domenica 31 gennaio 2010

31. Come si faceva il burro a mano?


Cara Silvia, grazie per la domanda. Ho chiesto alla Signora Armentina, la consulente ormai ufficiale di questo blog. Ed ecco le sue spiegazioni:



Per realizzare il burro a mano si metteva la panna in una bottiglia. Ci si sedeva e, appoggiando la bottiglia sulle ginocchia, la si faceva andare avanti e indietro energicamente, fino a quando questo composto si condensava diventando burro. Questa operazione poteva durare anche mezz’ora.
Dopo di ché, si svuotava la bottiglia in una teglia e, con le mani, si dava al burro la forma che si voleva. Chi aveva fantasia poteva, con un coltello o in piccolo bastoncino, comporre dei disegni. Inoltre, nelle case contadine ma soprattutto nei paesini delle Alpi, esistevano anche stampi di legno, realizzati con varie decorazioni (come quelli della foto) – intagliati a mano durante i mesi invernali – per dare una conformazione graziosa al burro.
Questa tecnica è valida anche al giorno d’oggi per chiunque voglia realizzare in proprio il burro.
Mentre, per ritornare al “casaro” (del post 30), lui, aveva un attrezzo che funzionava all’inizio del ‘900 a manovella e, successivamente a motore. Con l’aggiunta del ghiaccio, riusciva a ricavare tanto burro quanto voleva.

venerdì 22 gennaio 2010

30. La conservazione degli alimenti senza frigorifero

Vi ricordate i film americani anni ‘60? Primo piano sul soggetto che entra in casa, apre la porta, e subito dopo il «ciao cara», senza svestirsi, si fionda sul frigorifero e beve la sua bottiglietta di coca-cola o di birra come se, per ritornare dal lavoro avesse attraversato un immenso deserto.

E’ questa immagine che mi viene in mente per parlare di “nevaia” o “ghiacciaia”, ossia come nel passato si riusciva a produrre ghiaccio e a conservare gli alimenti quando non si possedeva il frigorifero.

Infatti, l’elettrodomestico tutt’oggi più utilizzato nelle case degli italiani, è stato inventato nel 1919 a Chicago, con il nome di “kelvinator”, trasformato poi in “frigorifero”. Esso, però, fu prodotto a livello industriale, sempre negli Stati Uniti, solo a partire dal 1931.
In Italia è arrivato verso la metà degli anni ’40 e, solo nelle case ricche, poiché troppo costoso. Ha cominciato a svilupparsi dappertutto dopo gli anni ’60.

E fino ad allora, come si faceva a conservare gli alimenti deperibili? Ma soprattutto, come si faceva a produrre ghiaccio in piena estate?

Nella vita contadina il ghiaccio era indispensabile per fare il burro, uno degli alimenti di primaria necessità poiché nelle regioni del Nord era (ed è) utilizzato al posto dell’olio.
Ogni paese aveva la sua “nevaia” o “ghiacciaia” , un buco profondo, in un luogo freddo, dove si raccoglieva la neve durante l’inverno e si copriva il tutto con fascine. Questa neve finiva per trasformarsi in ghiaccio che durava fino all’inverno successivo. La persona che custodiva la nevaia, tagliava, con una sega, man mano il ghiaccio necessario e, alla fine dell'estate, il buco era diventato così profondo che gli occorreva una scala a pioli per arrivare in fondo alla nevaia.

Senza il ghiaccio così conservato, come detto, il “casaro” non era in grado di produrre il burro dal suo latte. E’ possibili farlo a mano senza ghiaccio, ma solo in piccole quantità e con molto “olio di gomito”, ecco perché, per la difficoltà di realizzazione di questo alimento, il casaro era addetto alla produzione di burro per tutti.
Il ghiaccio della nevaia, veniva comperato anche dalle famiglie per realizzare sorbetti o granite. Il pezzo di ghiaccio veniva grattato poi, sul composto ottenuto, si versava la menta o lo sciroppo, quasi sempre d’amarena al Nord e limone al Sud: una delizia per grandi e piccini. Racconta Nicoletta Barbarito (post 40) che le famiglie benestanti possedevano piccole ghiacciaie composte di legno e di zinco dove ci si calava dentro un grosso cilindro di ghiaccio. Questo ghiaccio veniva recapitato giornarlmente da un apposito venditore.
Altri alimenti deperibili venivano consumati in giornata o, al massimo nei due giorni successivi.
La carne di maiale, per esempio, che poteva essere macellata solo in inverno, veniva, invece, messa sotto la sugna per durare più a lungo, così come tutto quello che riguardava l'insieme della produzione suina.
Altri alimenti deperibili potevano essere messi in salamoia, sotto sale, sott’olio, sottaceto, sotto il grasso della sugna, come detto, oppure essiccati o affumicati. Con l'essicazione, per esempio, si eliminava l’umidità naturale attraverso il calore o l’aria rendendo così un alimento durevole oltre che trasportabile (si pensi al merluzzo). E l’essicazione  non altera il  valore nutrizionale dei cibi e, anzi, ne esalta il gusto.

