sabato 14 aprile 2012

62. La buona cucina nelle case borghesi del dopoguerra


di Nicoletta Barbarito

 Entro in una qualsiasi libreria e trovo libri di cucina a iosa, occupano interi scaffali.  Accendo la TV e anche lì cuochi e cuoche a non finire. Apro una rivista dal parrucchiere, idem.
E a casa? Nei piccoli paesi e nelle città di provincia, più o meno ricche e informate, ancora si cucina due volte al giorno, spesso in modo tradizionale. Nelle grandi città ho, invece, i miei dubbi. Le donne, lavorando fuori, hanno meno voglia e tempo di cucinare e i mariti, se e quando le sostituiscono ai fornelli,  a meno che non siano dei  fanatici gourmets -  e ce ne sono -   cucinano quanto basta per sopravvivere;  i piatti pronti da banco spopolano (nonostante i prezzi) e i giovani affollano di sera i punti di ristoro nutrendosi di roba unta, pizze e crostini.  Nei ristoranti, varietà di cibo di tutti i paesi,  sapori e terminologia sono ormai familiari: anche i bambini sanno cos’è il sushi. Vale la pena saperlo anche preparare?
Nei miei ricordi da subito dopo la guerra fino agli anni Cinquanta,  la cucina, anzi la buona cucina, nelle famiglie romane medio-borghesi,  è un elemento fisso, curato ma  senza particolari fronzoli,  la cui varietà e quotidiano successo sono dati per scontato. Far da cucina avendo mano svelta, naso fino e occhio attento non dava diritto a medaglie: roba da donne, la sapevano fare, la facevano e basta. La geografia era fattore discriminante, la cucina essendo  allora essenzialmente locale.  Cose oggi banali a livello nazionale, per  esempio il pesto o la pasta alla carbonara, erano praticamente sconosciute al di fuori del  loro luogo d’origine.
A casa mia, dove i fornelli erano di competenza della mia nonna materna,  golosa nonché ricca di fantasia,  erano tenuti in alta considerazione “Il Talismano della felicità” e “La Cucina romana”, entrambi opera di Ada Boni. Mia nonna si vantava di aver conosciuto l’autrice proprio  nella sua bella  abitazione all’ultimo piano di Palazzo Odescalchi, e  la citava con grandissima stima. In realtà quei due libri di ricette venivano ammirati più che usati da mia nonna (mia madre, invece, ne fece poi costante e devoto uso).  Mia nonna faceva tutto ad occhio e a memoria, conosceva un vasto numero di ricette, soprattutto  emiliane, che di divertiva anche a trasformare. 



Non c’era allora un calendario dei cibi, si acquistava  al mercato secondo le stagioni.  Per le feste le pietanze erano quelle della tradizione di ogni famiglia. Fino al dopo guerra praticamente non esistevano i frigoriferi (però un’amica ultrabenestante di mia madre,  ne aveva uno “americano”, grande e bombato,  già durante la guerra, anche senza averlo visto  se ne favoleggiava con invidia) . Esistevano le ghiacciaie di legno e stagno nelle quali si inserivano grossi pezzi di ghiaccio portati a domicilio, quotidianamente, da un uomo col carretto.  A casa mia si faceva il gelato in casa grazie a un recipiente di legno a manovella, con l’intercapedine riempita di sale grosso,  all’interno del quale si metteva un composto di uova, panna e zucchero che poi si  doveva mischiare a mano,  cosa  lunga e noiosissima, per farlo rapprendere.
Al mercato andavano le domestiche tutte le mattine. I ruoli erano solitamente definiti: la domestica faceva la spesa, serviva a tavola e riassettava la cucina; la signora cucinava. Ricordo i pranzi domenicali a casa della zia di mio padre: noi a tavola e la zia che usciva dalla cucina elegantemente abbigliata,  sorridente, con  fili di perle al collo, non un capello fuori posto,  reggendo una zuppiera gigantesca  piena di  caldo, croccante fritto alla romana. Miracolosamente, non aveva mai addosso il minimo odore di fritto! Si metteva un grembiule mentre friggeva? Ne dubito,  non doveva essere  cosa “da signore”….

