sabato 26 ottobre 2013

75. La pastorella impertinente


Questa storia è vera e si svolge all’inizio degli anni ’30 in un pesino dell’Appennino emiliano. Racconta di una pastorella astuta che non voleva proprio andare a pascolare le pecore.
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Emergo con fatica da un sonno profondo. Sento, ovattata, la voce di mia madre che cerca di svegliarmi scuotendomi leggermente, ma il suo movimento mi culla e mi fa sprofondare di nuovo nel sonno. Allora, mi prende in braccio e mi porta in cucina, io piagnucolo come ogni mattina. Per acquietarmi mi dice: «Dai Tina, ti ho preparato un bel bicchiere di latte che ho appena munto per te». Sa, infatti, che è il solo modo per farmi accettare questa levataccia in un ambiente così freddo che richiede una forza di volontà disumana per uscire dalle calde lenzuola. «Le tue amiche sono già pronte, ti aspettano», aggiunge. Continuo a frignare, ma so che non ho altra scelta, è l’alba ed io devo andare fuori  e raggiungere le mie dolci, tenere, deliziose pecorelle, che in effetti sono le mie carnefici.
Io le odio le pecore! Sono una pastorella ancora piccola, ecco perché mia madre mi accompagna fino al bosco e, prima di correre a casa dove l’attendono altri mille impegni, mi mette in guardia: «Cerca di non addormentarti, perché ci sono le bisce che ti possono venire in bocca». Questa è l’unica minaccia che funziona per tenermi sveglia, per far sì che mi occupi veramente delle bestie, poiché sa che i serpenti sono un vero terrore per tutti i bambini. Infatti, non mi addormenterò, li conosco, io, i serpenti! Ne ho visti già tanti, lunghi, gialli, verdi o neri, che occupavano tutto il sentiero e che mi paralizzavano dalla paura.
Come pastorella, ho la sveglia tutte le mattine tra le 5 e le 8, a seconda della stagione, e, dopo l’alzata mattutina pascolo le pecore nelle verdi colline emiliane, percorrendo sentieri, dirupi, fossi alla ricerca del foraggio indispensabile per ogni animale, aspettando pazientemente che le bestie siano sazie. Ho imparato anche a distinguere l’erba che non possono mangiare, pena una pancia che si gonfia e che impedisce loro di produrre il latte.  Il mio gregge è composto di circa 15 capi. Dopo un po’ più di due ore riporto le bestie all’ovile e corro a scuola dove mi attende una classe di circa 40 alunni e la maestra “dormigliona”, così la chiamiamo,  in quanto, strafatta anche lei dalla stanchezza, si addormenta regolarmente sulla cattedra verso la fine delle lezioni con noi ragazzi che ce la svigniamo alla chetichella.

Faccio questa vita da quando ho cinque anni e non sono la sola. Con me vengono anche la Bianca, la Svanata, la Merola, la Maria, Minghin, Iusfin. Insomma siamo una decina di bambini con il nostro bel gregge. Per noi, il giorno più bello è quando nevica, allora sì che possiamo dormire al calduccio, perché le pecore non possono uscire. E speriamo sempre che la neve sia abbondante e non importa se poi avremo i geloni ai piedi dovendo andare a scuola con gli zoccoli di legno. Accettiamo tutto, purché non si vada a pascolare.

Non mi lagno di questo dovere che mi costringe ad alzarmi alle 5 del mattino, ci sono  abituata, ma quello che non accetto è che a Desolina, l’altra sorella più grande, non venga mai chiesto di farlo, lei è la bella di casa, allora tocca a me, che non sopporto queste bestiacce, il loro pelo puzzolente, il loro belare e il loro scappare via quando non stai attenta. Se una si butta in un fosso, tutte la seguono. E poi ci sono i montoni. Quelli sono tosti, se ti prendono di mira, ti danno certe cornate…... Io voglio fare un lavoro con le mie mani, voglio ricamare, voglio cucire come mia zia Adelina.

