mercoledì 27 maggio 2009

9. Quando le maestre dovevano raggiungere la scuola a piedi....




Il caval di S. Francesco di Mariolina Perpetua

Altri tempi! Altri tempi evocano ricordi, situazioni, oggetti… Ricordi, soprattutto.. Un nodo mi stringe la gola. Non ci saranno più l’infanzia dei miei figli, mai abbastanza vissuta, o l’attesa per un ritorno tanto desiderato; non torneranno le feste in famiglia tra il fragore dei bimbi e con tanta gioia di essere insieme; non ci saranno più il sorriso incoraggiante di mia madre, la tranquilla serenità di mio padre.
Altri tempi!
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Il ricordo più vivo e più forte è legato alla mia infanzia, alle attese che dividevo con mia sorella Margherita, di 5 anni più piccola di me, per il ritorno di mia madre da scuola.
Mia madre, infatti, insegnava a Casale di Castelpetroso, paese distante dal mio, Carpinone, cinque o sei chilometri. La sede scolastica era più a valle e un po’ più vicina, a tre chilometri e mezzo. Tutte le mattine ella usciva di casa di buon’ora, non più tardi delle sei, e raggiungeva la periferia con la speranza di poter salire sul pullman di linea, unico, che proveniva da Agnone e proseguiva per Campobasso. –
Negli anni ’50 era quella la sola strada possibile per i paesi dell’Alto Molise che dovevano raggiungere il Capoluogo. - Mia madre, il più delle volte, aspettava inutilmente. Il pullman, troppo carico di passeggeri e di masserizie, non sarebbe ripartito se si fosse fermato: dopo il Ponte Nuovo, doveva affrontare la salita verso Castelpetroso per riscendere dall’altro versante e proseguire per Campobasso. Molto improbabile raggiungere la scuola con il mezzo pubblico quando nevicava. Tra l’altro, la fermata per andare a Casale di Castelpetroso era egualmente in salita. Per farla breve, soprattutto d’inverno, mia madre segnava i primi passi sulla coltre bianca che ricopriva indistintamente strada e campi, su cui si intravedevano solo tracce di animali.
Ricordo, proprio in quegli anni, abbondanti nevicate ed un freddo intenso. Mia madre percorreva prima la provinciale, poi il sentiero campestre che si inerpicava fino al casolare. Spesso le era stato riferito dell’avvistamento di lupi ed invitata a fermarsi dalle persone, divenute ormai familiari, che le offrivano affettuosa ospitalità ed un locale, adibito ad aula.
Lei tornava a casa tutti i giorni, con ogni tempo ed in ogni stagione. Se d’inverno, i disagi erano tanti, con l’avanzare del caldo non erano inferiori. Facilmente sul guado del ruscello, a valle della frazione, obbligata a superare, si mimetizzavano bisce o vipere e bisognava essere lesti a schivarle e sorpassarle.

Mia sorella ed io eravamo ad aspettarla, alla nostra “postazione”: il balcone di casa; mia sorella si disponeva lì, anche con i suoi giochi, fin dalle prime ore del mattino; io, appena tornavo da scuola. Con qualsiasi situazione meteorologica. Due ombrellini beige, regalo della befana, con il manico che si concludeva con una testina di pulcino, ci riparavano dalle intemperie o dal sole e quando mia madre spuntava dalla curva, in fondo alla strada, le correvamo incontro all’impazzata per buttarci tra le sue braccia.

Di quei momenti rimane un ricordo dolce e struggente. L’esperienza di mia madre è certamente anacronistica. Oggi nessun insegnante raggiunge più la sede di lavoro a piedi, ovvero, con il “caval di San Francesco”, come, appunto, era solita dire mia madre.

domenica 24 maggio 2009

8. Il mio arrivo a Tripoli nel 1935


Rita Colletti, nata nel 1921, al suo arrivo in Libia, quando Italo Balbo era governatore di quella colonia italiana, aveva solo 14 anni. Vi ha fatto tutti i suoi studi ed un’esperienza da insegnante prima di ritornare in Italia. Verso il finire della sua esistenza ha voluto raccogliere i ricordi di quegli avvenimenti che hanno marcato profondamente la sua vita. Questa descrizione poetica del giorno del suo arrivo a Tripoli è una pagina dei suoi diari:

TRAMONTI LONTANI

Il rullio della nave che avanzava, si trasformò a poco a poco in un soddisfatto sospiro; ormai Tripoli era là, si distendeva davanti a noi come una lunga striscia verde sul mare azzurro scuro circondata dalla sabbia gialla del deserto sconfinato.
Il sole che tramontava di faccia a noi, filtrando tra le palme e i minareti, ci permetteva di scorgere le case bianche e solide affondate nel verde.
Quando la nave entrò nel porto, fummo avvolti in un caldissimo abbraccio da un’aria infinitamente dolce e toccammo il suolo africano tante volte sognato: il cuore gonfio di una gioia meravigliosa, indagatrice, attenta e interessata.
Era l’ora del tramonto: momento di stupore, di serena fiducia nella Natura e nel suo Creatore, al quale l'uomo stanco si affida come nell’unico porto tranquillo!
Uomini e cose, quella sera, palme, minareti, giardini, cammelli, barracani e tachie vivevano avvolti nello stimolante profumo degli oleandri.
Questo profumo mi ha poi sempre riportato, quasi come un tormento accettato e atteso, a tante ore lontanissime e tante sensazioni indistruttibili.
Non c’erano rondini nel cielo, sarebbero apparse in inverno, a luglio solamente sciami di passeri festeggiano la sera esaltandosi in cinguettii sfrenati ed interminabili: dice bene Leopardi: sono naturalmente gli uccelli le più liete creature dell’universo!
Un altro ricordo libico mi perseguita con martellante rimpianto: quelli di un momento che anni dopo, già liceale vissi a Sabratha, nel teatro romano, dove accanto a mio padre assistevo all’ “Edipo re”, dato in onore del sovrano che veniva dall’Italia. Alla fine della tragedia, mentre sull’immenso palcoscenico deserto si ergeva solenne la figura tragica del vecchio re cieco, che, sostenuto dalla figlia imprecava contro la sorte terribile impostagli dal fato, nel fondo del proscenio un’altissima porta si spalancò ed apparve il mare azzurro e calmo, indifferente all’umano dolore, inghirlandato dai voli dei gabbiani festanti mentre tutto il teatro con la sua dolente umanità era avvolto da una dolce aria impregnata dal profumo delle rose e degli oleandri.
Pochi giorni dopo Dante mi avrebbe suggerito il termine esatto per esternare quell’emozione: trasumanare. Sì, io quella sera a Sabratha mi sentii “trasumanare”.

sabato 16 maggio 2009

7. La Libia con le sue città antiche, è stata il mio paese fino al 1970


Sabratha, Leptis Magna, Nalut, antiche città che ho avuto la fortuna di visitare prima di andarmene dalla Libia

di Maria GENTA


Il castello di Tripoli era visitabile solo in parte e all'esterno, ma io ebbi la fortuna insperata di conoscere il direttore delle antichità della Libia (era allora un professore italiano che veniva dall'Università di Perugia) che vi abitava con la moglie ed una figlioletta. Per alcuni mesi andavo al castello per aiutare la signora che preparava la sua tesi di laurea sulle iscrizioni romane dei monumenti delle antiche città di Sabratha e Leptis Magna.
Due città romane stupende, che sono sempre state le mete di tante gite : Sabratha, a circa 80 km da Tripoli, e Leptis Magna a circa 200 km.
A Sabratha, il magnifico teatro veniva utilizzato in estate per rappresentazioni di tragedie greche : fu lì che conobbi, o meglio, che vidi per la prima volta e dal vivo Vittorio Gassman.. Era un attore bravissimo ed era diventato per me quasi un eroe , ma grande fu invece la mia delusione quando, venuta in Italia , lo vidi protagonista di alcuni film : per me aveva perso tutto il suo charme.
Oltre al mare, c'era naturalmente il deserto, che ha un suo fascino molto particolare e, come il mare, poteva diventare pericoloso con le sue tempeste di sabbia. Ho un bel ricordo di una gita all'interno del paese. Con alcuni amici si voleva andare a Nalut, dove dicevano esservi resti interessanti di abitazioni troglodite. Si era con una vettura normale, niente fuoristrada, e rischiammo anche di perderci : ogni tanto si incontravano le piste che conducevano a dei campi petroliferi, poi una barriera di rocce rosse, come una falaise, ma infine arrivammo a Nalut, un paese quasi in montagna. Niente alberi, tutto brullo. Era sera, avevamo fame ed eravamo stanchi. C'era una specie di alberghetto, dove ci offrirono un po‘ di pane e delle uova. C'erano solo brande per dormire, ma poco importava.
Prima dell'alba ero già in piedi e, seduta davanti alla porta del nostro ricovero, assistetti ad uno degli spettacoli più belli che io ricordi: il sorgere del sole dietro a quelle pareti quasi verticali, con i fori delle entrate di quelle che erano state abitazioni o magazzini di riserve di cibo di popoli antichi, il tutto avvolto in una leggerissima coltre di nebbia, quasi iridescente . Del rientro in città non ricordo nulla: quello spettacolo naturale aveva messo tutto il resto in ombra.
Durante un'altra gita verso l'interno, in una sosta, seduta su un muricciolo ai bordi della strada, casualmente, smuovendo la sabbia che copriva il muretto, si scoprì che c'era sotto un mosaico. Non toccammo nulla, anzi lo ricoprimmo prima di andarcene, ma fu ugualmente una bella esperienza.