Questi erano sistemi di conservazione degli alimenti che duravano da millenni e che continuano a durare e che hanno permesso all’uomo la sua crescita (mangiate e moltiplicatevi!).

Barbara Bertolini  -   tutti i diritti riservati

martedì 5 gennaio 2010

29. Cosa portava la Befana ai bambini buoni?

Fino agli anni ’60 nelle famiglie italiane in maggioranza era la befana a portare, nella notte dell’Epifania i doni ai bambini. Babbo Natale apparteneva, allora, alle culture del Nord Europa.
La tradizione italiana, infatti, voleva che i bimbi mettessero sotto il camino una grande calza per permettere alla Befana di riempirla di doni.

Il ceto sociale faceva la differenza tra i doni ricevuti nelle case dei contadini, o di chi aveva un reddito saltuario, rispetto ai “signori”, come si diceva allora.
Rita e Angela ci hanno raccontato i loro ricchi doni ricevuti sotto il camino: bambole, trenini, e vari giochi erano decisamente il sogno degli altri bambini meno fortunati, che rimaneva, tuttavia, davvero un sogno irraggiungibile, quindi rimosso: il bambino povero non osava nemmeno desiderarli. Nella loro calza, invece, quando si svegliavano al mattino e correvano nella stanza dove troneggiava il camino (o la stufa per chi non aveva il camino) e la trovavano gonfia e traboccante di roba, era davvero una grande festa per questi ragazzini che esplodevano di felicità.

Cosa c’era nella calza? Ho chiesto a molti di ricordare. Ed ecco il risultato:

Dal Nord o al Sud il contenuto cambiava poco. Venivano messi mandarini, portugal (che poi erano arance così chiamate sia in Emilia che a Napoli), noci, caramelle, qualche dieci lire, uno o due pacchettini di “mignin” (biscottini industriali fatti a strati che si vendono ancora al giorno d'oggi con il nome di wafer), arachidi, fichi secchi, qualche cioccolatino. Per i più poveri la calza veniva riempita con delle mele. Giochi, molto raramente, a meno di avere uno zio che ritornava dall’America. Qualche volta potevano esserci delle matite colorate, le famose “Giotto”.
Ma quello che non mancava mai sul fondo della calza, per tutti i bambini, poveri e ricchi, che durante l’anno qualche marachella l’avevano di certo commessa, era un bel pezzo di carbone, quello vero ben inteso!
Questa era la nostra Befana, che ci dava comunque una contentezza infinita. Tutta la notte avevamo cercato di stare svegli per sorprendere la vecchietta, invano. Anch’io, come Rita, mi sono fatta mettere il letto vicino al camino, ma la befana è stata più furba di me.

A casa di mia nonna, invece, c’era una tradizione molto bella per noi bambini. Essa realizzava un tortellone dolce, lungo come il tavolo della sala, farcito di noci, cacao, miele e altri ingredienti che non ricordo. Questo tortello particolare veniva cotto dal fornaio del paese, l’unico che aveva un forno adatto per cuocere una alimento così lungo.
Una volta messo in tavola ci dovevamo mettere in fila (dal più piccolo al più grande), ci venivano bendati gli occhi e ci veniva dato un coltello con cui dovevamo tagliare il tortello: mangiavamo il pezzo che eravamo riusciti a tagliare!
Che allegria, che divertimento!
Comunque, ora, meno male che l’Epifania tutte le feste le porta via!

Barbara