domenica 27 dicembre 2009

28. Natale postbellico

I Natali d’antan

di Rita e Angela Frattolillo   (bambine nella foto)

La nostra euforia per il Natale cominciava piuttosto presto, a novembre: noi sorelline eravamo investite del compito di preparare l’impalcatura del presepe, e vi posso assicurare che era un lavoro piuttosto complicato, anche perché io e mia sorella, che eravamo le più grandine, avevamo il compito di vigilare a che le due piccole non facessero troppi danni mettendo le mani dappertutto. La metà di una stanza, quella del balcone che aveva il soffitto decorato con angioletti paffuti e svolazzanti, veniva occupata da cataste di sughero che noi disponevamo su una struttura di legno fissa in modo da formare montagne e grotte. Poi era la volta della casette di cartone pressato e dipinto alla buona, dei pastori comprati, in più riprese, a S. Biagio dei librai, da nostro padre che allora insegnava a Napoli. Qualcuno, nel tempo, e malgrado il trasloco da una casa all’altra, è sopravvissuto, anche se ne porta i segni: a Gesù bambino s’è rotta la testa (che è stata amorevolmente incollata); il pescivendolo è rimasto senza bancone; la pastorella ha qualche pecora in meno; fortunatamente il pastore dormiente, che è una figura con una simbologia precisa, è rimasto intatto. Infatti, nella tradizione napoletana, la sua presenza è indispensabile perché è lui, dormendo, che sogna il presepe, la Natività: se si sveglia, il sogno svanisce!



Sistemate figurine, animali e casette, finalmente era il turno del muschio.

Ne occorreva molto, per tappezzare le giunture, formare il prato, adornare la grotta di Gesù, coprire i bordi del laghetto ottenuto con una scheggia di specchio. Muschio che non si vendeva nei supermercati, a differenza di oggi, ma si trovava “in natura”, fresco e bellissimo, come un velluto cangiante; bastava andare a cercarlo nei posti giusti. Il segnale era quando papà staccava dall’armadio la sua giacca di cacciatore.

Noi allora si partiva felici e imbacuccate, armate di borsa, trotterellando dietro a lui e al suo cane da caccia. Dopo un accurato sopralluogo, estraeva dalla giacca il coltello di cacciatore dalla punta acuminata, e staccava con cautela il muschio dalle cortecce degli alberi, dai muretti che delimitavano gli appezzamenti, dal recinto della macina. Noi lo deponevamo nella sacca con delicatezza, per non farlo rompere e ci divertivamo a seguire la nuvola che formavamo col fiato, nella nebbia mattutina.



Il nostro Natale di allora era estremamente povero: senza alberi o palline colorate, niente luci o regali sfavillanti. Il suo momento clou, dopo il rosario, era la processione giaculante dietro al bambino più piccolo della famiglia che aveva il privilegio di portare Gesù bambino per tutta la casa: il terrazzo, il cortile, la fuga delle stanze.

Ma la Befana, no; era una vera festa.

Ai nostri occhi vigili non sfuggiva, nella settimana che la precedeva, un insolito traffico. Papà ritornava da Napoli con grossi pacchi che, misteriosamente, non arrivavano mai su.

Noi gli davamo il tormento nella speranza di capire: “papà, che ci porta la befana?”. E lui: tu che vuoi che ti porti? Di giorno in giorno le mie, le nostre pretese aumentavano : la bambola, la carrozzina, le pentole, le tazze. Lui incalzava, ma cosa vuoi di più? E così per ore; a volte si inteneriva al nostro spasmodico desiderio di sapere e implorava mamma con gli occhi per avere da lei l’approvazione nel rispondere. Ma lei inflessibile, interveniva cercando di distogliere la nostra attenzione. Allora papà ci diceva di gridare i nostri desideri alla Befana attraverso il camino, e noi lì a ripetere, sotto il suo sguardo divertito, fino a rimanere senza fiato…la bambola, la palla, la carrozzina, le tazze, il lettino…

La sera fatidica, messa in bella mostra la calza più capace, ci proponevamo, io e Angela, di stare sveglie, per poter sorprendere la… Befana. Il nostro chiacchiericcio andava avanti per ore, ma poi, nonostante i propositi e i mezzi escogitati, sprofondavamo sempre in un sonno traditore. Angela era sempre la prima a svegliarsi, alle due o tre, e, intraviste le calze gonfie di doni, lanciava l’urlo vittorioso, mi svegliava, e tutte correvamo nella camera da letto dei genitori per mostrare ciò che la Befana ci aveva portato; poi a giocare, fino a che le prime luci dell’alba ci sorprendevano riaddormentate e abbracciate alle bambole, alle palle, alle tazzine, con la mano sulla carrozzina…

E i sogni erano sempre bellissimi: spingevo sul marciapiede la mia carrozzina di vimini con la bambola bionda ed elegante e tutte le bambine si affacciavano a guardare con un bel po’ di invidia per me, così fortunata.

La sera dell’Epifania, con malinconia si smontava il presepe e si riponeva il tutto, fino al prossimo Natale.

martedì 22 dicembre 2009

27. Natale in rima

Buon Natale anche a chi non crede




Buon Natale in questo giorno particolare
a tutti voglio augurare
Buon Natale anche a chi non crede
perché il Natale non è questione di fede
Il Natale è una festa tradizionale
sentita da tutti in modo speciale
Una tradizione vecchia come il mondo
quando l’uomo non sapeva che il nostro pianeta è rotondo
e aveva paura che il sole andasse per sempre a dormire
e che le tenebre, a dicembre, non smettessero d’imbrunire
E allora ha pensato di far tornare il sole
festeggiando con grandi fuochi accesi nelle tarde ore


La nascita del bambinello, se non lo sapevi,
è la speranza di oggi e di ieri…
di tutta l’umanità
che non vuol conoscere l’aldilà!


                                   Armentina

giovedì 17 dicembre 2009

26. Ecco come veniva sostituito lo zucchero nelle case contadine

Di Barbara Bertolini  

Giorni natalizi, giorni di feste e… di dolci. Nella tradizione culinaria italiana, di piatti dai sapori zuccherini, senza conservanti né coloranti, ce ne sono tanti, ma quello che vi voglio raccontare ora è la storia di un alimento che in tante case povere ha sostituito per anni lo zucchero, considerato allora troppo caro.

La mia mente corre agli anni ’50. Non c’è nessuno in casa. Entro con timore nella camera da letto dei miei nonni. In fondo alla stanza c’è una tenda che nasconde una nicchia. Scosto la tenda e inzuppo le dita in un grosso pentolone che vi è deposto, dove giace un invitante e gustoso intingolo denso e marrone. So che non posso mangiarne troppo perché il “savurett” servirà per preparare i dolci di tutto l’anno e, se mi becca la nonna, sono guai, ma sono troppo golosa e non resisto: sclaft, sclaft, hummm che bontà!
Questo è l’unico dolce della casa ad eccezione, ben inteso, della marmellata. Ma è soprattutto il solo che posso mangiare senza che nessuno se ne accorga.
Ho scoperto poi che intere generazioni di bambini, nati in campagna prima del 1950, si leccavano avidamente le dita come me dopo averle intinte nel savurett!

A cosa serve e come è fatto il “savurett”?

Come al solito è la signora Armentina a dare le spiegazioni:

Nei tempi passati, durante e dopo la guerra, il problema economico era tale che perfino lo zucchero era troppo costoso per le tasche dei contadini. Si cercavano quindi soluzioni alternative per sostituirlo. Una di queste era appunto il “savurett”. Non ne conosco il nome italiano, chiedo lumi all’amica Rita, esperta linguista, forse lei sa trovare questa parola emiliana che deriva da “sapore”.

Dunque, durante l’autunno si raccoglievano in grande quantità le pere (verdi con sfumature di marrone – l’Armentina le chiama “pere valle”) che cadevano in abbondanza.
Si lavavano, poi, così com’erano (con il torsolo e la buccia), le si passavano dentro una specie di tritatutto. Il composto così ottenuto lo si lasciava scolare. Quando il sugo si era completamente deposto lo si doveva far bollire in un paiolo per 24 ore (alla fine ne restava solo un quarto) e il savurett era pronto.
Infatti il sugo rimasto era dolciastro e poteva quindi essere utilizzato per zuccherare le torte o altri cibi. Poiché era un alimento che non costava nulla (allora la legna si trovava nei boschi e di frutta ce n’era a volontà), i più poveri, in mancanza di qualsiasi altro alimento, lo utilizzavano per insaporire la polenta. Questo composto si manteneva inalterato per qualche anno.

Al giorno d’oggi lo si chiamerebbe “fruttosio”. O sbaglio?

