lunedì 11 febbraio 2013

69. LA FONTE DEL PAESE e le sue storie




Quando l’acqua non arrivava nelle abitazioni, la fonte era il luogo d’incontro più importante del paese perché almeno un membro della famiglia  vi andava, ogni giorno,  ad attingere l’acqua che sarebbe servita non solo per dissetare, ma anche per tutte le altre attività familiari come cucinare, lavarsi e lavare.
Il racconto poetico che segue è dello scrittore molisano Vincenzo Rossi  - che ringrazio per avermi permesso di mettere sul blog –  e che ci fa comprendere con vividezza  come la fonte, verso l’imbrunire, diventasse per il paese una agorà dove le donne si incontravano, discutevano e, perché no, litigavano anche. Ma bastava un bel cocomero per rappacificare tutti.  Siamo negli anni ’30 del secolo appena passato, a Cerro al Volturno (Molise), ma poteva accadere in qualsiasi  altro paesino d’Italia…  
***

La vecchia fonte, non più luogo di vita     di   Vincenzo Rossi*
Avvolta da profonda tristezza, di giorno e di notte, quasi non si riconosce. Le selci scavate dai ferri di muli e cavalli sono ricoperte da uno strato di terriccio dal quale traggono vita rigogliosi ciuffi di falasco; i solchi di scolo, ripieni d’acqua putrida, immobili, assorbono la luce sfuggita alle ginestre e ai rami inselvatichiti dei pioppi; i muri di cinta, che l’hanno in qualche modo protetta dal terreno franoso, ancora la rilevano nella sua forma rettangolare e le consentono di dissetare le bocche che le fanno visita. L’ampia pietra scalpellata, che ne copre la vaschetta dalla quale fuoriesce l’acqua, è la sola a ripresentarsi agli occhi, avidi di leggervi le tracce del tempo, quasi come allora. Una lieve patina ne offusca l’antico splendore.

Sedevo su di essa, ascoltando le gole degli animali che affondavano il muso nell’abbeveratoio, inghiottendo con ritmo vigoroso l’acqua ristoratrice; sedevo su questa pietra lavorata da mastro Fiorentino, dopo il tramonto, ascoltando le donne chiacchierare di cento cose e aspettando il turno per riempire la tina recatavi da mia madre o da una delle sorelle maggiori. Vi sostavo, dopo essermi dissetato, quando, verso mezzogiorno, tornavo dalla falciatura o dal pascolo, dopo aver rimesso gli animali gonfi d’erba fresca, nel pagliaio di Collestefano; e vi sedevo quando, di notte, tornavo agli animali, o quando, sazio di sonno, mi trovavo sveglio sull’aia e ne potevo ascoltare con intimo compiacimento il monotono versare. […] Guardavo le stelle, a cui mio padre aveva dato un nome legato alle stagioni e ai lavori dei campi, e l’emozione mi faceva credere che di lassù l’occhio della divinità mi scrutasse, penetrando col suo respiro ogni cosa. Allora mi ripassavo, una dopo l’altra, tutte le orazioni che mi aveva insegnato mia madre e la certezza d’essere nella grazia di Dio mi dava coraggio.

Questo colloquio intimo con la fonte e la divinità, che emanava da oltre le stelle, poteva durare anche tre ore, dall’una alle quattro, quando, alla luce dell’alba, si annunciavano le prime voci e i primi passi dirigersi alla fonte, per rifornirsi d’acqua e abbeverare gli animali. Così finiva d’essere soltanto mia e tornava nel dominio di tutti.

Man mano che il giorno si avanzava la gente cresceva: e per tutto il giorno sarebbe stata un intenso via vai di voci e di passi. Era essa che dissetava tutte le gole dei viventi, uomini e animali, ed era considerata sacra sorgente di vita.

