sabato 12 settembre 2009

16. Quelle nostre estati degli anni '50


di Rita Frattolillo
(nella foto famiglia Frattolillo al mare, anno 1949)
Quest’estate in via di archiviazione mi sta regalando più di un pomeriggio vuoto che fa camminare più veloci certi pensieri.
Ogni tanto passa una voce registrata che reclamizza le griffe scontate nelle boutique del centro.
Sto al mare e, attraverso gli occhiali scuri, oltre le palme che ondeggiano e le file di ombrelloni azzurri, ne scorgo la superficie increspata dal vento di terra che soffia con forza.
Certi giorni lo sento particolarmente estraneo, questo Adriatico apparentemente calmo e gestibile, in realtà dall’umore variabile e un po’ traditore. Niente a che vedere con il “mio” Tirreno, quello della mia infanzia, delle favolose “villeggiature”, come le chiamavamo una volta.
Il Tirreno è un mare aperto, impetuoso, lo vedi subito come sarà la tua giornata. Quasi mai piatto come una tavola, ma cavalloni a volontà, in cui tuffarsi intrepidi e da cui emergere grondanti e storditi, ma pronti agli schiaffi fragorosi della prossima, furiosa ondata!
Sarà l’avanzare dell’età, ma sempre più spesso la mente scivola verso l’Amarcord, a quando noi bambine non stavamo più nella pelle, divorate da un’ansia crescente con l’avvicinarsi del giorno fatidico della partenza.

In realtà i miei genitori, una volta chiusi gli impegni scolastici, programmavano l’estate tra collina (“alle bambine così inappetenti l’aria farà bene e le rimetterà in carne”) e mare.
Ma per me e mia sorella Angela, di due anni più grande, il pensiero fisso erano quei giorni mitici che avremmo passato immerse nell’abbraccio liquido del mare. Per noi l’anno, tolto Natale e la Befana, si divideva in un prima e un dopo. Prima, erano settimane effervescenti, proiettate sulle nostre imprese future; dopo, una volta tornate a casa, riempivamo le nostre serate con i racconti esaltanti dei momenti vissuti, che si diradavano per poi scomparire, di pari passo con la nostra tintarella. Sta di fatto che dei nostri soggiorni collinari mi torna solo qualche frammento sfocato: la grande villa dall’orto incolto, in cui convivevano confusamente alberi da frutta, vegetazione spontanea, fiori. Villa e orto, alle porte del paese, Caserta Vecchia, erano teatro delle nostre bravate: l’orto un bosco dove nascondersi, e le stanze, infilate l’una nell’altra, un labirinto dove le voci rimbalzavano prima di affondare nell’imbottitura dei divani. Lì andavamo a caccia di attrezzi da adattare per il prossimo gioco, incuranti dello sguardo severo che ci indirizzavano i personaggi ritratti alle pareti. Ricordo le ricottine nel cestino intrecciato che la contadina ci consegnava la mattina; e i concerti serali all’aperto, nella piazza del borgo medievale dominata da un torrione grigio e imponente nel mio ricordo…

Ma per Angela e me, Caserta Vecchia era una tappa obbligata per poter accedere al nostro paradiso, pur se, la nascita, a distanza ravvicinata, delle altre due sorelle, ci impedì per più di un’estate di proseguire fino alla nostra “vera” meta estiva.
Niente tuffi, niente lotte con i cavalloni, allora, ma solo giochi nel giardino incantato della villa, e i concerti, ai quali regolarmente mi addormentavo, spossata dal troppo correre e saltare.
Un mese era lungo da passare, e i giocattoli scarseggiavano, così bisognava aguzzare l’ingegno e mettere a punto nuovi giochi, che chiamavano a raccolta anche le bimbette del vicinato. Quelli più scatenati li facevamo di pomeriggio, quando potevamo finalmente sfuggire alla sorveglianza dei miei genitori, che, sopraffatti dalla cura di ben quattro mocciose, si concedevano la meritata pennichella .