(la foto di queto post è stata presa da http://www.giallozafferano.it/)

venerdì 11 dicembre 2009

25. Bambinaia a Milano negli anni '50

Che anni duri per le contadinelle adolescenti costrette a lavorare per racimolare qualche lira!



di Ines Bonini


Doveva essere la prima metà degli anni ’50, non avevo più di 12 anni e fino a quel momento mi ero allontanata dal mio paese al massimo una ventina di chilometri per andare a trovare i vari parenti. Era un giorno d’autunno e mi stavo preparando per partire a Milano. Una paesana aveva la figlia che lavorava in quella città e mi aveva trovato un posto da bambinaia. Baby-sitter si direbbe oggi, ma allora ero considerata serva, tò, proprio perché giovane, servetta, ovvero una domestica che avrebbe vissuto in una famiglia e che avrebbe dovuto occuparsi di un bambino di 7 mesi e della pulizia della casa per una coppia di giovani sposi benestanti ma non ricchi, che abitavano San Donato Milanese.

Partii di buon’ora con la corriera che mi portava a Reggio Emilia e lì, da Porta Castello, dove si fermava il mezzo, sarei dovuta andare a piedi alla stazione, prendere il treno e, una volta giunta a Milano mettermi una fascia bianca al braccio e sperare di trovare la Signora che mi veniva a prendere. Per me già Reggio Emilia fu una scoperta incredibile: tutte quelle case, quel via vai di gente. Ma quando giunsi a Milano, ormai verso sera, rimasi a bocca aperta. Non avevo mai visto tanta gente prima, chi andava su, chi andava giù, chi a destra, chi a sinistra, in un moto perpetuo. Mi prese un’angoscia terribile di non trovare la Signora in mezzo ad una folla così. E le luci! Mamma mia che illuminazione potente, sembrava di stare in estate a mezzogiorno. Nemmeno il sole riusciva ad illuminare così bene le strade come i lampioni della stazione di Milano. Nel mio paese non esisteva l’elettricità per cui passare dalla lucerna alla luce fosforescente delle lampadine al neon mi sembrava straordinario.

Alla fine del binario una giovane signora si fece avanti e io mi sentii infine salva. Ma quando fui fuori dalla stazione e vidi tutte quelle auto percorrere velocemente le strade mi ritornò la paura perché mi chiedevo come avremmo fatto ad attraversare!

San Donato Milanese cominciava solo allora ad urbanizzarsi per cui, quando la domenica andavo a trovare la mia amica che abitava molto distante e tornavo di sera, avevo sempre una gran paura ad attraversare il quartiere ove giravano brutti ceffi.

In quella casa di San Donato Milanese trovai anche una vecchietta che mi prese in simpatia. La sera, quando avevo fatto addormentare il bambino e sistemato la cucina, mi chiamava in camera sua ad ascoltare le commedie alla radio…. anche quella una grande novità per me!

Con il primo stipendio, 12 mila lire, mi comperai il cappotto, che non avevo. La Signora mi portò alla Rinascente (mai immaginato un negozio con tutto quel ben di dio e le scale mobili!). Purtroppo, per quella somma mi dovetti accontentare di uno bruttissimo che non mi piaceva indossare. A San Donato Milanese stetti per otto mesi. Tornai a casa con una grande voglia di rivedere la mamma. Speravo mi aspettasse alla corriera. Quando scesi, c’era una signora girata di spalle che le assomigliava. Le corsi incontro a braccia aperte. Che delusione quando si girò. Mia madre, invece, come al solito stava nella stalla ad accudire le mucche.

Feci un’altra esperienza da “serva” l’anno dopo. Fu più divertente perché ci presero in due nella stessa casa. L’episodio che più mi è rimasto impresso di questa seconda esperienza è il fatto che una sera, quando i padroni erano già andati a dormire e stavo per mettere della carta nella stufa, da questi giornali stropicciati caddero delle lire. Dispiegai il tutto e scoprii che dentro c’erano parecchi soldi. Era l’incasso della giornata che i due, commercianti, avevano sbadatamente abbandonato vicino alla stufa avvolti appunto in un giornale spiegazzato, probabilmente per nasconderli ad eventuali rapinatori. Fui così in collera con loro che li andai a svegliare e glie li feci vedere dicendogli: «Se io non me ne fossi accorta in tempo, voi domani mi avreste accusato di furto!»

***

 

Per la cronaca, dopo queste esperienze milanesi, sono riuscita ad entrare nell’Ospedale di Reggio Emilia dove ho frequentato i corsi per infermiera, diventando poi infermiera neonatologa (a qualcosa è servito lavorare come bambinaia!).

lunedì 23 novembre 2009

24. Quelle notti d'inverno dove solo un "prete" poteva esserti d'aiuto....

Di  Barbara Bertolini
Noi in Emilia lo chiamavamo prete, da altre parti, come ha ricordato Mariolina (post 18), lo chiamavano frate, ma chissà quanti altri nomi ha. Insomma quell’aggeggio fatto di due legni sovrapposti, di forma ovale, lungo un metro e che veniva posto fra le lenzuola gelide, con sopra un braciere, aveva lo scopo di riscaldare il letto. Le braci venivano portate in camera un’ora prima di coricarsi. Senza il prete infilarsi nel letto sarebbe stato traumatico.

Nelle case senza riscaldamento il momento più brutto arrivava, infatti, quando si doveva abbandonare il tepore della cucina per andare nelle glaciali camere da letto. Doversi spogliare in un luogo dove la temperatura arrivava talvolta anche sotto lo zero era davvero un’impresa.

Sembra impossibile che il termometro scendesse così in basso nelle stanze, ma è un ricordo ben preciso a dimostrarlo: mia mamma, quando io e mio fratello dovevamo andare a letto, ci dava una bottiglia di acqua calda. Ebbene, quella bottiglia, che finiva quasi sempre per cadere sul scendiletto, qualche mattina l’abbiamo trovata con l’acqua completamente ghiacciata!

Tra le mie reminescenze più sgradevoli del tempo che fu, c’è proprio quella del risveglio alla mattina durante l’inverno, quando dal calduccio del letto dovevo sgusciare fuori in un ambiente molto simile a quello dell’igloo.

Ho ancora nelle orecchie la voce di mia nonna quell’anno del 1957, rimasta con lei e la sua famiglia perché i miei erano emigrati all’estero: «Angelaaaa, Ineees, l’è ora d’alves! (è ora d’alzarsi)», gridava alle figlie, a mo’ di sveglia, dalla cucina dove aveva appena avviato il fuco nella stufa. A quel richiamo, la prima a scendere, in effetti, ero io che avevo sì fatto uno sforzo sovrumano per abbandonare il lettone ma, che, però, venivo gratificata dalla nonna che immancabilmente mi diceva: «tu sì che sei brava, non quelle due dormiglione là». Le due dormiglione come al solito si erano rigirate dall’altra parte e ci avrebbero messo più di mezz’ora prima di sbucare fuori dal letto, e solo perché sentivano la voce minacciosa della madre che si avvicinava. Non avevano torto, però, a prendere tempo. Anche se il letto non era quello molleggiato di ora, ma aveva il materasso di foglie di granone, i loro corpi avevano prodotto una nicchia così calda che ci voleva un bel coraggio per affrontare una nuova giornata che cominciava al freddo e al gelo come nella grotta di Betlemme.

E per ritornare al prete, c'è da dire che oltre ad utile era anche un attrezzo molto pericoloso poiché, pieno di braci, veniva posto in un luogo dove, se rovesciato, avrebbe incendiato tutto facilmente. Infatti, molti materassi contadini erano fatti con le foglie di granone, come detto da Lucia (post 12).

Conoscete qualche altro nome di questo attrezzo?

martedì 17 novembre 2009

23. L'arrivo di una giovane sposa nel paese dei suoceri:anno 1910


Parlando d’amore nel tempo passato, ho trovato un racconto molto bello, quello di Lina Pietravalle, che va giovane sposa nel Molise.


Siamo intorno al 1910. La ragazza, figlia di un illustre medico, Michele, originario di questa regione, direttore degli Ospedali riuniti di Napoli e deputato, sposa Pasquale Nonno, giornalista di umili origini.


Anche Pasquale Nonno è molisano, e, dopo le nozze avvenute a Napoli porta la giovane sposa a Chiauci, in provincia di Isernia, paese dei suoi genitori. Il suocero di Lina, molto orgoglioso di questo matrimonio, coinvolge tutto il paese nell’accoglienza dei novelli sposi.


Ecco come la scrittrice descrive il suo arrivo:

ʻViaggiammo di notte, nell’augusta prima di velluto rosso ed arrivammo a Pescolanciano all’alba. Lì finisce la ferrovia ed incomincia, tra roccie scabre, la foresta con la sua cupa grandezza ascetica (…)

Eran pronte ad attenderci due cavalcature con un uomo sanguigno e baffuto che era a parte del nostro disegno di giungere di nascosto a tergo del paese, verso sera.