Ma la sua ora di punta la viveva dal tramonto al primo buio, quando ogni famiglia inviava un suo rappresentante a fare la fila per riempire la tina, un grosso recipiente di rame, preziosa dote delle spose, la cui ampiezza si riduceva al centro: aveva due grosse anse ai lati  per le quali, dopo che si era riempita, la donna la prendeva e la sollevava sul posatoio, si metteva in testa la spara, un panno ritorto che attutiva la durezza del metallo, e vi portava la tina da sola, raramente qualcuno le dava una mano. Così carica, partiva, sicura di poter cucinare e dissetare la famiglia.
In questa parte della giornata, la fonte veniva sommersa dalle voci delle donne che ne raccontavano di ogni colore, a volte intessendo storie di pura invenzione, a volte biascicando su fatti veri alla presenza della stessa interessata; e si potevano avere anche  delle risse furibonde, per sedare le quali dovevano intervenire gli uomini. Molte di queste scene accaddero sotto i miei occhi, ma una mi è rimasta più viva nella memoria.

San Donato e il cocomero
Era la sera di San Donato. Il giorno c’era stata la fiera, lungo le vie del Centro. Era usanza che il fidanzato comprasse alla ragazza, quel giorno, uno dei cocomeri più grossi e più belli, che veniva consumato la sera, in famiglia. Si metteva in un grossa zuppiera e la ragazza, armatasi di un lungo coltello bene affilato, contava le bocche e secondo il loro numero lo affettava: doveva, in questa operazione, mostrare molta bravura, essere degna, cioè, della scelta fatta dal fidanzato nel comperarlo. Dopo averlo affettato, la ragazza distribuiva le fette e così, intorno al tavolo della cena, come in un rito rivolto al Santo e all’amore, si consumava la grossa fetta.

Più delle ragazze, erano orgogliose della scelta  le madri, che se ne vantavano in pubblico, come fosse un atto di certezza dell’amore dei giovani per le figlie. Quel San Donato c’era stata una gran vendita di cocomeri, arrivati con carretti fin dal giorno precedente dalle campagne di Capua.  Alla fonte se ne cominciò subito a parlare. Mia madre era venuta a portarmi la tina e mi aveva detto: «Mettila dopo zia Nicolina, allora arriva il tuo turno». Se n’era tornata a casa, a preparare la cena.
Le donne che facevano la fila, oltre una ventina, attaccarono subito a parlare di cocomeri, grossi e belli, già nelle case in attesa di essere affettati. Nelle vanterie cominciò a prevalere Lucia la Papessa, la quale sosteneva che il più bello e grosso era stato comperato alla figlia e che, pur essendo una delle ultime, le dovevano cedere il posto, perché il cocomero gigante doveva essere rinfrescato, prima d’essere consumato.

«Toh!» contrastò Nicolina la Strega, facendole un gesto salace. «Non ti cedo il posto anche se mordi questa!» e andò a battere la croce, al centro del pietrone. «Io l’ho visto, quello di tua figlia, è grosso come una pallottola di quercia!»
«E’ vero!» dichiarò Assunta la Pannocchia. «Tu fai sempre la papessa e non rispetti mail il turno, ma stasera, toh!» e fece anche lei un gesto piccante.
Vidi la Strega che andò a sussurrare qualcosa all’orecchio di Minghella la Santa che torse il muso e guardò Lucia. Allora questa si avventa ai capelli della Strega e la tira all’abbeveratoio per affondarla con la testa nell’acqua gridando: «Qua ti abbevero, come una vacca, brutta scrofa!»
Ma Nicolina le dà una ginocchiata al ventre e la distacca da sé. Le altre, invece di porsi in mezzo alle due che si accapigliano, si danno a litigare tra loro, come se quello fosse il momento adatto per scaricarsi di quanto si tenevano in corpo da tempo.

Nella baraonda sento le tine che si rovesciano dal muretto del lavatoio, insulti e minacce e lo sbuffare delle due donne che si tengono per i capelli e si danno strappi. Messa in salvo la tina, già rovesciata e calpestata, mi porto sulla pietra e sto a osservare.
Ad un tratto vedo uscire dal gruppo Minghella, quell’acqua cheta della Santa, e dare uno spintone alle due che si tengono come fossero un corpo solo: le vedo traballare sull’orlo e prendere la via del Precipizio, tutto pieno di spini e ortiche giganti. Spariscono in quel bosco infernale e le donne, smesso di litigare, accorrono sull’argine dandosi a chiamare: «Nicolina! Lucia! Strega! Papessa!» Ma dal fondo del Precipizio non si sente nulla, hanno smesso di cantare anche le rane. Soffocate dalle siepi e dalle ortiche, non hanno neppure la forza di segnalare il punto in cui sono andate a finire.

