Ogni paese ha sempre avuto il suo
personaggio eccentrico, sopra le righe e, talvolta, proprio matto. Una persona
che tutti conoscevano, evitavano o aiutavano a seconda della sua personalità. Anche attraverso
questo racconto si intravvede la vita paesana del tempo che fu. La storia del pazzo, che ci racconta lo scrittore Vincenzo Rossi, si è svolta nel periodo
fascista a Cerro al Volturno (nella foto), in
provincia di Isernia, ed è davvero inconsueta: ogni notte egli svegliava i
paesani facendo un fracasso infernale, fino a quando…
Lorenzaccio, il pazzo di Cerro al Volturno di Vincenzo Rossi
Di solito, tra l’una e le tre di
notte, Lorenzaccio il Pazzo, svegliatosi nel suo pagliaio di Cincinuso, veniva a scuotere il paese
con i suoi colpi di martello. Alla Pianuzza
indossava l’armatura, conservata in una grotta: infilava la testa in un secchio
al quale aveva attaccato quattro corna di bue, due davanti e due dietro, si
legava intorno al corpo due lastre di zinco, una avanti e una dietro, tenute da
fili di ferro alle spalle e ai fianchi; s’infilava nelle narici due lunghe
penne di tacchino; impugnava un grosso martello di legno e raggiungeva in
silenzio le prime case. Qui attaccava a battere se stesso e quanti oggetti
riteneva potessero rispondere al suo musicale desiderio: canaloni, ringhiere,
pali, tubature, ecc. Le prime notti che scoppiò quel fracasso, molti si alzarono, scesero a osservare la fonte
dell’indesiderata orchestra, lo minacciarono, gli fecero promesse, ma nessuno
riuscì a convincerlo di smetterla. Puntualmente nel cuore della notte riappariva,
percorrendo il paese due volte, in
salita e in discesa. A poco a poco le orecchie si assuefecero e c’era chi non
avvertiva neppure l’arrivo di Lorenzaccio, che con i colpi faceva tremare tutte
le ringhiere alle quali giungeva il suo martello. Io ne sentivo l’arrivo ai
piedi del paese dal pagliaio di Arcangiancalla, o dalle Aie.
Si arrestava presso i rifiuti nei quali rovistava come un cane, trovando sempre qualcosa che gli appagasse lo stomaco o il cervello. Soltanto io e i cani non smettemmo, fino a quando fu ucciso, di rivolgergli l’attenzione.
Si arrestava presso i rifiuti nei quali rovistava come un cane, trovando sempre qualcosa che gli appagasse lo stomaco o il cervello. Soltanto io e i cani non smettemmo, fino a quando fu ucciso, di rivolgergli l’attenzione.
I cani non gli si avventarono mai
contro, neppure i più cattivi, lo considerarono un motivo di svago e d’impegno.
Già alle prime battute ce n’erano che
accorrevano a fargli compagnia, sia che marciasse a colpi di fanfara, sia che
si fermasse a cercare nei rifiuti e ce n’erano che si fermavano a uggiolare
davanti alle rimesse, eccitati da quella musica strana e potente.
Nei pressi del mio pagliaio c’era
una collinetta dalla quale potevo dominare tutto il paese: e lì mi godevo
quell’avanzare orgoglioso di sonagliere delle prime case fino alle Cannetera, accompagnato da latrati di
ogni specie. Ascoltavo quella musica strana salire nelle morbidezze della
notte, frantumare in mille pezzi il silenzio delle finestre luccicanti al cielo
lunare. A volte Lorenzaccio si arrestava un attimo ad ascoltare se stesso e i
cani: allora tacevano anche questi e il paese recuperava miracolosamente le
dimensioni della tranquillità notturna,
il respiro lento del sonno, il giacere immobile sotto il mio sguardo e
sotto l’orecchio del mistero, anch’esso in attesa del riaccendersi della strana
armonia. Riprendeva e raggiungeva una ringhiera e vi dava col martello e a quei
colpi secchi e potenti si risvegliava l’armonia dei cani.