DEI CIBI, NULLA SI BUTTAVA ALLORA
Rifornendosi di cibi freschi e cucinando giornalmente,  restava poco di organico da buttar via; gli avanzi si riciclavano e riapparivano a tavola mascherati con gusto, a  volte per necessità. A casa di mia nonna, per esempio, il giorno dopo la polenta si mangiavano a colazione fette di squisita polenta fritta; se a pranzo c’erano torte rustiche il giorno dopo, invece del pane, c’erano nastri di pasta avanzata  fritta con sopra una spolverata di sale. Gli avanzi di lesso, di cui si faceva grande uso per via del brodo, riapparivano in veste di crocchette  o “lesso rifatto” al  sughetto di pomodoro. Spinaci, bieta, fagiolini o cavolfiori del giorno prima, acquistavano nuova nobiltà in veste di sformati  (che mia nonna chiamava “flan”) con l’aiuto di béchamel, parmigiano e una spolverata di pangrattato.  Pezzetti di frittata rimasti sul piatto da portata diventavano poi deliziose “frittatine uso trippa” con il loro sughetto.
A casa di mia nonna, che era di Parma, raramente si mangiava pasta, eccetto, talvolta le tagliatelle e i quadrucci fatti in casa dalla domestica. 
Era, il suo, il regno delle  minestre, molte delle quali  di sua invenzione. Di una in particolare, “i galàn”,  io e  mia  madre  per anni conservavamo un nostalgico ricordo. I galàn erano fiocchetti di pasta fatta in casa, cotti nel brodo, con un soffritto di abbondante prezzemolo e aglio.  La nostra imitazione non  seppe mai di niente a confronto con  quella di mia nonna, evidentemente mancava  un essenziale e altrettanto  misterioso ingrediente. 
I secondi erano di solito intingoli, lesso, polpettoni e polpettine,  crocchette di  carne o patate,  torte salate, lo squisito stracotto, stufati,  spezzatini, maiale al latte, fettine di vitello in  tutte le salse, verdura cotta in abbondanza. Non ricordo pizza,  bistecche o polli arrosto, ma fegato  e cervello sì “perché fanno bene” - io da allora li detesto -,  la trippa;  il venerdì  sempre il baccalà o, in primavera, il palombo con contorno di carciofi o piselli freschi.
Al posto della solita frutta, nei giorni di festa mia  nonna preparava la sua squisita crema di mascarpone al cioccolato, la composta di frutta cotta con la panna montata o  il latte alla portoghese, cioè la crème caramel fatta con latte e uova e cotta a bagnomaria in forno, non fatta con il preparato in busta come si fa adesso.

LE CASE DEI MIEI NONNI DISTAVANO SOLO UN KM L’UNA DALL’ALTRA, MA , IN EFFETTI, NELLE LORO ABITUDINI CULINARIE, L’INTERA PENISOLA LI SEPARAVA
Passare da casa della mia nonna materna a quella dei miei nonni paterni per l’abituale pranzo domenicale  significava non fare meno di un chilometro a piedi, ma traversare l’Italia.  Lì infatti il menù  seguiva la tradizione meridionale, con  pietanze succulente, colorite, niente béchamel. Sugo di pomodoro,  peperoncino, pasta e non minestra,  dolci comprati in pasticceria.  Olio d’oliva (allora non era stata inventata l’etichetta di “extravergine”) al posto del burro.  E pasta sempre col ragù alla napoletana (in alternativa, superbi cannelloni rossi di sugo,  eccezionalmente sartù di riso o timballi  con innumerevoli polpettine); per secondo il grosso pezzo di carne in umido che era servito per il ragù,  e per contorno misticanza all’agro,  o cicorietta, o puntar elle con alici, olio e limone (“insalata brindisina: cibo da re! “, così le lodava mio nonno che era pugliese);  antipasti di olive, peperoni, carciofini e funghi sott’olio.  Secondo la nonna di Parma erano cose non proprio raffinate.  Inoltre,  ogni domenica la stessa cosa!
A casa dei nonni paterni  però non mancava mai il vino, né, dopo il caffè,  il  “bicchierino” : Triple Sec giallo oro,  verde Chartreuse o Cherry Brandy purpureo. Sfizi, questi ultimi,  di cui nell’altra famiglia, composta di sole donne, non si sentiva il desiderio.
Erano tempi senza contenitori di cartone o di alluminio, vassoietti di polistirolo, sacchetti di plastica: gli acquisti commestibili si portavano a casa nelle retine o nei cestini; si andava a prendere il latte dal lattaio la sera con un bottiglia (e lo si bolliva prima di berlo) e l’acqua sfiziosa “con  le bollicine” si faceva con le bustine di Idrolitina.  L’acqua Sangemini  o di Fiuggi erano disponibili in bottiglie di vetro: la prima si  usava per i bambini molto piccoli e l’altra per chi aveva  altri problemi, erano  ritenute quasi dei medicinali.

