Quando l’acqua non arrivava nelle
abitazioni, la fonte era il luogo d’incontro più importante del paese perché almeno un membro della famiglia vi andava, ogni giorno, ad attingere l’acqua che sarebbe
servita non solo per dissetare, ma anche per tutte le altre attività familiari come cucinare, lavarsi e lavare.
Il racconto poetico che segue è
dello scrittore molisano Vincenzo Rossi - che ringrazio per avermi permesso di
mettere sul blog – e che ci fa comprendere
con vividezza come la fonte, verso
l’imbrunire, diventasse per il paese una agorà
dove le donne si incontravano, discutevano e, perché no, litigavano anche. Ma
bastava un bel cocomero per rappacificare tutti. Siamo negli anni ’30 del secolo appena passato,
a Cerro al Volturno (Molise), ma poteva accadere in qualsiasi altro paesino d’Italia…
***
La vecchia fonte, non più luogo di vita di Vincenzo Rossi*
Avvolta da profonda tristezza, di
giorno e di notte, quasi non si riconosce. Le selci scavate dai ferri di muli e
cavalli sono ricoperte da uno strato di terriccio dal quale traggono vita
rigogliosi ciuffi di falasco; i solchi di scolo, ripieni d’acqua putrida,
immobili, assorbono la luce sfuggita alle ginestre e ai rami inselvatichiti dei
pioppi; i muri di cinta, che l’hanno in qualche modo protetta dal terreno
franoso, ancora la rilevano nella sua forma rettangolare e le consentono di
dissetare le bocche che le fanno visita. L’ampia pietra scalpellata, che ne
copre la vaschetta dalla quale fuoriesce l’acqua, è la sola a ripresentarsi
agli occhi, avidi di leggervi le tracce del tempo, quasi come allora. Una lieve
patina ne offusca l’antico splendore.
Sedevo su di essa, ascoltando le
gole degli animali che affondavano il muso nell’abbeveratoio, inghiottendo con
ritmo vigoroso l’acqua ristoratrice; sedevo su questa pietra lavorata da mastro
Fiorentino, dopo il tramonto, ascoltando le donne chiacchierare di cento cose e
aspettando il turno per riempire la tina recatavi da mia madre o da una delle
sorelle maggiori. Vi sostavo, dopo essermi dissetato, quando, verso
mezzogiorno, tornavo dalla falciatura o dal pascolo, dopo aver rimesso gli
animali gonfi d’erba fresca, nel pagliaio di Collestefano; e vi sedevo quando, di notte, tornavo agli animali, o
quando, sazio di sonno, mi trovavo sveglio sull’aia e ne potevo ascoltare con
intimo compiacimento il monotono versare. […] Guardavo le stelle, a cui mio
padre aveva dato un nome legato alle stagioni e ai lavori dei campi, e
l’emozione mi faceva credere che di lassù l’occhio della divinità mi scrutasse,
penetrando col suo respiro ogni cosa. Allora mi ripassavo, una dopo l’altra,
tutte le orazioni che mi aveva insegnato mia madre e la certezza d’essere nella
grazia di Dio mi dava coraggio.
Questo colloquio intimo con la
fonte e la divinità, che emanava da oltre le stelle, poteva durare anche tre
ore, dall’una alle quattro, quando, alla luce dell’alba, si annunciavano le
prime voci e i primi passi dirigersi alla fonte, per rifornirsi d’acqua e
abbeverare gli animali. Così finiva d’essere soltanto mia e tornava nel dominio
di tutti.
Man mano che il giorno si
avanzava la gente cresceva: e per tutto il giorno sarebbe stata un intenso via
vai di voci e di passi. Era essa che dissetava tutte le gole dei viventi,
uomini e animali, ed era considerata sacra sorgente di vita.
Ma la sua ora di punta la viveva
dal tramonto al primo buio, quando ogni famiglia inviava un suo rappresentante
a fare la fila per riempire la tina, un grosso recipiente di rame, preziosa
dote delle spose, la cui ampiezza si riduceva al centro: aveva due grosse anse
ai lati per le quali, dopo che si era
riempita, la donna la prendeva e la sollevava sul posatoio, si metteva in testa la spara, un panno ritorto che attutiva la durezza del metallo, e vi
portava la tina da sola, raramente qualcuno le dava una mano. Così carica,
partiva, sicura di poter cucinare e dissetare la famiglia.