L’altro giorno, me la sono scampata perché era la festa di San Antonio Abate, 17 gennaio. Desolina ammalata, la mamma bloccata da un enorme pancione, è toccato a me andare a messa. La cerimonia è la più importante del mondo contadino e mia mamma mi ha dato i soldi, una gran bella somma, da portare al Santo, affinché protegga i nostri animali per tutto l’anno. Questo è un giorno di festa come ce ne sono pochi a San Giovanni, con le bancarelle, tanta gente e, in chiesa, con una messa solenne, celebrata da diversi preti che vengono da lontano e che indossano paramenti lussuosi, mentre la statua di Sant’Antonio è posta nel bel mezzo della navata sopra ad un grande drappeggio, dove la gente butta le monetine, si fa un segno della croce, recita una preghiera e manda un bacio. Ting, ting, i soldini cadono a fiotti, straboccano, si infilano tra i piedi del Santo, rotolano fino ai bordi del drappo. Osservo con attenzione, con i 20 centesimi dati da mia madre ben stretti in mano. Qualcosa non mi convince, Sant’Antonio ha un’espressione irreale, non si abbassa e non ringrazia. «Ma come, la gente gli dà tutti quei soldi per farlo star bene tutto l’anno e lui rimane indifferente?», dico tra me e me.  Non può essere, e un pensiero mi folgora: «Questi soldi se li prendono i preti, non Sant’Antonio, perché lui non li vuole i soldi dei poveretti!»
La mia decisione è presa, so cosa farci con quei venti centesimi, comprerò delle leccornie alle bancarelle.
Però, prima di uscire dalla chiesa una preghiera al Santo ce la devo proprio fare: «Caro Sant’Antonio, tu che sei buono e conosci le mie pene, fai morire tutte le pecore e preoccupati solo degli altri animali».
Poi corro alle bancarelle. Nessuno della mia famiglia mi ha mai comperato prelibatezze, è già un miracolo se si riesce a mangiare tutti i giorni ed è quindi la prima volta che mi capita di poter gustare quei prodotti che al solo guardarli mi hanno sempre fatto salivare come i cani di Pavlov.   Sì, lo so, mia madre mi scorticherà viva, ma non ce li voglio dare i soldi ai preti, cosa ci devono fare? Con 20 centesimi in mano e gli occhi brillanti di desiderio, chiedo di comperare il castagnaccio e i scacat (arachidi). «Ei mocciosa, chi ti ha dato tutti questi soldi? Sicuro che sono tuoi?», mi sento chiedere dal bancarellaio. Fatico un po’ a convincerlo, perché sa perfettamente che un bambino, in quel paese, non può avere per sé tutto quel denaro,  ma ho chiamato a raccolta anche i miei amici e vedendo che siamo numerosi, cede perché pensa che siano i soldi di tutti. E lì la festa comincia davvero, che scorpacciata memorabile!
La chiesa di S.Giovanni dove si sono svolti i fatti (quadro di Almerino Bertolini)

Tornata a casa la prima cosa che faccio è quella di andare a controllare nell’ovile, speranzosa che il Santo mi abbia fatto la grazia. Ma le pecore sono ancora tutte lì, vive, vegete e belanti.  Una delusione…
Il peggio, però, deve ancora arrivare, perché entro in casa mogia mogia e appena mia madre mi chiede se ho dato i soldi, rispondo di no: «Quelli se li prendono i preti, ecco perché non li ho dati, tanto vale utilizzarli per cose più divertenti. E poi, ho chiesto a Sant’Antonio di far morire tutte le pecore. Ecco cosa ho fatto, ma lui non mi ha fatto la grazia!». A questa risposta, mia mamma non ci ha visto più e mi è corsa dietro con le pinze del camino. Mi sono salvata solo perché in casa c’era mio zio Battista, rimasto colpito dalla risposta di una bambina di appena 8 anni e che ha detto alla cognata: «Non t’azzardare a toccarla, la putina ha perfettamente ragione».
E, per la prima volta in vita mia, me la sono cavata senza botte.

© 2013 Armentina Bonini  

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