La mia cavalla si chiamava Gualfante ed era grande, magra, ed occhialata di nero come una maga coi fianchi iridati dal placido sudore. Aveva in testa una penna altissima che mi cavava gli occhi, fiocchi, sonagliere, e briglie pittoresche impicciatissime.

«Gatà, tu sei pazzo! Qua i pazzi vanno sciolti come i cani» proruppe allegramente mio marito «Spoglia la cavalla, se no m’accechi la sposa». (…)

Mi fece mettere sul suo cavallo e la lietezza mattutina gli parve un augurio ed un canto.

La strada borbonica era bellissima. Lenta come il ritmo del tempo d’allora, strada calma e patriarcale che rispettava ogni lembo di terra ed ogni diritto di pastura. (…)

Il suocero era alle vedette, Peppe Cacerna ci aveva traditi per quattro soldi di polvere da sparo. Per la storia egli gliene offerse due, ma Peppe rispose tutto d’un pezzo: «Fossi fesso, per due». (…)

Cominciarono a brillar fiaccole sanguigne tra le forre e le rupi solinghe, erte come cippi, e per le pasture scarse, contese dal passo della montagna, rispondevan fuochi alti e ruggenti come pire, incorniciati di faville. Tra le macchie degli alberi sbucavano intanto gruppi di ragazzi con fiaccole ed aquiloni di carta che urlavano come i lupi: «Evviva la Novella! Evviva don Pasqualino!». (…)

Intanto eravamo alla porta del paese. Ad attenderci v’erano i “municipali” vestiti di panno turchino, con la giacca a figaro, le camicie di canapa color olio ed una penna di gallo sul cappello. Mio suocero con il petto coperto di medaglie, aggrondato e solenne come un despota, ci fece l’investitura.

Su un piatto pane, olio e sale e le chiavi della porta maggiore che era quella della casa comunale. L’antico rito si compiva, come nei fasti del Trecento, fasti di grande alterigia e di commossa umiltà, nel quale il sangue dell’arrogante signore e quello del torbido plebeo eran confusi come in un crisma perfetto.

Una schiera di fanciullette, vestite di mussola bianca, con duri veli e rose di carta, si fece avanti a ghirlanda, seguita da una maestra monaca, cantando con le voci bianche ed acerbe dei campi, incrudite dal gergo, questa strana canzone:
«Vieni, mia sposa, al talamo, viene dal Libano e sarai incoronata….»
«Lina ascolta! E’ il cantico dei cantici! » egli mi disse.

Il suo volto era vitreo d’ambascia ed il suo sorriso convulso.

La folla intanto irruppe: donne, uomini, vecchi; sulle finestre rozze coperte colorate e scarselle accese, sui tetti torcie bluastre di resina e le strade pavesate di tele tessute in casa, rigide e grezze. (…) «Compari e comari» gridò mio suocero attaccando un energico moccolo «non fate i cafoni zulù! Largo alla sposa, per Sant’Onofrio rimbambito!».

Piovevan baci a mitraglia sul mio vestito e sulle mani: baci duri, informi, disperati e pianti macabri come se fossi nel cataletto.
«Figlia di sangue gentile! Palma! Figlia di mamma beata!».

E gli auguri:
«Nessuno vi possa spartire!».
«Santa Lucia ciechi il malocchio!»
«Servi a cento e mai il medico e lo speziale!».
«Sant’Agnese diletta! Santa Marzia preferita! Essa porta una quartana di capelli. Capelli e figli assai, capelli e grano assai!».

Infatti il grano ci copriva e non potrò mai dimenticare tra quelle luci labili, sotto quello spesso cielo di viola, arcato e dipinto come un portico, la pioggia lene e torpida del grano da tutte le finestre. Pareva polvere sfarinata d’un mestissimo oro, pieno di piombo e di ferro, e sulle mani e sul viso sentiva ancora di sole e di terra. Era tutto grano mondo, pane strappato alle loro bocche penitenti dalla poesia del mito e dalla virtù della tradizione. Una muta di servi gettava denaro e confetti e a tutti i capi di casa che attendevan sulle porte era dato il dono della sposa: un fazzoletto fiorito alle femmine, ed un taglio di camicia agli anziani. Ai fanciulli, rauchi di tripudio, ciambellette, frappe e fichi secchi……. ʼ

Questa grandiosa festa è tutta opera del suocero di Lina Pietravalle che così lo descrive:

“Mio suocero, bellissimo e truculento tipo di capo-tribù, era scellerato di fama ma cinto dalla forza delle sue imprese da una nube di fatalità e d’imperio e come tutti i violenti semplici e barbari in Cristo, sentimentale e persuaso d’essere un giusto ed esemplare uomo. Era sindaco, notaio, consigliere provinciale e di tal fegataccio che vantava medaglie d’ogni genere al valor militare e civile. Aveva accoppato i briganti essendo lui diceva «peggio di un brigante» ed accoppava sempre tutti con una sincerità esplicativa e laudativa eroica. (…)
Naturalmente per il mio matrimonio riunì i consiglieri che puzzavano di stabbio; vecchi pastori, con le brache rappezzate e le mani grosse come spatole per la calcina.
«Don Pasqualino sposa la figlia di don Michele. Invito la Giunta a mandare una lettera di pubblico giubilo per le nozze alte».
«Nozze altre» ripeté il prosindaco. «E quanta dote porta?»
«Non porta dote» ribadì solennemente mio suocero «perché se portava pure la dote non si sposava a figliemo (figlio mio)».
La gente allibì ed egli spiegò ch’egli voleva nobilitare il suo sangue e schiarirlo.
«Mio padre era fabbro e mio nonno contadino, io ho fatto il primo passo ed ho “ammegliato”, e mio figlio deve farlo più lungo, non ci vuole per lui una femmina con i polsi grossi, ma pregiata di figura e col cervello fino».
«E t’è piaciuta, noreta? (tua nuora)»
«Mi è piaciuta e parla meglio di monsignore».

Lina Pietravalle, Marcia Nuziale, pubblicato da Bompiani il 15 dicembre del 1931, ripubblicato nel 1987, centenario della nascita della scrittrice

martedì 10 novembre 2009

22. L'innamoramento ai tempi passati


Questa poesia di Ermanno Catalano, che parla di innamoramenti nei tempi passati, mi sembra molto adatta per il blog poiché il suo titolo è "Amore d’altri tempi", appunto quelli della gioventù dei nostri nonni o bisnonni a cui non era permesso avvicinare la ragazza che faceva palpitare il loro cuore.



Ringrazio Catalano, poeta dialettale molisano, per avermi concesso il suo componimento. Barbara Bertolini




AMORE D’ATI TIÈMPE.................... AMORE D’ALTRI TEMPI

Petésse remenì ‘llu tiémpe äntiche,.......Potesse ritornar quel tempo antico

quann’ere verde, quasce nu guaglione,..quando ero verde, quasi ragazzo,

e iave mure mure e ciche viche.............e andavo lungo i muri vico vico

pecché velée ‘lla bella ggione...............perché volevo vedere quella giovane



E quanne ne fenestre nen ce steve..........E quando alla finestra lei non c’era

‘spettave che senava vintunore;.............aspettavo che suonasse vent’un ore;

allore ch’i chempagne ze rreunéve.........allora alle compagne lei si univa

e iave a tolle l’acque c’a quettore..........e andava a prender acqua con la tina



Allore non petive irce a spasse,.............Allora non potevi andarci a spasso

parlarce nen petive ‘mmiezz’a vije,.......non potevi parlarci nella strada

ma p’a temménte sule d’addarasse.........ma per guardarla solo da lontano

evive ì ne fonte, zije, sije.......................dovevi andare alla fonte, zije sije.



U munne mò è cagnate, è n’ata cose,.......Il mondo or è cambiato, è un’altra cosa:

a fonte cole ‘n terre senza ggente;...........la fonte getta acqua senza gente;

Marije è vecchie, a figlie mo spose........Maria è vecchia, la figlia ora si sposa,

u suonne mije remane p’a mente.............il sogno mio rimane nella mente.



Ermanno Catalano

lunedì 26 ottobre 2009

21. Come stiravano le nostre nonne


La signora Armentina, piena di ricordi, ci racconta come si stirava una volta, quando l’elettricità non c’era ancora, dandomi così l’opportunità di mettere questa bella foto, presa dalla raccolta di ferri da stiro antichi di Pasquale Veleno.