In questa parte della giornata,
la fonte veniva sommersa dalle voci delle donne che ne raccontavano di ogni
colore, a volte intessendo storie di pura invenzione, a volte biascicando su
fatti veri alla presenza della stessa interessata; e si potevano avere
anche delle risse furibonde, per sedare
le quali dovevano intervenire gli uomini. Molte di queste scene accaddero sotto
i miei occhi, ma una mi è rimasta più viva nella memoria.
San Donato e il cocomero
Era la sera di San Donato. Il
giorno c’era stata la fiera, lungo le vie del Centro. Era usanza che il
fidanzato comprasse alla ragazza, quel giorno, uno dei cocomeri più grossi e
più belli, che veniva consumato la sera, in famiglia. Si metteva in un grossa
zuppiera e la ragazza, armatasi di un lungo coltello bene affilato, contava le
bocche e secondo il loro numero lo affettava: doveva, in questa operazione,
mostrare molta bravura, essere degna, cioè, della scelta fatta dal fidanzato
nel comperarlo. Dopo averlo affettato, la ragazza distribuiva le fette e così,
intorno al tavolo della cena, come in un rito rivolto al Santo e all’amore, si
consumava la grossa fetta.
Più delle ragazze, erano orgogliose
della scelta le madri, che se ne
vantavano in pubblico, come fosse un atto di certezza dell’amore dei giovani
per le figlie. Quel San Donato c’era stata una gran vendita di cocomeri,
arrivati con carretti fin dal giorno precedente dalle campagne di Capua. Alla fonte se ne cominciò subito a parlare.
Mia madre era venuta a portarmi la tina e mi aveva detto: «Mettila dopo zia
Nicolina, allora arriva il tuo turno». Se n’era tornata a casa, a preparare la
cena.
Le donne che facevano la fila,
oltre una ventina, attaccarono subito a parlare di cocomeri, grossi e belli,
già nelle case in attesa di essere affettati. Nelle vanterie cominciò a
prevalere Lucia la Papessa, la quale
sosteneva che il più bello e grosso era stato comperato alla figlia e che, pur
essendo una delle ultime, le dovevano cedere il posto, perché il cocomero
gigante doveva essere rinfrescato, prima d’essere consumato.
«Toh!» contrastò Nicolina la Strega, facendole un gesto salace. «Non
ti cedo il posto anche se mordi questa!» e andò a battere la croce, al centro
del pietrone. «Io l’ho visto, quello di tua figlia, è grosso come una
pallottola di quercia!»
«E’ vero!» dichiarò Assunta la
Pannocchia. «Tu fai sempre la papessa e non rispetti mail il turno, ma stasera,
toh!» e fece anche lei un gesto piccante.
Vidi la Strega che andò a
sussurrare qualcosa all’orecchio di Minghella la Santa che torse il muso e
guardò Lucia. Allora questa si avventa ai capelli della Strega e la tira
all’abbeveratoio per affondarla con la testa nell’acqua gridando: «Qua ti
abbevero, come una vacca, brutta scrofa!»
Ma Nicolina le dà una ginocchiata
al ventre e la distacca da sé. Le altre, invece di porsi in mezzo alle due che
si accapigliano, si danno a litigare tra loro, come se quello fosse il momento
adatto per scaricarsi di quanto si tenevano in corpo da tempo.
Nella baraonda sento le tine che
si rovesciano dal muretto del lavatoio, insulti e minacce e lo sbuffare delle
due donne che si tengono per i capelli e si danno strappi. Messa in salvo la
tina, già rovesciata e calpestata, mi porto sulla pietra e sto a osservare.
Ad un tratto vedo uscire dal
gruppo Minghella, quell’acqua cheta della Santa,
e dare uno spintone alle due che si tengono come fossero un corpo solo: le vedo
traballare sull’orlo e prendere la via del Precipizio,
tutto pieno di spini e ortiche giganti. Spariscono in quel bosco infernale e le
donne, smesso di litigare, accorrono sull’argine dandosi a chiamare: «Nicolina!
