martedì 27 aprile 2010

39. Penna, inchiostro e calamaio

Daniela anni fa mi chiese: «Ma cos’è sto calamaio di cui sento parlare in una trasmissione televisiva?»
Perbacco, mi sono detta, come si fa a non conoscere questo strumento che è stato, fino al 1959, il pane quotidiano per milioni di ragazzini che hanno frequentato le scuole elementari di mezzo mondo? Ma Daniela è nata dopo gli anni ’70 e questa boccettina piena d’inchiostro, in cui si intingeva la penna per poter scrivere, non l’ha mai usata, così come non l’hanno usata tutti quelli che sono entrati in prima elementare dopo il 1960.

A decretare la morte del calamaio (insieme alla penna con pennino e all’inchiostro) è stata la BIC.
Insomma la fantastica penna a biro che non doveva più essere immersa nell’inchiostro per scrivere, che non faceva più macchie una volta posata sulla carta, che non sporcava più i quaderni, le mani, il grembiulino e i compagni di banco di qualche bambino birichino che si divertiva a spruzzarli con l’inchiostro, è nata nel 1953.

Fu il barone francese Bich a liberare migliaia di ragazzini dalla schiavitù dell’inchiostro. Il nobile francese non inventò la biro, perché questa era già stata inventata nel 1938 da due fratelli ungheresi, Lazlo e Georg Biro che si erano rifugiati in Argentina durante il fascismo, ma mise a punto un processo di fabbricazione industriale che permise di abbassare enormemente il costo della penna a sfera e, quindi, di venderla ad un prezzo che sfidava qualsiasi concorrenza. La BIC cominciò ad essere commercializzarla in tutta Europa dopo la metà degli anni ’50. Pensate che ancora al giorno d’oggi se ne vendono più di 15 milioni di esemplari al giorno.
I bambini di prima si ricordano ancora del banco di scuola a due posti dove, sul lato destro di ogni scolaro o in mezzo, vi era un buco per far entrare il calamaio: una boccetta di vetro che si riempiva di inchiostro.
Una tortura utilizzare la penna e il pennino che si spuntava quasi sempre, macchiando e bucando il foglio appena scritto. Lo scolaro quando ritornava a casa aveva continuamente il pollice destro sporco di blù, così come era blù un angolo della bocca dove egli appoggiava la parte finale della penna mentre era assorto nelle sue profonde riflessioni.

Il gesto per scrivere era quello di intingere la penna col pennino nel calamaio, poi si davano due colpetti per togliere l’inchiostro in eccesso (che spesso andava a finire sulla schiena dello scolaro davanti) e, via sul foglio a scrivere quello che dettava la maestra.
L’altro strumento importante da utilizzare con la penna e l’inchiostro era la carta assorbente: senza quella la macchia si allargava e invadeva metà foglio. Per cui ognuno di noi ne aveva una buona scorta. Nei casi disperati si utilizzava anche il talco, un assorbente antico ed efficiente. Altra scorta indispensabile era quella dei pennini che, per chi aveva la mano pesante come la mia, li spuntava continuamente.
Noi scolari di “penna, inchiostro e calamaio” siamo passati alla biro senza nemmeno accorgercene, anche se la differenza tra prima e dopo è stata enorme. Merci Monsieur Bic!
Barbara Bertolini   -   tutti i diritti riservati

lunedì 5 aprile 2010

38. Nell'Appenino reggiano una bella tradizione pasquale

L’uovo, simbolo di rinascita, è il perno su cui ruota una delle più antiche tradizioni pasquali sulle montagne emiliane.



E scussin” (dal verbo scusser, cioè sbattere contro) si praticava in quasi tutti i paesini a Pasquetta.
Un incaricato del posto comperava 5-6 ventine di uova e le cuoceva colorandole: per il verde utilizzava sia l’ortica sia l’erba tout court; per il rosso impiegava, invece, la tintura vera e propria. Dove c’era concorrenza, la decorazione poteva essere più raffinata.
Queste uova sode venivano vendute sulla piazza del paese. Il gioco, e il divertimento, consisteva nello sbattere il proprio uovo contro quello di un avversario. Vinceva l’uovo chi era riuscito a rompere per primo quello del rivale, dunque la persona che aveva pescato l’uovo più duro, ma che sapeva anche utilizzare una tecnica particolare per sbaragliare i concorrenti.
A questo giochetto partecipavano tutti: uomini, donne e bambini. Il vincitore assoluto era quello che, partito con un uovo, riusciva a racimolarne il più possibile, perché l'uovo "cocciato" diventava suo.
Racconta la Signora Armentina che il suo record fu di sette uova prima di essere sconfitta da un altro più duro del suo!
Una tradizione quindi conviviale, simpatica, semplice ed economica che continua al giorno d’oggi nei paesini di montagna come Castelnuovo Monti, Carpineti o Marola.
Barbara Bertolini