Non è che mancassero i momenti di tregua; uno era colmato dal cinema…fatto in casa. Credo che molti miei coetanei sappiano di che parlo: dopo aver incollato pagina a pagina un fumetto (di quelli a striscia stretta e lunga), avvolgevamo le due estremità a delle cannucce. Uno scatolo di scarpe dal fondo accuratamente ritagliato quel tanto che bastava, faceva da cornice alla “pellicola”, che girava manovrata da me o da mia sorella, mentre le piccole spettatrici, sedute in circolo per terra, seguivano la contrastata (lo è sempre) storia d’amore tra un principe indiano ( di cui non ricordo il nome, ma l’esclamazione “Per la Trimurti!”) e la bella maharani.
Dopo varie puntate a Sorrento e dintorni, la preferenza cadde, per via delle Terme, su Castellammare di Stabia, l’antica città offesa, con Pompei ed Ercolano, dalla furia devastatrice del Vesuvio nel 79 d. C.

Sono nata nel 1945, e, per quel che ricordo, posso dire che, finita la guerra e preso atto della drammatica realtà, la gente si rimboccò le maniche e si industriò per raggranellare qualche soldo.
A Castellammare fervevano le attività e piccoli commerci; il monte Faito (“Faggeto”) elargiva da sempre tante varietà di acque che avevano reso famose e frequentate le Terme, sbocco occupazionale “naturale” degli stabiani; poi c’erano i cantieri navali, il cementificio di Pozzano, di cui ricordo ancora lo stridio durante la macinazione, che sputava nell’aria un finissimo velo di polvere bianca che si attaccava tenace ovunque .
Chi non aveva lavoro, se lo inventava, mettendo a frutto la propria competenza, o, in alternativa, subaffittando la propria abitazione ai villeggianti.
In tutto il centro città un solo albergo, il Montil, più tardi dotato anche di cinema (un vero lusso!), inavvicinabile per stipendi di insegnanti statali…
Così, alloggiavamo in un appartamento dove la padrona o chi per essa – erano i patti – passava ogni mattina a preparare la colazione e riordinare.

Una volta scesi dal treno, si proseguiva fino alla destinazione in carrozzella, armi e bagagli. Niente autobus, e macchine rare come mosche bianche. Al trotto, con lo schiocco della frusta nelle orecchie, costeggiavamo buon tratto di lungomare, abbagliate dal pittoresco display che ci si apriva davanti. Alla nostra sinistra scorrevano le facciate degli alti condomini; sbiadite e scalcinate che fossero, la nostra gioia era tale che tutto ci sembrava bello e unico. A destra il respiro del mare scintillante al sole. L’animazione della città con le sue mille facce ci veniva incontro. Gente sciamava dai sopportici invadendo un groviglio di vicoli colorati e affollati come suk in un flusso perpetuo. Ambulanti spingevano carretti carichi di costumi da bagno americani (usati?) a buon mercato; qualcuno strillava « E’ m’lùun’é fuòok’ » davanti ad una enorme piramide di cocomeri dalla scorza scurissima; donnone sedute comodamente davanti alle porte aperte dei bassi pulivano verdure da vendere; un altro friggeva crocchette (é panzaròtt’); più avanti, alla Fonte acqua della Madonna (con cui impastavano i biscotti a forma di grissino di cui andavamo ghiotte) scugnizzi scalzi, destreggiandosi sulle chiare mattonelle scivolose, riempivano fiaschi e brocche in cambio di qualche moneta; pescatori, appoggiati alle barche tirate sull’arenile, rammendavano le reti.
Tra una piega di lenzuolo o mentre l’orzo (meglio dire “cioféka”, dal momento che la stessa miscela veniva riciclata senza pietà) sgocciolava nella napoletana, Carmela, figlia adolescente della padrona di casa, a cui un fisico assai lontano dalle pin up e baffi già da corsara non impedivano di passare da un Catello all’altro (Catello sta a Castellammare come Gennaro sta a Napoli), Carmela, dicevo, trovava il tempo di aggiornarci sui suoi spasimanti, intercalando i particolari succulenti con «Mamm’ ro’ Càrm’n’!» esclamazione che le fece guadagnare il soprannome che le appioppammo.
Aiutandola nelle faccende, seguivamo trasognate le sue affabulazioni e le sue evoluzioni da una camera all’altra, poi, di corsa alla villa comunale, trascinando le piccole Rosa e Maria, che ci trotterellavano dietro a fatica. In villa troneggiava l’artistica Cassa armonica, che, con la sua orchestra, la sera attirava soprattutto dame tintinnanti di gioielli che si sventagliavano placidamente.
Dalla villa comunale si scendeva ai Bagni.

