martedì 25 dicembre 2012

67. Natale e balocchi



Quanta grazia Sant’Antonio! è proprio il caso di esclamare quando si va in qualsiasi casa durante le feste di Natale.
Alcuni  di noi, che hanno vissuto la loro infanzia accontentandosi di misere cose, vanno proprio in escandescenza. Mi ha raccontato un’amica, nonna felice di una bella brigata di quattro nipotini, che ha sentito il proprio marito, il cui studio è stato invaso da una montagna di regali che non riuscivano ad essere collocati sotto l’albero di Natale, dire a se stesso: «Su Antonio, non ti abbattere sono solo due giorni poi tutto passerà, fatti coraggio!» 

venerdì 16 novembre 2012

66. Le colonie marine degli anni Cinquanta



Appena penso a “colonie marine” mi viene in mente una vecchia canzone francese che le dissacrava: «Les jolies colonies de vacances, merci maman merci papa…» (che belle  le colonie, grazie mamma, grazie papà) e  che si cantava negli anni ’60 del secolo appena passato.  Nate nell’800 per i bambini affetti da malattie tubercolari, esse si sono poi diffuse in tutta Europa.
In Italia fioriscono sotto il fascismo, dove il culto del corpo e della salute  sono tra gli obiettivi prioritari di questo regime. Esse vengono frequentate da grandi masse di ragazzi e bambini, e ciò in linea con la politica fascista del sostegno alle famiglie meno abbienti e di maggiore educazione e controllo delle future generazioni.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale cresce ulteriormente la notorietà delle colonie marine a cui vengono inviati bambini di tutte le classi sociali. Da una mappatura degli anni ’80 risulta che sulla sola riviera romagnola ce n’erano ben 246.

lunedì 8 ottobre 2012

65. Storie d'altri tempi, storie di autoproduzione


di Federica (orto sul terrazzo)

Mentre cercavo in internet delle testimonianze su come vivevano le nostre nonne, come organizzavano il lavoro di casa e quali attività svolgessero, mi sono imbattuta in un blog molto bello e interessante: altritempiraccontati.blogspot.it. Si tratta di una raccolta di testimonianze su come si viveva una volta, soprattutto nella prima metà del secolo scorso. Vi si trovano aneddoti e racconti per lo più su come si svolgeva la vita in campagna.
I miei preferiti sono i racconti della signora Armentina, nata e cresciuta in una famiglia patriarcale. Armentina spiega in varie occasioni come questi tipi di nucleo domestico riuscissero ad essere totalmente indipendenti ed in grado di autoprodurre tutto quanto servisse loro.

lunedì 17 settembre 2012

64. Come si fa l'aceto balsamico a Modena

Foto presa da: www.lanoce.it/it/about/acetaia/

 Un affare di famiglia
di    Silvana Abati


In tanti supermercati si vende, a basso prezzo, un aceto “balsamico” che delle acetaie modenesi non ha proprio nulla. E’ impossibile, infatti, acquistare a pochi euro un nettare che per arrivare sulle nostre tavole ha dovuto essere assistito amorevolmente per più di due decenni. Parola di modenese: se lo trovate lasciate perdere o, comunque, non chiamatelo aceto balsamico di Modena perché sarebbe una grande offesa per tutti quelli che si occupano di questo particolare prodotto.
Da quando sono nata ho sempre visto l’acetaia nel solaio di famiglia: ce l’aveva mio nonno,  mio padre e, quando mi sono sposata, l’ha realizzata anche mio marito. Ora che ho raggiunto una certa età, la nostra acetaia è passata ad un nipote, contagiato anche lui dalla passione per questa antichissima tradizione che affonda le radici nel Medioevo.
Poiché di aceto balsamico me ne intendo, quando mi è stato chiesto da Barbara di lasciare sul blog di “Altri tempi” la mia conoscenza su questo “cibo degli dei” non ho esitato un istante. La mia è tuttavia un’esperienza unicamente familiare perché le nostre acetaie sono sempre state realizzate ad  uso privato e non commerciale.

mercoledì 20 giugno 2012

63. Ufficio: evoluzione tecnologica dagli anni Sessanta in poi



Chi è entrato a lavorare negli uffici negli anni ’60 ha visto un’evoluzione epocale del modo di operare durante i quarant’anni seguenti a causa dell’arrivo di nuova tecnologia.
Allora era utilizzata soprattutto la macchina da scrivere meccanica e, negli uffici più evoluti, c’era quella elettrica. Per il calcolo, invece, la calcolatrice poteva essere elettrica, anche se non mancava quella azionata a manovella. Si è dovuto, tuttavia, aspettare la metà degli anni ’70 per veder circolare la prima calcolatrice tascabile. Di personal computer nemmeno l’ombra, essi sono arrivati solo alla metà degli anni ’80. Prima c’erano unicamente macchinoni enormi (inventati negli anni ’50 in America, ma arrivati negli uffici importanti verso la fine degli anni ’60 in Italia)  che occupavano intere stanze e che facevano calcoli considerati allora stratosferici, ma che un piccolo personal computer di adesso batte largamente.