Il primo ferro da stiro che ho avuto (anni ’40) era quello pesante che si metteva direttamente sulla stufa. La piastra si riscaldava e io potevo stirare il tempo che durava questo calore, ovvero pochissimo. Insomma per dare una piega ai capi ci voleva davvero tanto tempo. Ve le ricordate le stufe di una volta fatte a cerchioni concentrici i quali si toglievano uno ad uno, a seconda della grandezza della pentola da mettere? Ebbene, quella era la stufa su cui io poggiavo il ferro da stiro. Nelle sartorie, dove il ferro era attaccato tutta la giornata si è sempre preferito impiegare questo tipo fino all’avvento dell’elettricità, infatti, si rischiavano meno bruciature ed era più pulito.
Successivamente ho utilizzato quello dove si mettevano le braci direttamene dentro al ferro. Quello per intenderci che, come cimelio, si trova ancora in tante case. Era tutto nero e aveva l’apertura in alto che permetteva di riempirlo di braci ardenti. Questo ferro aveva un’autonomia più grande rispetto a quello di prima. Nelle famiglie ricche la brace veniva sostituita dal carbone.
Per poter stirare agevolmente dovevo spruzzare la stoffa con dell’acqua. La bruciatura era assicurata se non si aveva l’accortezza di mettere uno straccio tra la stoffa e il ferro. Le stoffe sintetiche fino agli anni ’50 non erano ancora arrivate nelle nostre case per cui i capi da stirare erano prevalentemente in canapa, lino o lana. Mentre i soliti ricchi possedevano nel loro guardaroba anche indumenti in cotone e seta. Per inamidare i colli delle camicie, facevo bollire le bucce di patate in una pentola e, dopo, ve li immergevo.
Nelle famiglie dove non c’era servitù, lenzuola, asciugamani e vestiario intimo non venivano mai stirati, avevamo altro da fare!
Per cui, quando alla fine degli anni ’50 mi sono trovata fra le mani il primo ferro da stiro elettrico è stata una vera liberazione. Sono stata una delle prime a comperare quello a vapore che avevo adoperato nella sartoria dove lavoravo!
Non c’è dubbio che l’emancipazione della donna è passata anche attraverso la liberazione delle corvée domestiche.
Armentina Bonini, tutti i diritti riservati

lunedì 12 ottobre 2009

20. Quando da Genova, Napoli e Messina imbarcavamo le "spose per procura" fino in Australia


(foto anni '50, il giovane ufficiale di marina Pietro Ciufici in divisa invernale)
di Pietro CiuficiNato a Ortona, porto abruzzese che si affaccia sull’Adriatico, il mare è sempre stato il mio universo, la mia meta, il mio approdo.
Sapevo fin dalla più tenera età che da grande avrei fatto il marinaio. Dopo le medie, infatti, mi sono iscritto all’Istituto nautico e, successivamente, con il mio bel diploma in tasca mi sono imbarcato come giovane ufficiale di marina.

Era l’anno 1954 e, da allora, e per tredici anni ho circumnavigato il mondo approdando con le navi nei porti più importanti del globo terrestre: dall’Alaska all’America del Sud, dalla Cina all’Australia; dove ci portava il vento del commercio.
I ricordi di quegli anni gloriosi sono tanti. Tra i primi a venirmi in mente ci sono i viaggi con navi passeggeri verso l’Australia, dove portavamo anche le numerose “spose per procura”.
L’Italia di allora era poverissima, non erano ancora state cancellate tutte le tracce lasciate dalla guerra e spesso mancava perfino il minimo per campare. Ecco perché molti italiani partirono per l’Australia dove il lavoro abbondava e dove solo lo zappatore della terra era capace di adattarsi ad un clima terribile in luoghi isolati, abitati da piccolissimi nuclei di famiglie. Gli emigrati erano stati chiamati per lavorare soprattutto la canna da zucchero nel Nuovo Galles. Le destinazioni principali erano Freemantle, Adelaide, Melbourne, Sydney o Brisbane.
Questi uomini si trovarono di fronte ad un serio handicap; sul posto trovarono pochissime donne per cui, realizzata una discreta sicurezza economica, si affidarono ad agenzie matrimoniali o a parenti per far giungere in Australia delle giovani povere disposte a sposarli per procura.

Un anno, sulla turbonave della flotta Lauro, imbarcammo più di trecento di queste giovani raccolte nei porti di Genova, Napoli, Messina e Malta. Donne che avevano in tasca pure un biglietto di ritorno nel caso la persona sposata non fosse all’altezza delle loro aspettative. Ma anche se talvolta trovarono al loro arrivo degli uomini rozzi, vere facce da galera, e non così ricchi come immaginavano, molte accettarono comunque questo matrimonio per non deludere la propria famiglia e creare problemi al paese. Altre, più coraggiose, tornarono invece in dietro. Ma anche tanti di questi matrimoni combinati, bisogna dirlo, andarono a lieto fino.

Il personale della nave era in maggioranza maschile e appena arrivavamo nei porti di imbarco, dopo aver fatto tutte le manovre, ci mettevamo sul ponte ad osservare l’arrivo delle ragazze.
Nicola l’ufficiale in seconda mi dava gomitate «Oh Gesù, guarda quella biondona, ma come s’è conciata? dove va? si vede a tre chilometri il mestiere che fa, le manca solo la borsetta da far girare, che dici, lo sposo sarà contento?». E giù risate… «Hei, la moretta dietro, niente male, che gambe!». «Ma tu guarda la miseria che ti fa fare!» . Insomma l’arrivo sulla nave di questa umanità era il momento più spassoso di tutta la traversata perché cercavamo di capire i sentimenti e gli intenti di queste “signorine” diventate signore all’improvviso, che salivano sulla nave con indecisione, titubanza, gli occhi pieni di lacrime, sapendo di partire davvero per l’ignoto. C’erano ragazze sprovvedute, ma anche donne navigate che avevano fatto il marciapiede fino ad allora e l’Australia era la loro unica possibilità di rifarsi una vita dignitosa.
Noi prendevamo il meglio che ci veniva offerto. Ognuno aveva una tecnica collaudata per attirare l’attenzione e venire in contatto con le ragazze adocchiate.

Infatti, per far passare il tempo a bordo, durante questa traversata che durava ben 31 giorni, si organizzavano feste: il capitano, napoletano verace, per prenderci in giro ci diceva: «Guagliù facite è bbrava che appriesso a l’Equatore v’a prometto a festa ‘re banane!»
Avevo 24 anni, ero bello, simpatico, e con la mia bianca divisa da ufficiale facevo girar la testa a più d’una. Insomma uno sciupafemmine e, quella volta lì, ero talmente indaffarato con il gentil sesso che alla fine mi venne l’esaurimento nervoso poiché non dormii per alcuni mesi! Perfino il turno di guardia la ragazza conquistata lo faceva con me. Non avevo tregua. Che tempi!
Infatti, inizialmente timide, queste donne, dopo pochi giorni, sentendosi infine libere dalla tutela dei loro parenti, non più giudicate dai paesani, esplodevano e non avevano più remore a lasciarsi andare con il personale di bordo.

Il problema per tutti noi arrivava quando giungevamo in Australia. Molte si erano innamorate e non volevano distaccarsi dai loro marinai. Ma la legge a bordo era inflessibile, SCENDERE, e come si dice a Napoli, “chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato”. A queste donne non restava che sperare di aver trovato, in terra d’Australia, un marito all’altezza delle loro aspettative.


Testimonianza raccolta da Barara Bertolini - ©2014 Tutti i diritti riservati

domenica 4 ottobre 2009

19. LA NAVE DELL’EMIGRAZIONE…. TRA ITALIA E CANADA, che accoglienza!


di Josée Di Tomaso, Montréal

I milioni di emigrati che hanno attraversato l’oceano per approdare nel Nuovo mondo l’hanno sempre fatto in nave fino all’avvento del trasporto aereo di massa, ovvero la fine degli anni 1960. Quindi, sulla rotta Europa-America non si può parlare di navi senza parlare di emigrazione (o viceversa).

In quegli anni gli emigranti italiani che volevano venire in Canada, arrivarono in America via nave approdando prima al porto di Ellis Island (Nova York- USA), proseguendo poi per il porto canadese di Halifax (nella provincia nominata Nouvelle Écosse in francese e Nova Scotia in inglese), attraccando la nave al mitico molo Pier 21. Ma per arrivare a destinazione, che per molti italiani era quasi sempre Montreal, nella provincia di Québec, si doveva prendere il treno e viaggiare ancora per circa 1000 km. Il percorso era lungo e faticoso avendo numerosi bagagli da trasportare ma, soprattutto, era difficile capire, in una lingua nuova, le indicazioni per raggiungere la meta.

