di vapore e, grazie alle dita agili del linotipista e alla paziente opera di revisione del giornalista, riusciva a comporre il giornale , con una perfezione e nitidezza ineguagliati.
Per come me la ricordo io, la composizione avveniva nel  seguente modo: un “crogiuolo”  posto alto

giovedì 29 settembre 2011

56. Quando a novembre si faceva "San Martino"

Ho 8-9 anni, sono in un ampio cortile, è novembre, ma sembra tornata l’estate,  e sto guardando la mia amica Norina mentre, aiutata dal padre, viene issata su un carro trainato da due mucche che la porterà  verso una nuova vita. Non sono sola, nell’aia si sono radunati  i vicini per un ultimo saluto.
In quel carro è stipato tutto quello che la famigliola possiede: 5-6 sedie, un tavolo, un comò, un armadio, una madia, le stoviglie, gli attrezzi agricoli: pochi metri quadri di miseria. Con lei, il carro si porta via un pezzo del mio cuore perché Norina è  la mia amica più cara, quella con cui ho condiviso i salti nel fienile, le corse nei verdi prati, le camminate alla fonte per prendere l’acqua, il tragitto per andare a scuola: tutto quello che faccio, lo faccio con lei. E non capisco perché la famiglia, ora, debba lasciare il paese ed andare verso una destinazione lontana ed a me ignota.

lunedì 16 maggio 2011

55. Lavorazione a mano delle foglie di granturco o mais

Questi lavori sono stati realizzati a mano con le foglie di granone o mais durante l'inverno 2010/2011 dalla Signora Cristina Gualtieri di Baranello per il blog di Altri tempi.

IL GRANONE NELL'ALIMENTAZIONE
Tra le piante più interessanti del mondo contadino di una volta c'era il granone, o mais, o gran turco o formentone (tutti i nomi vanno bene).

Originaria del nuovo Messico, la pianta, portata in Spagna dopo la scoperta dell'America, ha stentato a diffondersi fino al '600. Furono, infatti, gli arabi, che avevano soggiornato in Andalusia nel periodo musulmano, a diffondere il mais nel Medio Oriente. La pianta venne successivamente reintrodotta in Europa dai commercianti italiani: da lì il nome di "gran turco".

Questa pianta ha ancora, al giorno d'oggi, un'importanza primordiale nell'alimentazione umana e animale.
Il mais può essere mangiato in vari modi. Il più semplice è di lessare o fare alla griglia le sue pannocchie. Inoltre, i grani, schiacciati e tostati, diventano corn flakes, oppure, solo tostati, scoppiano e si trasformano in pop corn. In Italia la farina, ricavata dalla macinazione dei chicchi, è utilizzata per preparare piatti gustosi come la polenta o la pizza di granone, alimentazione fondamentale per la sopravvivenza durante gli anni di carestia in Italia (come per esempio nei periodi di guerra). Dice mia madre, che, dopo aver mangiato polenta tutte le mattine, le contadinelle uscivano dall'inverno fresche come rose… ci dovremmo provare anche noi!
Altro prodotto importante dal mais è l'olio: tra i migliori dopo quello di oliva. E, infine, non tutti sanno che il mais è impiegato anche nella fabbricazione di liquori.
Questo è il lato "alimentare" della pianta. Ma dal granturco, in tempi non molto lontani, la donna riusciva ad utilizzare integralmente tutto l'arbusto.
Per esempio, le sue le foglie, una volta seccate, venivano utilizzate per imbottire i materassi (come già detto nel post 12 da Lucia), oppure, intrecciate, formavano cestini, vassoi e scarpette o ciabattine. Inoltre, la sua pannocchia vuota, ovvero il "mulgat", come si chiamava in dialetto emiliano, o "catullo" in quello molisano, veniva utilizzata per accendere il camino perché si infiammava facilmente. E altrettanto si faceva con il gambo che si adoperava quasi sempre quando si doveva far bollire l'acqua del paiolo per fare il bucato.