I Lidi degli anni ’50 avevano poco in comune con quelli a cui ci siamo abituati in seguito. Niente bar, piscine, trampolini o campi da minigolf, come al Kursaal di Ostia, che frequentammo dopo il nostro trasferimento a Roma. Niente acqua-gym, animatori e balli all’ombra dei gazebo. Allora, solo l’indispensabile, ma per noi era l’eden, anche se nello stile un po’ descamisado della fauna più o meno ruspante che ritagliava il territorio. Piccole come eravamo, respiravamo la vita senza mediazioni né filtri, svincolate da qualsivoglia cronologia, e tuttavia percepivo il fermento forte che si respirava dopo la proclamazione della Repubblica. A Castellammare il clima politico era caliente con tendenza al rosso acceso, si cercava lo scontro e si veniva facilmente alle mani.
I miei andavano presto alle Terme per poterci raggiungere ai Bagni Elena. Capitò un giorno che mentre mio padre leggeva il suo giornale sotto l’ombrellone, venne provocato da un vicino che, dopo aver sogguardato con intenzione il quotidiano, se ne uscì con un commento offensivo su tale on. democristiano. Mio padre, che non era tipo da passarci sopra e ha sempre difeso i propri convincimenti, rispose a tono dando la stura ad un alterco che sarebbe diventato violento senza l’intervento pacificatore delle rispettive mogli.

Fortunatamente bastava un tuffo per sciogliere ogni apprensione, e le giornate, scandite dall’urlo prolungato della sirena dei cantieri, passavano sempre troppo in fretta, a colpi di sfide acquatiche lanciate dai giovanissimi - ma già navigati - stabiani, a cui non sfuggivano i … visi pallidi.
In verità Angela, biondissima e riccioluta, attirava invariabilmente uno stuolo di piccoli ammiratori, che cercavano di impressionarla con mille acrobazie. Uno, in particolare, biondo, occhi smeraldini che spiccavano nella tintarella, si era promosso nostro paladino, bandendo senza cerimonie la ciurma dei…molestatori.
Poteva far comodo: uno dei primi costumi di cui ho memoria - ebbe vita breve ma è stato immortalato in una foto - era uno slip di cotone stampato a barchette che, una volta inzuppato, tendeva a calare, sicché lo dovevo trattenere mentre cercavo di tenermi a galla in un’acqua subito alta. Fu prontamente sostituito, anche perché la mia disperata manovra non era sfuggita ad una banda di scugnizzi che, guizzando sott’acqua, facevano accrescere la mia ansia. Sostituito con uno intero, di taffeta verde, di quelli con la pattina, come era la moda. Più tardi, compariranno i costumi da bagno di…lana. Il mio era blu e fece la fine di quello a barchette, e per lo stesso motivo.
In seguito, diminuì il numero dei giovani che, avendo ceduto il letto ai villeggianti, la mattina si trascinavano con l’asciugamano fino all’ombra di una cabina, per poter finalmente dormire, dopo l’ennesima nottata passata in bianco allungati sul balcone di casa. Fecero la loro apparizione gli abbronzanti (ricordate la bimba del cartellone Coppertone?), e le rotonde con il jukebox. Grande fu il nostro stupore davanti alle coppiette che verso l’imbrunire si muovevano strette su una musica lenta. Da allora, la musica inondò l’aria, facendo da colonna sonora alle nostre esistenze.

Una delle ultime volte a Castellammare, la nostra padrona di casa sfoggiava per orecchini delle monete d’oro che trovai di dubbio gusto, ma che erano indizio certo di un raggiunto benessere.
Di lì a poco sarebbe esploso il boom economico; si profilava la mutazione genetica, la trasformazione irreversibile di cui continuiamo ad essere comparse e testimoni impotenti. Anche la terminologia, come tutto il resto, si rinnovava, e la parola “villeggiatura”, dopo decenni di onorato servizio, cedeva davanti ai rampanti “vacanza” e “ferie”, chiaro segnale di un diverso stile di vita.

1 commento:

Anonimo ha detto...

La classe operaia (che non va in paradiso) direbbe che queste sono state vacanze "borghesi". Noi, non si andava da nessuna parte se non a festeggiare qualche sagra dei paesi vicini. Si retava al paese a dar na mano ai nostri genitori! Antonio