Già dall’inizio del Novecento i miei bisnonni, i miei nonni e infine mio padre sono arrivati in Canada con la nave. Ci si metteva allora alcune settimane per raggiungere la costa del continente americano. Era un viaggio lunghissimo e noioso. Una delle poche attività che si poteva fare sulla nave era salire sul ponte ed ammirare il cielo – il cielo e il mare era tutto ciò che si vedeva all’infinito. I giorni erano tutti simili e interminabili. E quando il mare si scatenava alcuni passeggeri erano malati e a volte non erano nemmeno in grado di alzarsi dal letto per tutto il periodo del viaggio, e era così fino all’accostamento.

Negli anni 1940 e ‘50, in Canada arrivarono moltissimi emigrati, talvolta anche in gruppi. Nella mia memoria c’è l’arrivo con la nave di vari cugini e zii partiti da Casacalenda (Molise), in particolare quello dello zio di mio padre, una domenica d’estate. Questo zio fece un’eccezione alla regola poiché, mentre tutti ci preparavamo per andarlo ad accogliere al porto di Montreal, lui arrivò sotto casa in taxi. Cosa era successo? Semplicemente la nave aveva messo meno tempo di quello previsto. Infatti, durante la bella stagione, le navi possono arrivare fino a Montreal perché il ghiaccio che avvolge tutta la costa e l’entroterra canadesi, si scioglie e il fiume San Lorenzo, grande come un mare, diventa navigabile.
Tre anni dopo, anche la famiglia di mio zio venne direttamente a Montreal con la nave chiamata Camberra.

Rivedo ancora nella memoria l’accoglienza di questo zio: c’era mia nonna, i miei zii, le mie zie che lo aspettavano. Lo rivedo scendere dal taxi perché eravamo tutti sul balcone di casa, in attesa di partire per il porto.
I miei genitori l’hanno accolto con rispetto. Mia madre aveva preparato dei dolci e tutti insiemi abbiamo fatto la conoscenza di questo Zio Padre. Lui ha raccontato del suo viaggio, che era andato abbastanza bene.
L’indomani con i miei genitori siamo andati al porto per vedere il “bastimento” come lo chiamava mia madre. Perché spesso queste navi portavano anche della merce dall’Italia insieme ai passeggeri ed era possibile visitarla. Questo mastodonte gigante che galleggiava nell’acqua mi ha fatto un’impressione prodigiosa.

Il sabato seguente, mia madre aveva organizzato une festa. Aveva cucinato e preparato dolci e aveva invitato tutti a casa. La nonna, le zie, i zii, i cugini, le cugine, i loro figli ma anche alcuni amici che sono arrivati per venire a salutare Zio Padre.

Così, egli ha abitato con noi per un certo periodo e spesso aveva visite. Poi ha trovato un lavoro, e, dopo aver affittato una casa, ha infine potuto far venire la moglie e i figli dall’Italia.

Ci sono stati anche molti cugini arrivati con la nave e tutti accolti ed ospitati a casa mia in attesa di una sistemazione.

Erano tempi di grande disponibilità ed affabilità. I miei genitori hanno dimostrato molto altruismo. Era un periodo di gioia, di riunioni familiari allegri, di calore umano, erano dei momenti indelebili che non si possono cancellare dalla nostra memoria – una bella storia d’amore tra l’Italia e il Canada, un periodo storico che non tornerà mai più – che resterà per sempre...

mercoledì 30 settembre 2009

18. Fonti di calore nel passato


di Mariolina Perpetua

(foto: antico camino di Incoronata Piunno)


Il camino
La fonte di calore, in casa, era il camino, sistemato nella cucina, centro di vita della famiglia. Oltre ad emanare calore nella cucina stessa, dava la possibilità di riscaldare altri ambienti, raccoglieva attorno a sé la famiglia, provvedeva a cuocere i cibi. La fiamma crepitante era la gioia di adulti e piccoli. In realtà la cucina era l’ambiente di tutti: per i più grandi che assolvevano ai loro impegni: cucinare, stirare, sferruzzare, recitare sommessamente la corona del rosario; per i più piccoli che accudivano ai loro compiti o si dedicavano ai giochi. Ricordo che in quasi tutte le stagioni dell’anno il camino rimaneva acceso.
Alla grossa catena che scendeva dalla canna fumaria si appendeva il “caldaio” (paiolo), che permetteva di avere acqua sempre calda e consentiva la cottura di verdure (“le foglie” e pasta (anche “sagne” fatte in casa), nonché la preparazione della polenta, alimento base della popolazione, fino a poco tempo fa, nei paesi ad economia agricola-pastorale. – Lascio immaginare cosa accadeva, ed accadeva, se, per la fretta, non si agganciava bene il caldaio alla catena ed il contenuto si rovesciava sul fuoco. - Recipienti di terracotta, in genere le “pignatte”, erano utilizzati per la cottura di legumi, mentre tegami bassi e larghi erano utili per la cottura di carni e per la preparazione di sughi.
La pignatta era accostata alla fiamma o alla brace - una pignatta di fagioli era “un classico” nel camino di ogni casa -, le altre pentole erano sistemate su “treppiedi” di ferro sotto cui si disponeva la brace. Le “graticole” servivano per gli arrosti di carne e di pesce.
Un gusto ed un sapore particolare assumevano i cibi cotti “sotto la coppa”, ovvero in ruoti di stagno o di rame, internamente battuti in stagno, chiusi da un coperchio su cui veniva sistemata la brace. Buonissime le “patate sotto la brace”. Sotto la brace, mia nonna era solita preparare focaccine o panettoncini di un uovo, dal “gusto particolarissimo”, ma “speciale”, come poteva essere un dolce per una bambina del primissimo dopoguerra, quando non si trovava niente o quasi niente.
Nel panierino dell’asilo era custodito il sapore di casa, delle cose care, della dolcezza e dell’impegno della nonna, che ce la metteva tutta per accontentarmi e rendermi più gradite le ore di permanenza fuori casa.
La mattina non era insolito sentire il borbottio delle “cuccume”, dove bolliva l’acqua per l’orzo o per il the, mentre si riscaldava il latte, ed il gorgoglio del caffè preparato nella “macchinetta alla napoletana”.
Nelle sere d’inverno, spesso, capitava di consumare, per cena, latte e the, secondo un uso nordico, divenuto consuetudine anche nella famiglia di mio padre che era vissuta a lungo nel Nord-Est d’Italia. E quando arrivava “ziPaulill’, perché il tepore del camino conciliava il sonno, si partiva per il “teatro Bianchini tra coperte e cuscini”, intiepiditi durante l’inverno, per attenuare il senso di freddo e di umidità che inevitabilmente si percepiva sotto le coperte, nonostante pesanti camicie da notte o pigiami.
Il focolare era adibito, dunque, a molti usi. La brace, infatti, sistemata in scaldini veniva infilata nel letto, con un apposito “attrezzo”: il monaco”, che serviva a tenere lontano le coperte dal fuoco. Messa in “bracieri”, riscaldava le altre stanze e nella stagione fredda gli stessi bracieri, sormontati da una “campana” in doghe di legno assai flessibili, si trasformavano in “asciugatrici”. Anche la cenere aveva la sua utilità. Infatti, grazie al suo contenuto di carbonato sodico e potassico, sali che un tempo si estraevano in larga scala proprio dalla cenere dei vegetali, era usata per fare il bucato.

Il forno
Per il pane, che si faceva in casa, ci si serviva del forno, generalmente sistemato accanto al camino. Il forno dei miei ricordi non era diverso dai molti che ancora oggi si vedono nelle case di campagna: “edificio a volta con apertura semicircolare nel quale va cotto il pane, dopo averlo riscaldato” (Zanichelli). Come per accendere il fuoco nel camino, anche per preparare il forno e capire la temperatura giusta per una buona cottura del pane, l’esperienza era preziosa. Il calore del forno, dopo “l’infornata” del pane, serviva anche a cuocere cibi, in particolare pizze al pomodoro preparate con la stessa pasta del pane, e dolci.
La fornacella
Nella buona stagione, in estate soprattutto, che, tra l’altro, al mio paese non durava molto, era utilizzata “la fornacella”, costruzione solida, in muratura, ricoperta da piastrelle di ceramica azzurra e gialla, a due sportelli che davano l’accesso a piccole “camere” per l’accensione dei carboni. Sul ripiano, due bocche coperte da cerchi concentrici di ferro, che venivano tolti e aggiunti a seconda della grandezza delle pentole. Non era raro accendere contemporaneamente camino e fornacella per accelerare i tempi di preparazione del pranzo e della cena.