Al rifugio del Costacchio si arrestava ancora: era
l’ultima sosta prima della fonte. Allora io mi andavo ad appostare nelle
ginestre, a circa venti metri dal pietrone. Lorenzaccio e i cani, usciti dal
paese, smettevano la fanfara e marciavano in silenzio.Vedevo arrivare prima i
cani con un palmo di lingua penzoloni e un ansare che superava il cadere
dell’acqua; poi, a brevissimo intervallo, si annunciavano le sonagliere del
Pazzo che scricchiolavano al suo passo rabbioso. Spuntava alla curva col
secchio incornato sulla testa, dritta ed orgogliosa, e con un’infinità di
oggetti appesi ai buchi delle lamiere, battendo il maglio sulla terra dura
della via. Per la mia fantasia di allora, quel mostro raccoglieva in sé tutti i
poteri di Dio e del Diavolo.
Quando lui giungeva alla fonte, i
cani si erano già accovacciati nello spiazzo, in totale tranquillità: quel
battere di lamiere e sonagliere li aveva resi docili, affratellati, non si
minacciavano mai, li vedevo leccarsi e saltarsi addosso in allegria. Appena giunto,
Lorenzaccio dava un colpo alla pietra, ne ascoltava il rumore diffondersi
nell’interno della vasca, gettava il mantello, si liberava del secchio, al
quale aveva fatto due fori in direzione degli occhi, lo poneva con cura sulla
pietra e si slacciava le lamiere, cercando di non produrre rumore.
Appoggiate le lamiere ai muretti,
si dissetava con un inghiottire simile a quello di un bue. Poi, in piedi, in
mezzo ai cani che gli giravano intorno, allontanava dal suo corpo,
immalinconito dal cattivo nutrimento e dal rigore delle marce notturne, i
brandelli di panni e s’immergeva nell’abbeveratoio: vi si sciacquava per una
ventina di minuti e riemergeva, stendendosi sulla pietra, luccicante alla luna.
Lì i cani gli andavano a leccare l’acqua dal corpo.
Con essi in quel momento doveva
avere un intenso rapporto, perché alle leccate si eccitava, sbuffava come un
bufalo, zampeggiava selvaggiamente e giaceva immobile: non ne sentivo più
neppure il respiro, prima così forte, ma non dormiva; gli vedevo oscillare
continuamente la testa, come chi si rammarica di un’azione. Passata così
un’oretta, si levava, attaccava un sermone diretto ai cani che, scesi tutti
nello spiazzo, lo ascoltavano muti, con la testa in alto: di ciò che diceva
allora non comprendevo neppure una parola; l’espressione era imbastita di
fischi, gridi, borbottii e gesti di braccia e di gambe.
Infine ridiscendeva in mezzo ai
cani che gli celebravano un misterioso trionfo. Si rivestiva con cura,
indossava di nuovo l’armatura e ripartiva, in silenzio, con i cani dietro, ora.
Io correvo alla collinetta e di là attendevo che ricominciasse il
tambureggiare, il che avveniva puntualmente. Discendendo non si arrestava mai,
fino a quando, giunto in fondo, smetteva, di colpo. Sapeva che lì i cani lo
lasciavano e lui doveva riprendere la via della Pianuzza, dove, portandosi alla
grotta, si disarmava e ripartiva; attraversava Cinisiello, si arrampicava per
le rocce di La Serra e raggiungeva la sua baracca, nella quale la gente gli
gettava cibo e indumenti usati. Lì stava tranquillo tutto il giorno.
Lorenzaccio morì sparato da un forestiero che non sapeva della sua
presenza in paese: lo incontrò di notte, carico della sua armatura e lo freddò
con una pallottola in mezzo alla fronte.
Di quel mondo così vario e vivo
oggi non rimane che il ricordo.
Vincenzo Rossi
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