domenica 27 dicembre 2009

28. Natale postbellico

I Natali d’antan

di Rita e Angela Frattolillo   (bambine nella foto)

La nostra euforia per il Natale cominciava piuttosto presto, a novembre: noi sorelline eravamo investite del compito di preparare l’impalcatura del presepe, e vi posso assicurare che era un lavoro piuttosto complicato, anche perché io e mia sorella, che eravamo le più grandine, avevamo il compito di vigilare a che le due piccole non facessero troppi danni mettendo le mani dappertutto. La metà di una stanza, quella del balcone che aveva il soffitto decorato con angioletti paffuti e svolazzanti, veniva occupata da cataste di sughero che noi disponevamo su una struttura di legno fissa in modo da formare montagne e grotte. Poi era la volta della casette di cartone pressato e dipinto alla buona, dei pastori comprati, in più riprese, a S. Biagio dei librai, da nostro padre che allora insegnava a Napoli. Qualcuno, nel tempo, e malgrado il trasloco da una casa all’altra, è sopravvissuto, anche se ne porta i segni: a Gesù bambino s’è rotta la testa (che è stata amorevolmente incollata); il pescivendolo è rimasto senza bancone; la pastorella ha qualche pecora in meno; fortunatamente il pastore dormiente, che è una figura con una simbologia precisa, è rimasto intatto. Infatti, nella tradizione napoletana, la sua presenza è indispensabile perché è lui, dormendo, che sogna il presepe, la Natività: se si sveglia, il sogno svanisce!



Sistemate figurine, animali e casette, finalmente era il turno del muschio.

Ne occorreva molto, per tappezzare le giunture, formare il prato, adornare la grotta di Gesù, coprire i bordi del laghetto ottenuto con una scheggia di specchio. Muschio che non si vendeva nei supermercati, a differenza di oggi, ma si trovava “in natura”, fresco e bellissimo, come un velluto cangiante; bastava andare a cercarlo nei posti giusti. Il segnale era quando papà staccava dall’armadio la sua giacca di cacciatore.

Noi allora si partiva felici e imbacuccate, armate di borsa, trotterellando dietro a lui e al suo cane da caccia. Dopo un accurato sopralluogo, estraeva dalla giacca il coltello di cacciatore dalla punta acuminata, e staccava con cautela il muschio dalle cortecce degli alberi, dai muretti che delimitavano gli appezzamenti, dal recinto della macina. Noi lo deponevamo nella sacca con delicatezza, per non farlo rompere e ci divertivamo a seguire la nuvola che formavamo col fiato, nella nebbia mattutina.



Il nostro Natale di allora era estremamente povero: senza alberi o palline colorate, niente luci o regali sfavillanti. Il suo momento clou, dopo il rosario, era la processione giaculante dietro al bambino più piccolo della famiglia che aveva il privilegio di portare Gesù bambino per tutta la casa: il terrazzo, il cortile, la fuga delle stanze.

Ma la Befana, no; era una vera festa.

Ai nostri occhi vigili non sfuggiva, nella settimana che la precedeva, un insolito traffico. Papà ritornava da Napoli con grossi pacchi che, misteriosamente, non arrivavano mai su.

Noi gli davamo il tormento nella speranza di capire: “papà, che ci porta la befana?”. E lui: tu che vuoi che ti porti? Di giorno in giorno le mie, le nostre pretese aumentavano : la bambola, la carrozzina, le pentole, le tazze. Lui incalzava, ma cosa vuoi di più? E così per ore; a volte si inteneriva al nostro spasmodico desiderio di sapere e implorava mamma con gli occhi per avere da lei l’approvazione nel rispondere. Ma lei inflessibile, interveniva cercando di distogliere la nostra attenzione. Allora papà ci diceva di gridare i nostri desideri alla Befana attraverso il camino, e noi lì a ripetere, sotto il suo sguardo divertito, fino a rimanere senza fiato…la bambola, la palla, la carrozzina, le tazze, il lettino…

La sera fatidica, messa in bella mostra la calza più capace, ci proponevamo, io e Angela, di stare sveglie, per poter sorprendere la… Befana. Il nostro chiacchiericcio andava avanti per ore, ma poi, nonostante i propositi e i mezzi escogitati, sprofondavamo sempre in un sonno traditore. Angela era sempre la prima a svegliarsi, alle due o tre, e, intraviste le calze gonfie di doni, lanciava l’urlo vittorioso, mi svegliava, e tutte correvamo nella camera da letto dei genitori per mostrare ciò che la Befana ci aveva portato; poi a giocare, fino a che le prime luci dell’alba ci sorprendevano riaddormentate e abbracciate alle bambole, alle palle, alle tazzine, con la mano sulla carrozzina…

E i sogni erano sempre bellissimi: spingevo sul marciapiede la mia carrozzina di vimini con la bambola bionda ed elegante e tutte le bambine si affacciavano a guardare con un bel po’ di invidia per me, così fortunata.