L’IMPATTO CON LA CUCINA AMERICANA
Quando andai in America nel 1960 con una borsa di studio, dopo la laurea in Lettere presa a Roma, mia nonna mi dette un quaderno sul quale aveva scritto a mano le “ricette facili di casa”.  Avrei vissuto da sola io che di cucina non m’intendevo minimamente, non avevo mai fatto nemmeno il caffè: mi ero dedicata allo studio, in cucina mia nonna si divertiva e non voleva intrusi.  Confesso che cucinare, in effetti, mi attirava ben poco.
In America i supermercati mi stordirono  per la loro grandezza, l’organizzazione perfetta,  l’immensa varietà di prodotti:  verdure giù lavate e impacchettate, cibi congelati, succhi di frutta pronti nei cartoni,  cibi congelati  di tutti i generi  venduti anche  in porzioni singole, il gelato in decine di sapori. Insomma, tutto facile e presto fatto. E poi tutti i prodotti durante tutto l’anno, niente a stagione, altra novità. Come i frigoriferi giganteschi a portata di tutti. Pochi  i cibi italiani e mistificati, come gli spaghetti e ravioli  già cotti in barattoli, immangiabili.
Forte del quaderno di mia nonna, decisi presto di cimentarmi a ripetere qualche sua “facile” ricetta.  Che sarà mai, pensavo. Però  il supermercato non offriva i tagli di carne descritti da mia nonna, vitello niente. La pasta era di grano tenero, scuoceva subito, collosa.  Il riso adatto al risotto non esisteva. Pomodori e peperoni, belli a vedersi, erano in realtà durissimi e senza sapore, le zucchine enormi, acquose, piene di semi. Niente  parmigiano, solo il cosiddetto “romano”  grattugiato in bustine prefabbricate.
Un giorno riesco a mettere insieme per una cenetta con qualche amico gli ingredienti per un intingolo il cui ricordo mi stuzzicava. Va cotto al forno.  D’accordo, ma a che temperatura e per quanto tempo? La ricetta di Nonna scritta in calligrafia slanciata, ottocentesca,  suggerisce, per gli ingredienti “quanto basta” e per la cottura “ metti in forno e tiralo fuori quando è pronto”.  Insomma,  per usare un’espressione romanesca,  è come se una qualsiasi  principiante nasca “imparata”. Fui presa dalla disperazione.
Da allora in poi, per tutti i miei anni americani,  non avrei usato che le ricette del Fanny Farmer’s Cookbook (che conservo ancora, unto e bisunto).    Fanny Farmer dava spazio anche a ricette francesi, britanniche, tedesche, perfino svedesi, ma zero all’ Italia. Tuttavia era incoraggiante,  nessuna delle  sue  dettagliatissime ricette sembrava ardua,  e  dunque ispirava fiducia anche a chi, come la sottoscritta, non  s’intendeva minimamente di cucina. Easy does it, pareva dirmi all’orecchio.
A tutt’oggi  ricordo il  mio vecchio Fanny Farmer’s Cookbook , oltre che come un tempestivo strumento di salvezza culinaria,  come una piccola prova che nel Nuovo Mondo, le  regole espresse chiaramente sono alla portata di chiunque le legga e per aver successo, anche sui fornelli,  basta  seguirle.
Nicoletta Barbarito

1 commento:

Loreta ha detto...

Nicoletta,
Sei bravissima nel raccontare. E che bella esperienza di aver conosciuta i due mondi quello della cugina saporita e quello della meno saporita: the American one.
Grazie per il tuo racconto.
Loreta