Lucia! Strega! Papessa!» Ma dal fondo del Precipizio
non si sente nulla, hanno smesso di cantare anche le rane. Soffocate dalle
siepi e dalle ortiche, non hanno neppure la forza di segnalare il punto in cui
sono andate a finire.
«Non si vede muovere neppure una
canna!» biascica la Santa, come se
lei non fosse stata l’autrice di quel crollo infernale. «Forse stanno
soffocando» sentenzia e va a sedersi.
Mio padre, che stava insaccando
il grano sull’aia, appurato che alla fonte accadeva qualcosa di grave, accorse
a informarsi.
«Ci vuole il roncone» dichiarò,
«per ritirarle, santo Dio!»
Corse al pagliaio e tornò con
l’attrezzo. Stette più di un’ora ad abbattere sterpi e ortiche prima di poter
riportare sulla via la Strega e la Papessa. Le due donne sedettero sul terreno,
con le giacchettine e le gonne sbrandellate. Facevano scatti come se volessero
acciuffarsi di nuovo, ma era soltanto mostra, svuotate di energia e di coraggio
com’erano.
La notizia della zuffa era
arrivata in paese e tra gli altri erano venute Giulietta, la figlia della Strega, e Nannina, la figlia della Papessa. Il vedere le madri così
malconce e lo slanciarsi l’una contro l’altra fu tutt’uno. Ma fecero in tempo
appena a graffiarsi il viso, immobilizzate dai loro fidanzati che, per fortuna
di tutti, quella sera non avevano intenzioni bellicose. […]
Ormai quasi tutto il paese era
alla fonte, richiamato dal frastuono e dell’accorrervi. Era una serata
caldissima: gli uomini in magliette e le donne in giacchettine leggere. Dalle
colline spirava la brezza e invitava a sedere, a stare lì a ragionare dell’afa
della giornata passata per le vie del Centro, traboccante di gente e di affari.
Ci fu chi si lamentò di avere le tasche vuote per aver speso tutto, e c’era che
le tasche le aveva piene, perché aveva venduto diversi capi di bestiame, ma
taceva., si teneva stretti in tasca i quattrini.
Gli orti, a valle, si
distendevano nella prima frescura e facevano giungere fino a noi gli odori
delle foglie e dei frutti. Le voci si vennero calmando, i gesti assunsero
traiettorie e modi sempre più lenti. La gente man mano si sedette sui muretti.
[…]
«Colpa dei meloni, dunque!»
arringò Antoniaccio, ritto sulla pietra crociata, con un dito puntato alla
luna, che già si era annunciata come un fuoco innocuo dentro la ramura dei
pioppi. «E vediamoli, allora, questi meloni!»
«Bene!» approvò mio padre, «andiamoli
a prendere e mangiamoli qui, tutti insieme. Vedete, la luna è già su Collemascio!»
Così, i cocomeri furono portati
alla fonte e messi a rinfrescare in un grosso tino. Quelli di Giulietta e
Nannina risultarono i più grossi, ma non si riuscì a stabilire a quale dovesse
assegnarsi il primato.
Ricordo, di quella sera, tanti
particolari, fra questi i basettoni di Antoniaccio, che gli si riempivano di
polpa mentre affondava morsi nelle fette, e il mulo del Capraio, che, bevendo nella tina, restituiva due canali di acqua
dalle froge dilatate. E tanti altri particolari che si affollano alla mia
memoria ogni volta che rivedo la vecchia fontana giacere nella tristezza e
nell’abbandono.
*Breve biografia di Vincenzo Rossi
Poeta, scrittore, saggista e
traduttore dalla penna facile e dal cuore tenero, dopo una lunga vita spesa
nella scuola, prima come insegnante e poi come preside, ha dato molto del suo
tempo alla scrittura con numerose pubblicazioni al suo attivo. Impossibile
elencarle tutte. Per chi fosse interessato basta consultare Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Rossi)
L’ultima sua opera, Io sono Achille: vi
racconto la mia storia è stata data alle stampe nel 2012. E non vi fate
ingannare dal titolo né dalla foto del libro, Achille è un micione simpatico
che permette all’88 enne Rossi di
raccontare, attraverso le sue avventure, la vita di paese negli anni della sua
adolescenza.
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