La sera dell’Epifania, con malinconia si smontava il presepe e si riponeva il tutto, fino al prossimo Natale.

martedì 22 dicembre 2009

27. Natale in rima

Buon Natale anche a chi non crede




Buon Natale in questo giorno particolare
a tutti voglio augurare
Buon Natale anche a chi non crede
perché il Natale non è questione di fede
Il Natale è una festa tradizionale
sentita da tutti in modo speciale
Una tradizione vecchia come il mondo
quando l’uomo non sapeva che il nostro pianeta è rotondo
e aveva paura che il sole andasse per sempre a dormire
e che le tenebre, a dicembre, non smettessero d’imbrunire
E allora ha pensato di far tornare il sole
festeggiando con grandi fuochi accesi nelle tarde ore


La nascita del bambinello, se non lo sapevi,
è la speranza di oggi e di ieri…
di tutta l’umanità
che non vuol conoscere l’aldilà!


                                   Armentina

giovedì 17 dicembre 2009

26. Ecco come veniva sostituito lo zucchero nelle case contadine

Di Barbara Bertolini  

Giorni natalizi, giorni di feste e… di dolci. Nella tradizione culinaria italiana, di piatti dai sapori zuccherini, senza conservanti né coloranti, ce ne sono tanti, ma quello che vi voglio raccontare ora è la storia di un alimento che in tante case povere ha sostituito per anni lo zucchero, considerato allora troppo caro.

La mia mente corre agli anni ’50. Non c’è nessuno in casa. Entro con timore nella camera da letto dei miei nonni. In fondo alla stanza c’è una tenda che nasconde una nicchia. Scosto la tenda e inzuppo le dita in un grosso pentolone che vi è deposto, dove giace un invitante e gustoso intingolo denso e marrone. So che non posso mangiarne troppo perché il “savurett” servirà per preparare i dolci di tutto l’anno e, se mi becca la nonna, sono guai, ma sono troppo golosa e non resisto: sclaft, sclaft, hummm che bontà!
Questo è l’unico dolce della casa ad eccezione, ben inteso, della marmellata. Ma è soprattutto il solo che posso mangiare senza che nessuno se ne accorga.
Ho scoperto poi che intere generazioni di bambini, nati in campagna prima del 1950, si leccavano avidamente le dita come me dopo averle intinte nel savurett!

A cosa serve e come è fatto il “savurett”?

Come al solito è la signora Armentina a dare le spiegazioni:

Nei tempi passati, durante e dopo la guerra, il problema economico era tale che perfino lo zucchero era troppo costoso per le tasche dei contadini. Si cercavano quindi soluzioni alternative per sostituirlo. Una di queste era appunto il “savurett”. Non ne conosco il nome italiano, chiedo lumi all’amica Rita, esperta linguista, forse lei sa trovare questa parola emiliana che deriva da “sapore”.

Dunque, durante l’autunno si raccoglievano in grande quantità le pere (verdi con sfumature di marrone – l’Armentina le chiama “pere valle”) che cadevano in abbondanza.
Si lavavano, poi, così com’erano (con il torsolo e la buccia), le si passavano dentro una specie di tritatutto. Il composto così ottenuto lo si lasciava scolare. Quando il sugo si era completamente deposto lo si doveva far bollire in un paiolo per 24 ore (alla fine ne restava solo un quarto) e il savurett era pronto.
Infatti il sugo rimasto era dolciastro e poteva quindi essere utilizzato per zuccherare le torte o altri cibi. Poiché era un alimento che non costava nulla (allora la legna si trovava nei boschi e di frutta ce n’era a volontà), i più poveri, in mancanza di qualsiasi altro alimento, lo utilizzavano per insaporire la polenta. Questo composto si manteneva inalterato per qualche anno.

Al giorno d’oggi lo si chiamerebbe “fruttosio”. O sbaglio?