La Libia è stato il mio paese, ma tutto è cambiato dopo re Idriss
Quello è stato il mio paese: so che ora tutto è cambiato, ma sono contenta di aver potuto viverci in quei momenti quando il mondo era più tranquillo e non c'erano rivalità religiose: a Tripoli convivevano tranquillamente le tre religioni : musulmana, cristiana ed ebraica. Poi, purtroppo, tutto mutò. In Libia c'era la monarchia, ma re Idriss , in seguito ad un colpo di stato militare, fu mandato in esilio, e subentrò Gheddafi. Una cosa buona fu, che, almeno, non ci fu spargimento di sangue.
Però la politica cambiò completamente e tutti gli stranieri vennero espulsi , fra cui gli americani, che avevano una base militare alla Mellaha, a pochi chilometri dalla città, e poi gli italiani, che vennero cacciati dalla Libia sequestrando tutti i loro averi mobili e immobili senza nulla in cambio.

Per noi italiani, che lì eravamo nati e cresciuti, dove avevamo vissuto tutta la nostra vita, fu naturalmente uno shock terribile. Arrivando in Italia, eravamo degli stranieri in terra quasi straniera. Fu dura, ma ce l'abbiamo fatta a costruirci il nostro angolino nel nuovo mondo : l'Italia è la nostra patria.

lunedì 11 maggio 2009

6. La mia vita a Tripoli fino al colpo di Stato di Gheddafi




Maria Genta, nata a Tripoli quando la Libia era una colonia italiana, ha affidato a questo blog la sua interessante storia.
Ma per capirla, è importante accennare brevemente alla storia della Libia dal 1911 al 1970:

Conquistata la Libia con la guerra italo-turca (1911-1912), ci vollero, all’Italia, però, quasi vent’anni di guerriglia con una popolazione soprattutto berbera, molto determinata, prima di colonizzare il paese. Nel periodo fascista l’Italia porta in Libia un intenso sviluppo infrastrutturale con l’intento di far venire coloni dall’Italia. La seconda guerra mondiale, tuttavia, mette fine all’occupazione italiana. La Libia, infatti, presa dagli alleati nel 1943 sarà dichiarata indipendente nel 1951. Da quel momento diverrà una monarchia sotto re Idriss I.
Un colpo di Stato, tentato da giovani ufficiali dell’esercito approfittando di un’assenza di re Idriss, malato e senza eredi, partito fuori dal paese per curarsi, porterà Gheddafi al potere nel 1969. L’anno dopo Gheddafi nazionalizzerà tutte le industrie e espellerà gli stranieri dalla Libia, confiscando i loro beni: dovranno lasciare il paese portando solo poche valigie di tutti i loro averi e gli sarà vietato il rientro in terra libica.

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Maria ha detto di aver rimosso dalla sua memoria tutti i ricordi dolorosi della sua giovinezza. Ecco perché la sua avvincente storia, che ho suddiviso in vari capitoli, è priva di qualsiasi critica.