17. Fonti di calore nei tempi passati - 2 -




Riscaldamento e scuola di Mariolina Perpetua

Come le abitazioni, anche le aule scolastiche erano molto fredde. L’intervento del Comune in fatto di fornitura di legna da ardere in piccole stufe di terracotta o di ghisa di cui erano dotate le scuole, era sempre insufficiente; per questo ogni alunno doveva portare un piccolo fardello di legna da ardere. Per me era facile rifornirmi in casa, ma per i miei compagni la situazione era un po’ diversa, essendo il paese molto povero. Infatti essi “facevano la legna”, quando portavano al pascolo “gli animali”, stando ben accorti a non entrare nelle proprietà private.

 
Per concludere, dopo gli anni ’50, una “cucina economica”, a legna, emanava un dolce tepore nella “cucina” della casa dove ho trascorso la mia infanzia. Con la canna fumaria si riscaldavano anche le freddissime camere da letto del secondo piano. La cucina economica sostituiva in pieno il camino e la fornacella. Intorno agli anni ’60 sulla fornacella fu deposto un fornello a gas a tre fuochi. Poco dopo la “fornacella” fu abbattuta e sostituita da un bel mobile bianco, nuovo, in ferro smaltato. Eravamo entrati in un’altra era, anche la mia famiglia si convertiva alla “tecnologia”.

sabato 12 settembre 2009

16. Quelle nostre estati degli anni '50


di Rita Frattolillo
(nella foto famiglia Frattolillo al mare, anno 1949)
Quest’estate in via di archiviazione mi sta regalando più di un pomeriggio vuoto che fa camminare più veloci certi pensieri.
Ogni tanto passa una voce registrata che reclamizza le griffe scontate nelle boutique del centro.
Sto al mare e, attraverso gli occhiali scuri, oltre le palme che ondeggiano e le file di ombrelloni azzurri, ne scorgo la superficie increspata dal vento di terra che soffia con forza.
Certi giorni lo sento particolarmente estraneo, questo Adriatico apparentemente calmo e gestibile, in realtà dall’umore variabile e un po’ traditore. Niente a che vedere con il “mio” Tirreno, quello della mia infanzia, delle favolose “villeggiature”, come le chiamavamo una volta.
Il Tirreno è un mare aperto, impetuoso, lo vedi subito come sarà la tua giornata. Quasi mai piatto come una tavola, ma cavalloni a volontà, in cui tuffarsi intrepidi e da cui emergere grondanti e storditi, ma pronti agli schiaffi fragorosi della prossima, furiosa ondata!
Sarà l’avanzare dell’età, ma sempre più spesso la mente scivola verso l’Amarcord, a quando noi bambine non stavamo più nella pelle, divorate da un’ansia crescente con l’avvicinarsi del giorno fatidico della partenza.

In realtà i miei genitori, una volta chiusi gli impegni scolastici, programmavano l’estate tra collina (“alle bambine così inappetenti l’aria farà bene e le rimetterà in carne”) e mare.
Ma per me e mia sorella Angela, di due anni più grande, il pensiero fisso erano quei giorni mitici che avremmo passato immerse nell’abbraccio liquido del mare. Per noi l’anno, tolto Natale e la Befana, si divideva in un prima e un dopo. Prima, erano settimane effervescenti, proiettate sulle nostre imprese future; dopo, una volta tornate a casa, riempivamo le nostre serate con i racconti esaltanti dei momenti vissuti, che si diradavano per poi scomparire, di pari passo con la nostra tintarella. Sta di fatto che dei nostri soggiorni collinari mi torna solo qualche frammento sfocato: la grande villa dall’orto incolto, in cui convivevano confusamente alberi da frutta, vegetazione spontanea, fiori. Villa e orto, alle porte del paese, Caserta Vecchia, erano teatro delle nostre bravate: l’orto un bosco dove nascondersi, e le stanze, infilate l’una nell’altra, un labirinto dove le voci rimbalzavano prima di affondare nell’imbottitura dei divani. Lì andavamo a caccia di attrezzi da adattare per il prossimo gioco, incuranti dello sguardo severo che ci indirizzavano i personaggi ritratti alle pareti. Ricordo le ricottine nel cestino intrecciato che la contadina ci consegnava la mattina; e i concerti serali all’aperto, nella piazza del borgo medievale dominata da un torrione grigio e imponente nel mio ricordo…

Ma per Angela e me, Caserta Vecchia era una tappa obbligata per poter accedere al nostro paradiso, pur se, la nascita, a distanza ravvicinata, delle altre due sorelle, ci impedì per più di un’estate di proseguire fino alla nostra “vera” meta estiva.
Niente tuffi, niente lotte con i cavalloni, allora, ma solo giochi nel giardino incantato della villa, e i concerti, ai quali regolarmente mi addormentavo, spossata dal troppo correre e saltare.
Un mese era lungo da passare, e i giocattoli scarseggiavano, così bisognava aguzzare l’ingegno e mettere a punto nuovi giochi, che chiamavano a raccolta anche le bimbette del vicinato. Quelli più scatenati li facevamo di pomeriggio, quando potevamo finalmente sfuggire alla sorveglianza dei miei genitori, che, sopraffatti dalla cura di ben quattro mocciose, si concedevano la meritata pennichella .

Non è che mancassero i momenti di tregua; uno era colmato dal cinema…fatto in casa. Credo che molti miei coetanei sappiano di che parlo: dopo aver incollato pagina a pagina un fumetto (di quelli a striscia stretta e lunga), avvolgevamo le due estremità a delle cannucce. Uno scatolo di scarpe dal fondo accuratamente ritagliato quel tanto che bastava, faceva da cornice alla “pellicola”, che girava manovrata da me o da mia sorella, mentre le piccole spettatrici, sedute in circolo per terra, seguivano la contrastata (lo è sempre) storia d’amore tra un principe indiano ( di cui non ricordo il nome, ma l’esclamazione “Per la Trimurti!”) e la bella maharani.
Dopo varie puntate a Sorrento e dintorni, la preferenza cadde, per via delle Terme, su Castellammare di Stabia, l’antica città offesa, con Pompei ed Ercolano, dalla furia devastatrice del Vesuvio nel 79 d. C.

Sono nata nel 1945, e, per quel che ricordo, posso dire che, finita la guerra e preso atto della drammatica realtà, la gente si rimboccò le maniche e si industriò per raggranellare qualche soldo.
A Castellammare fervevano le attività e piccoli commerci; il monte Faito (“Faggeto”) elargiva da sempre tante varietà di acque che avevano reso famose e frequentate le Terme, sbocco occupazionale “naturale” degli stabiani; poi c’erano i cantieri navali, il cementificio di Pozzano, di cui ricordo ancora lo stridio durante la macinazione, che sputava nell’aria un finissimo velo di polvere bianca che si attaccava tenace ovunque .
Chi non aveva lavoro, se lo inventava, mettendo a frutto la propria competenza, o, in alternativa, subaffittando la propria abitazione ai villeggianti.
In tutto il centro città un solo albergo, il Montil, più tardi dotato anche di cinema (un vero lusso!), inavvicinabile per stipendi di insegnanti statali…
Così, alloggiavamo in un appartamento dove la padrona o chi per essa – erano i patti – passava ogni mattina a preparare la colazione e riordinare.

Una volta scesi dal treno, si proseguiva fino alla destinazione in carrozzella, armi e bagagli. Niente autobus, e macchine rare come mosche bianche. Al trotto, con lo schiocco della frusta nelle orecchie, costeggiavamo buon tratto di lungomare, abbagliate dal pittoresco display che ci si apriva davanti. Alla nostra sinistra scorrevano le facciate degli alti condomini; sbiadite e scalcinate che fossero, la nostra gioia era tale che tutto ci sembrava bello e unico. A destra il respiro del mare scintillante al sole. L’animazione della città con le sue mille facce ci veniva incontro. Gente sciamava dai sopportici invadendo un groviglio di vicoli colorati e affollati come suk in un flusso perpetuo. Ambulanti spingevano carretti carichi di costumi da bagno americani (usati?) a buon mercato; qualcuno strillava « E’ m’lùun’é fuòok’ » davanti ad una enorme piramide di cocomeri dalla scorza scurissima; donnone sedute comodamente davanti alle porte aperte dei bassi pulivano verdure da vendere; un altro friggeva crocchette (é panzaròtt’); più avanti, alla Fonte acqua della Madonna (con cui impastavano i biscotti a forma di grissino di cui andavamo ghiotte) scugnizzi scalzi, destreggiandosi sulle chiare mattonelle scivolose, riempivano fiaschi e brocche in cambio di qualche moneta; pescatori, appoggiati alle barche tirate sull’arenile, rammendavano le reti.
Tra una piega di lenzuolo o mentre l’orzo (meglio dire “cioféka”, dal momento che la stessa miscela veniva riciclata senza pietà) sgocciolava nella napoletana, Carmela, figlia adolescente della padrona di casa, a cui un fisico assai lontano dalle pin up e baffi già da corsara non impedivano di passare da un Catello all’altro (Catello sta a Castellammare come Gennaro sta a Napoli), Carmela, dicevo, trovava il tempo di aggiornarci sui suoi spasimanti, intercalando i particolari succulenti con «Mamm’ ro’ Càrm’n’!» esclamazione che le fece guadagnare il soprannome che le appioppammo.
Aiutandola nelle faccende, seguivamo trasognate le sue affabulazioni e le sue evoluzioni da una camera all’altra, poi, di corsa alla villa comunale, trascinando le piccole Rosa e Maria, che ci trotterellavano dietro a fatica. In villa troneggiava l’artistica Cassa armonica, che, con la sua orchestra, la sera attirava soprattutto dame tintinnanti di gioielli che si sventagliavano placidamente.
Dalla villa comunale si scendeva ai Bagni.