(la foto di queto post è stata presa da http://www.giallozafferano.it/)

venerdì 11 dicembre 2009

25. Bambinaia a Milano negli anni '50

Che anni duri per le contadinelle adolescenti costrette a lavorare per racimolare qualche lira!



di Ines Bonini


Doveva essere la prima metà degli anni ’50, non avevo più di 12 anni e fino a quel momento mi ero allontanata dal mio paese al massimo una ventina di chilometri per andare a trovare i vari parenti. Era un giorno d’autunno e mi stavo preparando per partire a Milano. Una paesana aveva la figlia che lavorava in quella città e mi aveva trovato un posto da bambinaia. Baby-sitter si direbbe oggi, ma allora ero considerata serva, tò, proprio perché giovane, servetta, ovvero una domestica che avrebbe vissuto in una famiglia e che avrebbe dovuto occuparsi di un bambino di 7 mesi e della pulizia della casa per una coppia di giovani sposi benestanti ma non ricchi, che abitavano San Donato Milanese.

Partii di buon’ora con la corriera che mi portava a Reggio Emilia e lì, da Porta Castello, dove si fermava il mezzo, sarei dovuta andare a piedi alla stazione, prendere il treno e, una volta giunta a Milano mettermi una fascia bianca al braccio e sperare di trovare la Signora che mi veniva a prendere. Per me già Reggio Emilia fu una scoperta incredibile: tutte quelle case, quel via vai di gente. Ma quando giunsi a Milano, ormai verso sera, rimasi a bocca aperta. Non avevo mai visto tanta gente prima, chi andava su, chi andava giù, chi a destra, chi a sinistra, in un moto perpetuo. Mi prese un’angoscia terribile di non trovare la Signora in mezzo ad una folla così. E le luci! Mamma mia che illuminazione potente, sembrava di stare in estate a mezzogiorno. Nemmeno il sole riusciva ad illuminare così bene le strade come i lampioni della stazione di Milano. Nel mio paese non esisteva l’elettricità per cui passare dalla lucerna alla luce fosforescente delle lampadine al neon mi sembrava straordinario.

Alla fine del binario una giovane signora si fece avanti e io mi sentii infine salva. Ma quando fui fuori dalla stazione e vidi tutte quelle auto percorrere velocemente le strade mi ritornò la paura perché mi chiedevo come avremmo fatto ad attraversare!

San Donato Milanese cominciava solo allora ad urbanizzarsi per cui, quando la domenica andavo a trovare la mia amica che abitava molto distante e tornavo di sera, avevo sempre una gran paura ad attraversare il quartiere ove giravano brutti ceffi.

In quella casa di San Donato Milanese trovai anche una vecchietta che mi prese in simpatia. La sera, quando avevo fatto addormentare il bambino e sistemato la cucina, mi chiamava in camera sua ad ascoltare le commedie alla radio…. anche quella una grande novità per me!

Con il primo stipendio, 12 mila lire, mi comperai il cappotto, che non avevo. La Signora mi portò alla Rinascente (mai immaginato un negozio con tutto quel ben di dio e le scale mobili!). Purtroppo, per quella somma mi dovetti accontentare di uno bruttissimo che non mi piaceva indossare. A San Donato Milanese stetti per otto mesi. Tornai a casa con una grande voglia di rivedere la mamma. Speravo mi aspettasse alla corriera. Quando scesi, c’era una signora girata di spalle che le assomigliava. Le corsi incontro a braccia aperte. Che delusione quando si girò. Mia madre, invece, come al solito stava nella stalla ad accudire le mucche.

Feci un’altra esperienza da “serva” l’anno dopo. Fu più divertente perché ci presero in due nella stessa casa. L’episodio che più mi è rimasto impresso di questa seconda esperienza è il fatto che una sera, quando i padroni erano già andati a dormire e stavo per mettere della carta nella stufa, da questi giornali stropicciati caddero delle lire. Dispiegai il tutto e scoprii che dentro c’erano parecchi soldi. Era l’incasso della giornata che i due, commercianti, avevano sbadatamente abbandonato vicino alla stufa avvolti appunto in un giornale spiegazzato, probabilmente per nasconderli ad eventuali rapinatori. Fui così in collera con loro che li andai a svegliare e glie li feci vedere dicendogli: «Se io non me ne fossi accorta in tempo, voi domani mi avreste accusato di furto!»

***

 

Per la cronaca, dopo queste esperienze milanesi, sono riuscita ad entrare nell’Ospedale di Reggio Emilia dove ho frequentato i corsi per infermiera, diventando poi infermiera neonatologa (a qualcosa è servito lavorare come bambinaia!).