Insomma questa pianta era davvero preziosa per i contadini che erano quasi totalmente autosufficienti dal punto di vista alimentare, ma anche da quello manufatturiero.
Inoltre, il mais era ed è ancora molto importante nell'alimentazione animale.

Vassoio con pigna

L'UTILIZZO DELLE FOGLIE DI GRANONE O MAIS NEL MONDO CONTADINO

martedì 29 marzo 2011

54. Guerra in Umbria: 1943, i ricordi di un ragazzino di allora

La guerra è stata ed è per quelli che si avvicinano agli ottanta un ricordo incancellabile. Questo blog, incentrato sui tempi passati, non poteva non tenerne conto. Ecco la lucida e interessante testimonianza di Giorgio Bechelloni di Città di Castello…..





Città di Castello, in Umbria, ha un nome che fa pensare a uno scenario di fiaba. E per i quattro ragazzi Bechelloni (fra cui io, Giorgio, nato nel 1930) − famiglia della quale si hanno notizie in Umbria fin dal Cinquecento – nelle vicinanze c’era un luogo veramente fiabesco: Villa San Savino.

Giunta a mia madre Laetitia per via ereditaria, e in origine una casa di caccia, è una villa di oltre 50 stanze, costruita nell’Ottocento in stile pseudo-rinascimentale toscano tipico della zona, circondata da un'ampia tenuta. Un particolare però la distingue da altre dimore del genere: la sua torretta è stata riconosciuta dalla Società Geografica Italiana come il punto trigonometrico dell’Italia centrale: insomma, segna esattamente il centro dell’Italia centrale!

Il cancello monumentale in ferro battuto, la “pergola greca”, cosiddetta per via delle antiche colonne provenienti da una villa in Toscana sempre dello zio proprietario originario di Villa San Savino, la limonaia, il parco dove si erge anche un mandorlo millenario, il vasto panorama sulla Val Tiberina: per noi ragazzini di città era un regno sconfinato, magico, di bellezza e libertà.

Alcuni miei incancellabili ricordi sono legati a Villa San Savino e vorrei menzionarli qui in occasione dell' anniversario dell’unità d’Italia.
Era il 1943. L’Italia era divisa in due, al Nord c’era la Repubblica Sociale sotto il tallone dei nazisti. A Roma si moriva letteralmente di fame, c'era il coprifuoco, la benzina era razionata, non c’era riscaldamento, si viveva nella paura. Una sera mia madre ci annunciò avvilita che l’intera cena della nostra famiglia consisteva in un’unica cipolla. Il po’ di carne che rimaneva era per la balia che allattava la mia sorellina di pochi mesi. Io scoppiai a piangere perché sentivo i morsi della fame.
Per continuare a leggere clicca qui sotto:

mercoledì 16 marzo 2011

53. VIVA L'ITALIA

Noi italiani abbiamo la fortuna di essere nati in uno dei paesi più belli del mondo. Da Nord a Sud i paesaggi sono da mozzafiato. I nostri antenati ci hanno lasciato un patrimonio urbanistico eccezionale. Siamo una terra di grandi geni che hanno arricchito il mondo con le loro idee: scienziati, poeti, scrittori, cineasti, santi, navigatori, musicisti, tenori, pittori, architetti. Il Dizionario biografico degli italiani, che raccoglie tutte le biografie dei più grandi e famosi, è arrivato al 70esimo libro e ne sono previsti 110!


Non può essere che si butti a mare tutto per mero interesse economico. Dobbiamo ricordarci che la ruota gira e, non è detto, che fra 20, 30 o 40 anni sia il Sud à essere più ricco.
Stringiamoci "a coorte", e siamo orgogliosi di questo paese!
Ringrazio i padri fondatori che hanno saputo realizzare il loro grande sogno unificando l'Italia che − anche nella mente di altri popoli − era già tale molto prima del 1861.
Auguri a tutti gli italiani.

VIVA L'ITALIA! UNITA E INDIVISIBILE.
Barbara Bertolini