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Racconta Maria Genta:


Sopra questo mio scritto, c' e' una veduta dal mare del castello di Tripoli, città dove io sono nata alla fine degli anni '30.
Quando io studiavo l'arabo, a scuola, i libici la chiamavano "Tripoli d'occidente", infatti esiste un'altra "Tripoli", più ad est, in Libano.
I miei genitori erano italiani, naturalmente: mio padre, un ex carabiniere, dovette lasciare l'arma per sposarsi (all'epoca, mi dicevano, i carabinieri non potevano sposarsi prima dei 30 anni).
Subentrata la guerra, mia madre con noi quattro figli venimmo in Italia e ci stabilimmo sulle montagne bolognesi, a Lizzano in Belvedere.
Finita la guerra, nel febbraio 1947, facemmo ritorno in nave a Tripoli, dove invece era rimasto mio padre, che lavorava al Comune.
Il mio primo ricordo su Tripoli fu il gran caldo che trovammo all'arrivo. Anche negli anni successivi capitavano delle giornate caldissime, anche in febbraio: era il vento del deserto, il ghibli, che generalmente soffiava dai tre ai nove giorni consecutivi.
Frequentammo le scuole elementari presso un istituto statale gestito da suore , ed io ne ho un ricorso molto bello. La mia insegnante è sempre stata la stessa, dalla seconda alla quinta classe, una signora già anziana ma con un gran cuore. Avevamo anche un insegnante di arabo, anche lui abbastanza anziano ( ma agli occhi di una bambina tutti gli adulti sono anziani). Anche lui una persona bravissima : ricordo gli scherzi che gli facevamo, e lui non si inquietava mai . Il suo era il classico abbigliamento arabo, con un barracano di lana bianca, avvolto intorno al corpo e che lo ricopriva tutto (il barracano è una specie di coperta, quasi sempre di lana, che serviva per ripararsi sia dal caldo che dal vento di sabbia, e dal freddo, e che mettevano sopra un abbigliamento abbastanza leggero composto da pantaloni molto larghi, una camicia con gilé ). Noi bambini non riuscivamo a capire come la lana potesse proteggerli dal caldo : più avanti ci si rese conto che era vero.
La mia famiglia ha sempre abitato a Tripoli, ma c'erano moltissimi italiani che vivevano nei villaggi costruiti dall'Italia prima della guerra per i coloni, in maggioranza veneti, o siciliani. Allora non esisteva il campanilismo, eravamo tutti italiani e basta, e molto uniti.
Noi si abitava in una villetta vicino all'ospedale, in un quartiere detto "città giardino" e con molte stradine non asfaltate: quando c'era il ghibli, nessuna porta e finestra chiusa riusciva a tenere al di fuori la sabbia, che si posava su tutto; polverina chiara granulosa che si infiltrava dovunque. Avevamo come vicini diverse famiglie libiche, ancor più poveri di noi, perché noi, almeno, avevamo l'acqua corrente in casa. I bambini venivano sempre a chiederci l'acqua e talvolta si giocava insieme.
Ma la povertà all'epoca, era diversa da quella di adesso: non si aveva quasi nulla: io ricordo periodi di mesi in cui si mangiavano sempre fagiuoli e datteri pressati, ma ,almeno a noi bambini, la cosa pesava poco. Il pane c'era. Più grande. Ricordo che la nostra merenda era un panino di pane nero farcito di tonno e peperoncino piccante, il cui gusto non sono più riuscita a trovare.
Sulla strada principale che portava all'ospedale, c'erano alcuni negozietti tenuti da libici. Erano sempre aperti, di giorno e di notte. Avevano pochissimi articoli : pane, tonno, olio. spezie, carbone, qualche verdura, qualche bibita, qualche quaderno, qualche matita : i proprietari erano sempre disponibili, sorridenti, pronti ad aiutarci e, talvolta, anche a farci credito. Specialmente durante il mese del Ramadan (il mese della penitenza), di notte c'era più vita che di giorno, e tutti i negozi erano aperti. C'era un affiatamento incredibile e anche noi potevamo partecipare ai loro pasti notturni (la religione proibisce loro , in quel mese , di mangiare, bere, fumare, ecc.. durante il giorno): tutte le notti allora si illuminavamo e si trasformavano in feste, con poche cose, ma sempre molto allegre e piene di chiacchiere e animazione.