«Non si vede muovere neppure una canna!» biascica la Santa, come se lei non fosse stata l’autrice di quel crollo infernale. «Forse stanno soffocando» sentenzia e va a sedersi.
Mio padre, che stava insaccando il grano sull’aia, appurato che alla fonte accadeva qualcosa di grave, accorse a informarsi.
«Ci vuole il roncone» dichiarò, «per ritirarle, santo Dio!»
Corse al pagliaio e tornò con l’attrezzo. Stette più di un’ora ad abbattere sterpi e ortiche prima di poter riportare sulla via la Strega e la Papessa. Le due donne sedettero sul terreno, con le giacchettine e le gonne sbrandellate. Facevano scatti come se volessero acciuffarsi di nuovo, ma era soltanto mostra, svuotate di energia e di coraggio com’erano.

La notizia della zuffa era arrivata in paese e tra gli altri erano venute Giulietta, la figlia della Strega, e Nannina, la figlia della Papessa. Il vedere le madri così malconce e lo slanciarsi l’una contro l’altra fu tutt’uno. Ma fecero in tempo appena a graffiarsi il viso, immobilizzate dai loro fidanzati che, per fortuna di tutti, quella sera non avevano intenzioni bellicose. […]

Ormai quasi tutto il paese era alla fonte, richiamato dal frastuono e dell’accorrervi. Era una serata caldissima: gli uomini in magliette e le donne in giacchettine leggere. Dalle colline spirava la brezza e invitava a sedere, a stare lì a ragionare dell’afa della giornata passata per le vie del Centro, traboccante di gente e di affari. Ci fu chi si lamentò di avere le tasche vuote per aver speso tutto, e c’era che le tasche le aveva piene, perché aveva venduto diversi capi di bestiame, ma taceva., si teneva stretti in tasca i quattrini.

Gli orti, a valle, si distendevano nella prima frescura e facevano giungere fino a noi gli odori delle foglie e dei frutti. Le voci si vennero calmando, i gesti assunsero traiettorie e modi sempre più lenti. La gente man mano si sedette sui muretti. […]

«Colpa dei meloni, dunque!» arringò Antoniaccio, ritto sulla pietra crociata, con un dito puntato alla luna, che già si era annunciata come un fuoco innocuo dentro la ramura dei pioppi. «E vediamoli, allora, questi meloni!»
«Bene!» approvò mio padre, «andiamoli a prendere e mangiamoli qui, tutti insieme. Vedete, la luna è già su Collemascio

Così, i cocomeri furono portati alla fonte e messi a rinfrescare in un grosso tino. Quelli di Giulietta e Nannina risultarono i più grossi, ma non si riuscì a stabilire a quale dovesse assegnarsi il primato.
Ricordo, di quella sera, tanti particolari, fra questi i basettoni di Antoniaccio, che gli si riempivano di polpa mentre affondava morsi nelle fette, e il mulo del Capraio, che, bevendo nella tina, restituiva due canali di acqua dalle froge dilatate. E tanti altri particolari che si affollano alla mia memoria ogni volta che rivedo la vecchia fontana giacere nella tristezza e nell’abbandono.

*Breve biografia di Vincenzo Rossi
Poeta, scrittore, saggista e traduttore dalla penna facile e dal cuore tenero, dopo una lunga vita spesa nella scuola, prima come insegnante e poi come preside, ha dato molto del suo tempo alla scrittura con numerose pubblicazioni al suo attivo. Impossibile elencarle tutte. Per chi fosse interessato basta consultare Wikipedia  (http://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Rossi) L’ultima sua opera, Io sono Achille: vi racconto la mia storia è stata data alle stampe nel 2012. E non vi fate ingannare dal titolo né dalla foto del libro, Achille è un micione simpatico che permette all’88 enne  Rossi di raccontare, attraverso le sue avventure, la vita di paese negli anni della sua adolescenza.

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