I Lidi degli anni ’50 avevano poco in comune con quelli a cui ci siamo abituati in seguito. Niente bar, piscine, trampolini o campi da minigolf, come al Kursaal di Ostia, che frequentammo dopo il nostro trasferimento a Roma. Niente acqua-gym, animatori e balli all’ombra dei gazebo. Allora, solo l’indispensabile, ma per noi era l’eden, anche se nello stile un po’ descamisado della fauna più o meno ruspante che ritagliava il territorio. Piccole come eravamo, respiravamo la vita senza mediazioni né filtri, svincolate da qualsivoglia cronologia, e tuttavia percepivo il fermento forte che si respirava dopo la proclamazione della Repubblica. A Castellammare il clima politico era caliente con tendenza al rosso acceso, si cercava lo scontro e si veniva facilmente alle mani.
I miei andavano presto alle Terme per poterci raggiungere ai Bagni Elena. Capitò un giorno che mentre mio padre leggeva il suo giornale sotto l’ombrellone, venne provocato da un vicino che, dopo aver sogguardato con intenzione il quotidiano, se ne uscì con un commento offensivo su tale on. democristiano. Mio padre, che non era tipo da passarci sopra e ha sempre difeso i propri convincimenti, rispose a tono dando la stura ad un alterco che sarebbe diventato violento senza l’intervento pacificatore delle rispettive mogli.

Fortunatamente bastava un tuffo per sciogliere ogni apprensione, e le giornate, scandite dall’urlo prolungato della sirena dei cantieri, passavano sempre troppo in fretta, a colpi di sfide acquatiche lanciate dai giovanissimi - ma già navigati - stabiani, a cui non sfuggivano i … visi pallidi.
In verità Angela, biondissima e riccioluta, attirava invariabilmente uno stuolo di piccoli ammiratori, che cercavano di impressionarla con mille acrobazie. Uno, in particolare, biondo, occhi smeraldini che spiccavano nella tintarella, si era promosso nostro paladino, bandendo senza cerimonie la ciurma dei…molestatori.
Poteva far comodo: uno dei primi costumi di cui ho memoria - ebbe vita breve ma è stato immortalato in una foto - era uno slip di cotone stampato a barchette che, una volta inzuppato, tendeva a calare, sicché lo dovevo trattenere mentre cercavo di tenermi a galla in un’acqua subito alta. Fu prontamente sostituito, anche perché la mia disperata manovra non era sfuggita ad una banda di scugnizzi che, guizzando sott’acqua, facevano accrescere la mia ansia. Sostituito con uno intero, di taffeta verde, di quelli con la pattina, come era la moda. Più tardi, compariranno i costumi da bagno di…lana. Il mio era blu e fece la fine di quello a barchette, e per lo stesso motivo.
In seguito, diminuì il numero dei giovani che, avendo ceduto il letto ai villeggianti, la mattina si trascinavano con l’asciugamano fino all’ombra di una cabina, per poter finalmente dormire, dopo l’ennesima nottata passata in bianco allungati sul balcone di casa. Fecero la loro apparizione gli abbronzanti (ricordate la bimba del cartellone Coppertone?), e le rotonde con il jukebox. Grande fu il nostro stupore davanti alle coppiette che verso l’imbrunire si muovevano strette su una musica lenta. Da allora, la musica inondò l’aria, facendo da colonna sonora alle nostre esistenze.

Una delle ultime volte a Castellammare, la nostra padrona di casa sfoggiava per orecchini delle monete d’oro che trovai di dubbio gusto, ma che erano indizio certo di un raggiunto benessere.
Di lì a poco sarebbe esploso il boom economico; si profilava la mutazione genetica, la trasformazione irreversibile di cui continuiamo ad essere comparse e testimoni impotenti. Anche la terminologia, come tutto il resto, si rinnovava, e la parola “villeggiatura”, dopo decenni di onorato servizio, cedeva davanti ai rampanti “vacanza” e “ferie”, chiaro segnale di un diverso stile di vita.

venerdì 11 settembre 2009

15. Le mie vacanze in Libia negli anni '60


di Maria Genta


Durante le vacanze estive, andavo a passare un paio di mesi in una fattoria in campagna, in un paese a circa 40 km da Tripoli, presso una famiglia di amici. La casa era composta da tre stanze: la cucina, centrale, e due camere da letto a lato. Il bagno non esisteva: c'era un capanno scoperto poco distante da casa. In cucina c'era un bel focolare a legna, dove la madre della mia amica preparava i pasti. All'esterno c'era un grande forno dove veniva cotto il pane una volta alla settimana: una parte dell'impasto veniva messo da parte per diventare lievito per l'infornata seguente.
Di bello c'era una vastissima vasca di cemento per raccogliere l'acqua del pozzo, che serviva poi per l'irrigazione: quella era la nostra piscina.
Il papà della mia amica era potatore e la casa era in mezzo a distese di alberi di mandorle, di arance e mandarini. Il periodo della fioritura era sicuramente lo spettacolo più bello, per non parlare del profumo intenso dei fiori d'arancio !

sabato 25 luglio 2009

14. Com'erano diversi i ruoli tra uomo e donna prima degli anni '60


di Incoronata Piunno
Quando io ero bambina, nelle famiglie, fra uomini e donne, vigeva una netta divisione di ruoli e compiti. Nella mia era evidente anche un’altra differenza: gli uomini erano di fede socialista, anticlericali e “mangiapreti”; le donne invece trascorrevano la loro esistenza tra casa e chiesa, cucito e ricamo, preghiere e rosari.
Il pane si faceva in casa e il suo profumo la inondava spesso. Tutti i lavori domestici avvenivano la mattina, fin dalle prime ore dell’alba perché il pomeriggio bisognava sedersi a cucire, rammendare e ricamare. Noi bambine dovevamo imparare queste arti, ma soprattutto avevamo il compito di tenere i grani del Rosario mentre le mani di mia nonna, mia madre e mia zia erano impegnate con ago e filo.
Nei lunghi pomeriggi estivi, mentre filtrava la luce dalle persiane socchiuse e già sentivo le mie amichette che organizzavano i loro giochi in strada, la lunghezza di quel ripetere: «Ave Maria…», mi sembrava veramente interminabile. Lucia, la mia cuginetta, mi faceva cenno di accelerare, ma lo sguardo severo di mamma mi faceva desistere. Così, tra preghiere e discussioni sui diritti dei lavoratori e rivendicazioni sociali, sono cresciuta.
Per un periodo ho creduto che fossero incompatibili. Ora non lo penso più.

lunedì 15 giugno 2009

13. Nel mio paese il banditore medioevale ha “strillato” nelle piazze gli eventi e l’arrivo dei vari mercanti fino alla metà degli anni ‘70


di Anna Maria Cenname

Il banditore durante il medioevo rendeva pubbliche le ordinanze delle autorità ai cittadini. Con il passare del tempo questa figura assunse una duplice valenza: se da un canto informava il popolo su quelle che erano le leggi da rispettare dall’altro propagandava le attività commerciali (antesignana delle attuali forme pubblicitarie).
Ricordo ancora il banditore del mio paese, Castelmauro, che al mattino annunciava, dopo uno squillo della sua trombetta, l’arrivo al mercatino coperto del paese del pescivendolo, del fruttivendolo, dell’arrotino o del venditore di vestiti.
Tommaso era un uomo smilzo, stempiato, ipovedente, e nonostante la cecità si muoveva autonomamente; conosceva tutte le insidie e i pericoli del suo percorso giornaliero. In paese lo chiamavano affettuosamente Tommasino lu banditaure. La sua maestria stava non solo nel modulare il tono di voce, ma anche nello scegliere il crocevia dove il richiamo, forte e chiaro, si propagava in modo uniforme così da non affaticare troppo le sue corde vocali.
Il compenso a volte consisteva in una sorte di baratto; il banditore esercitava la sua arte e il venditore lo pagava con la sua merce. Tommasino non è mai andato in pensione, ha continuato a dare voce alla sua trombetta fino agli ultimi giorni della sua vita intorno alla metà degli anni settanta.