Com’era bella la mia Tripoli prima del colpo di stato !
La città, su un mare stupendo, pulito e limpido, aveva un lungomare di qualche chilometro: forse non era vero, ma quando io visitai per la prima volta Nizza, con la sua famosissima "promenade" , dissi che il lungomare di Tripoli era molto più bello di quello di Nizza, e lo penso ancora, almeno per quanto resta nei miei ricordi.
Il mare: ecco cosa soprattutto mi rimane nel cuore della mia città natale !
Dal primo anno si cominciò ad andare alla spiaggia da giugno a settembre (per il caldo, le scuole terminavano a maggio e riaprivano in ottobre).
Prima al Lido di Tripoli, spiaggia molto lunga con sabbia quasi bianca, poi, più grandi, si frequentavano i "Bagni sulfurei". Era una spiaggia alla foce di un Uadi (torrente), sulle cui sponde del letto asciutto erano piazzate le cabine. Qualche anno, a fine estate, capitavano le piogge, ed allora l'Uadi irrompeva lungo il suo letto fino al mare, facendo diventare l'acqua come un'immensa strada giallastra che si apriva una via nel mare, per chilometri. Il nome gli veniva per via di una sorgente solforosa che sgorgava proprio vicino al mare, e che era alla portata di tutti: forse ora sarà stata commercializzata.
Si stava al mare per giornate intere: la pesca subacquea non mi è mai piaciuta, ma andavo in giro lungo la costa rocciosa con pinne e maschera per godermi lo spettacolo marino. La pesca in mare , allora, era poco sfruttata, e capitava spesso di nuotare in mezzo a branchi di pesciolini di colori diversi. Notai anche che i pesci più grossi non scappavano alla mia vicinanza, ma sparivano immediatamente appena si avvicinava un nuotatore con il fucile. L'unica pesca che imparai a fare fu quella dei ricci. Li riconoscevo dal loro colore: rosso, violetto, marrone, verde e nero, ed imparai anche a mangiarli, seduta sulle rocce, con un po’ di limone: una squisitezza !
Le scuole erano italiane: elementari, medie inferiori, liceo classico e scientifico, magistrali, ragioneria, geometri, più scuole artigianali. Non ricordo ci fossero studenti libici. Generalmente ci si fermava ai 18 anni. Non molti avrebbero potuto, infatti, pagarsi l'università in Italia.
C'era una scuola artigianale libica, la "scuola arti e mestieri" dove venivano insegnati tutti i mestieri manuali: stupende erano le lavorazioni di intaglio ed intarsio su argento ed ottone, e molti dei loro lavori venivano ammirati nei "suk" (mercati). Come in tutte le città arabe, ogni suk vendeva solo un tipo di merce: abbigliamento, tappeti, ferro battuto, gioielli, vasi e piatti in metallo, finemente lavorati. A Tripoli, si accedeva ai suk da piazza Castello, suk el Muscir, ecc. Era molto eccitante e piacevole girovagare nelle stradine piene di rumori e di vita.

mercoledì 6 maggio 2009

5. Ecco come nel passato si lucidavano e si rendevano idrorepellenti le “preziosissime” scarpe

Ce lo racconta Anna Maria Cenname
Le scarpe, durante il periodo della Grande Guerra e anche precedentemente, erano considerate un bene di lusso, quindi dovevano essere indossate solo per le grandi occasioni: Natale, Pasqua, Feste patronali e per i matrimoni. A volte venivano anche date in prestito ad amici o parenti. Per la loro pulizia e per evitare che l’acqua o la neve potesse rovinarle e per renderle lucide i nostri antenati adottarono un metodo molto semplice, poco costoso e idrorepellente. Bastava battere ben bene del grasso e aggiungerci della fuliggine (che si formava sempre a causa della legna della stufa) grattata dal tegame che si usava per scaldare l’acqua. Quando il tutto si era amalgamato si facevano delle palline che servivano per essere passate sulle scarpe.