lunedì 8 giugno 2009

12. Avete mai dormito su un materasso imbottito di foglie di granone?


di Lucia D’Alessandro
Una mattina incontro la mia amica Licia che non vedevo da parecchio tempo, mi chiede cosa faccio, come me la passo e intanto gli starnuti non mi danno il tempo di chiacchierare e di spiegare tutto quello che avrei voluto dirle; lei mi chiede se l'allergia è quella dei tempi passati e che ancora mi logora in questo periodo. Ebbene si, è sempre la stessa allergia alle graminacee, quella che ho beccato a Montorio nei Frentani tanti anni fa.
E la mia memoria va a quando, fresca di titolo di studio, sono stata inviata in quel paese vicino a Larino come “Istruttrice rurale". Il mio compito era quello di assistenza alle mogli e alle figlie dei contadini, sia a livello teorico che pratico per la campagna e la casa, ma soprattutto di dare un aiuto psicologico (parlo degli anni ‘60).
Vivevo a Campobasso e i collegamenti con Montorio erano pochi e difficoltosi: tante curve e strade bloccate per la neve d’inverno. Scelsi allora di non viaggiare e di prendere una camera in affitto in casa di nonna Marietta, una vecchietta che mi aveva preso in simpatia e mi colmava di attenzioni compatibilmente con le sue disponibilità. La mia stanza si trovava proprio sopra alla stalla della contadina e, per materasso, avevo quello imbottito di “fruscie di granone”, cioè la parte esterna del mais. Una tortura perché quando mi giravo nel letto, le foglie, strofinandosi, facevano molto rumore e mi svegliavano. Al mattino, per rifare il letto dovevo inserire le mani tra queste foglie, schiacciate dal mio corpo, per ridarle voluminosità.
Quasi tutti i contadini possedevano questo genere di materasso perché era molto più economico di quello di lana. Le pecore le allevavano, ma la preziosa lana che ne ricavavano serviva loro per realizzare vestiti e coperte e, quella che avanzava, la vendevano per poter racimolare qualche lira da destinare alle necessità più importanti. E io, intanto, ogni primavera, ricordo sempre il materasso di nonna Marietta!

domenica 7 giugno 2009

11. Come pungevano le maglie di lana di pecora!


di Mariolina Perpetua
Negli anni ’50 gli inverni furono lunghi e freddissimi. Nel ’54 e nel ’56 abbondantissime nevicate imbiancarono ripetutamente i paesi del Molise, impedendo la circolazione o rendendola difficoltosa. Cumuli di neve a lungo fiancheggiarono le strade, dopo il passaggio degli spazzaneve, lenti e pesanti. Il transito avveniva solo con catene e avventurarsi su uno spesso strato di ghiaccio fu consuetudine per molti giorni. Le precipitazioni furono tali che anche l’attività scolastica venne interrotta.
Il ricordo dell’infanzia è sempre dilatato, ma le nevicate di quegli anni sono proverbiali. Oggi, per le mutate condizioni atmosferiche, non si verifica niente di simile.

Ciò di cui vorrei parlare, però, non è tanto dell’inclemente stagione invernale, quanto del freddo che essa comportava e dei sistemi con cui si era soliti difendersi. La sensazione fastidiosa delle maglie di lana di pecora è ancora viva: la cardatura della lana, infatti, non era raffinata e le impurità diventavano, sulla pelle, piccolissimi aculei. La lana stessa con cui erano realizzate le maglie intime, le sottovesti e spesso anche le calze, era grezza. Solo ripetuti lavaggi rendevano quegli indumenti più sopportabili. Ogni cambio di maglia nuova, pulita, era una vera tragedia. Tuttavia, riuscivano allo scopo, quello di far fronte al freddo e all’umidità del mio paese Carpinone, sito in montagna (m. 657 l/m nel punto più basso - la stazione ferroviaria -) ed attraversato dal fiume Carpino.

La lana era lavorata nel mio stesso paese da un opificio a conduzione familiare, che provvedeva alla filatura della materia prima, alla cardatura, alla ritorcitura e alla confezionatura della lana appena tosata. La materia prima, sebbene in piccola percentuale, era fornita dagli stessi contadini che affiancavano al lavoro dei campi l’allevamento ovino. Risuonano ancora nelle orecchie il ticchettio della macchina e la spola che torna indietro. Qualche volta mi sono affacciata nel buio locale e ricordo di aver visto fusi di lana grigiastra, intrisa di olio. A lavoro concluso e prima della lavorazione, la lana, ridotta in matasse, veniva sciorinata al sole, dopo essere stata lavata e sbattuta sul greto del fiume.

Gli indumenti intimi erano, dunque questi, per tutti. Anzi, gli uomini indossavano lunghi mutandoni, sotto i pantaloni. Era facile, a quei tempi, vedere le donne sferruzzare sull’uscio di casa durante la buona stagione. Confezionavano gli indumenti di cui ho appena accennato, spesso disfacendoli per farne nuovi, adatti ai rampolli in crescita. La perizia era tale che le contadine, tornando dal lavoro dei campi, avevano tra le mani piccoli ferri, generalmente quattro, adatti soprattutto a realizzare calze; calze che duravano una vita, rattoppate, allungate, allargate.

Gli indumenti della mia famiglia, erano, invece, confezionati da brave magliaie. Solo negli anni di scuola media, potei indossare maglie di lana Borgosesia, sempre a manica lunga, rosa o beige, confortevoli, soffici, piacevoli al contatto della pelle. Piccoli aggiustamenti erano affidati a mia nonna, abbastanza capace di rifacimenti e rammendi. Col tempo, durante gli anni ’60, grazie anche al riscaldamento degli ambienti, gli indumenti divennero più leggeri, più eleganti e raffinati. Oggi, realizzati in tessuti sempre più nuovi e ricercati, non mancano di gusto e di raffinatezza.

lunedì 1 giugno 2009

10. Quando le sere d'inverno ci si riuniva nelle stalle...


Come si passavano, senza luce, le lunghe notti fredde e nebbiose nei paesini emiliani

di Barbara Bertolini

Tra i ricordi più gioiosi della mia infanzia vi sono le serate che trascorrevo nelle stalle insieme a tutto il vicinato: un mezzo, questo, per passare una sera al caldo e senza annoiarsi. Infatti, nel mio paesino medievale, non c’era energia elettrica e non poteva, quindi, esserci il riscaldamento.
Da novembre, quando la luce spariva sotto una fitta coltre di nebbia e la notte si faceva buia come la pece, davanti al camino, illuminati da una fioca luce proveniente da una lucerna, c’era ben poco da fare. E gli emiliani, gente allegra e socievole, avevano trovato un mezzo originale per trascorrere qualche ora in compagnia. Ci si riuniva nella stalla più grande della contrada. Ognuno portava la propria sedia e la propria lucerna. Gli uomini giocavano a carte, le donne chiacchieravano filando la lana, i giovani, sotto l’occhio vigile dei genitori, approfittavano di questa promiscuità per passare messaggi d’amore. Ma chi si divertiva di più eravamo noi bambini che, liberi come fringuelli saltavamo a perdifiato sul fieno, oppure ci rincorrevamo o giocavamo con le ombre prodotte dai lumi e, quando eravamo infine strafatti dalla stanchezza, ascoltavamo le favole che ci venivano narrate da una "zitella" che conosceva l’arte del racconto e ci faceva rimanere a bocca aperta parlandoci di orchi, lupi, streghe e castelli fatati.
Le mucche, felici di questa compagnia, con il loro fiato, riuscivano a riscaldare l’ambiente meglio di un calorifero. Il forte odore che proveniva da tutta questa umanità non disturbava più di tanto le narici dei presenti, avvezzi a ben altri effluvi.
Poi, a una certa ora, che non ricordo quale, qualcuno dava un segnale e, in pochi minuti, sparivamo tutti nelle nostre case, lasciando infine i ruminanti alla loro intimità. E noi bambini, ebbri di felicità, affrontavamo il gelo delle camere da letto e sprofondavamo immediatamente in un sonno ristoratore.
Nei ricordi di mia madre, 85enne, invece, la stalla, la sera, diventava un luogo di lavoro. Tutte le donne giovani e anziane, si mettevano con la rocca a filare la lana o la canapa. Dovevano aver fatto almeno due fusi a sera per poter andare a dormire. Ella dice che se un forestiero fosse capitato in una stalla all’ora di questi incontri, avrebbe pensato trovarsi in una fabbrica per il gran numero di donne concentrate nella filatura.



Per avere tuttavia un’idea di quest’ambiente, basta guardare il film “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, anche se io ho nella mente atmosfere meno cupe di quelle della pellicola olmiana.