Personalmente, ho seguito passo a passo tutta l’evoluzione.
Dalla penna inchiostro e calamaio sono passata alla biro. Poi, macchina da scrivere meccanica, una “Remington” che, ancora studentessa,  mi sono comperata con i primi soldi guadagnati facendo lavoretti.
La macchina da scrivere aveva un nastro che doveva essere cambiato quando si esauriva l’inchiostro. I tasti erano duri e bisognava battere forte con i polpastrelli delle dita per farli imprimere sulla carta. Per andare a capo, bisognava accompagnare il carrello con una mano.  Se si sbagliava a scrivere si strappava dal rullo la lettera, la si arrotolava e la si gettava nel cestino, ricominciando tutto daccapo.  Arrivò poi la possibilità di fare correzioni ( anni ’70), prima con il bianchetto, una specie di smalto bianco con cui si ricopriva la lettera o la parola sbagliata e poi lo stick, sempre con lo stesso principio del bianchetto ma ingessato in una cartina che si frapponeva fra tasto e foglio, permettendo piccole correzioni.
La macchina da scrivere divenne sempre più veloce grazie all’elettricità e Ibm ne inventò varie, tra cui una con una palla al posto dei caratteri tradizionali e un’altra che fece impazzire le segretarie perché ogni lettera aveva uno spazio diverso, secondo la grandezza e, quando si sbagliava, erano dolori perché le lettere non combaciavano più. Questo sistema, però, permetteva una scrittura molto armoniosa.

La rivoluzione della macchina da scrivere arrivò a metà anni ottanta: una Olivetti che memorizzava una riga prima di battere il testo sulla carta, e permetteva quindi una correzione più facile. Una vera rivoluzione che guardavamo con meraviglia non immaginando quello che sarebbe arrivato dopo.


Per la comunicazione dei dati arrivò la telescrivente o telex  una macchina che inviava informazioni via telefono. Ma non copiava nulla per cui bisognava scrivere tutto quello che si doveva mandare. Per velocizzare l’invio, e pagare quindi meno telefono, fu inventata una striscia che, man mano si scriveva il testo (non in diretta) veniva forata dai tasti del telex. Poi, durante la trasmissione, si inseriva la striscia e la macchina leggeva lo scritto che arrivava così molto velocemente in tutte le parti dei paesi industrializzati.

sabato 14 aprile 2012

62. La buona cucina nelle case borghesi del dopoguerra


di Nicoletta Barbarito

 Entro in una qualsiasi libreria e trovo libri di cucina a iosa, occupano interi scaffali.  Accendo la TV e anche lì cuochi e cuoche a non finire. Apro una rivista dal parrucchiere, idem.
E a casa? Nei piccoli paesi e nelle città di provincia, più o meno ricche e informate, ancora si cucina due volte al giorno, spesso in modo tradizionale. Nelle grandi città ho, invece, i miei dubbi. Le donne, lavorando fuori, hanno meno voglia e tempo di cucinare e i mariti, se e quando le sostituiscono ai fornelli,  a meno che non siano dei  fanatici gourmets -  e ce ne sono -   cucinano quanto basta per sopravvivere;  i piatti pronti da banco spopolano (nonostante i prezzi) e i giovani affollano di sera i punti di ristoro nutrendosi di roba unta, pizze e crostini.  Nei ristoranti, varietà di cibo di tutti i paesi,  sapori e terminologia sono ormai familiari: anche i bambini sanno cos’è il sushi. Vale la pena saperlo anche preparare?
Nei miei ricordi da subito dopo la guerra fino agli anni Cinquanta,  la cucina, anzi la buona cucina, nelle famiglie romane medio-borghesi,  è un elemento fisso, curato ma  senza particolari fronzoli,  la cui varietà e quotidiano successo sono dati per scontato. Far da cucina avendo mano svelta, naso fino e occhio attento non dava diritto a medaglie: roba da donne, la sapevano fare, la facevano e basta. La geografia era fattore discriminante, la cucina essendo  allora essenzialmente locale.  Cose oggi banali a livello nazionale, per  esempio il pesto o la pasta alla carbonara, erano praticamente sconosciute al di fuori del  loro luogo d’origine.
A casa mia, dove i fornelli erano di competenza della mia nonna materna,  golosa nonché ricca di fantasia,  erano tenuti in alta considerazione “Il Talismano della felicità” e “La Cucina romana”, entrambi opera di Ada Boni. Mia nonna si vantava di aver conosciuto l’autrice proprio  nella sua bella  abitazione all’ultimo piano di Palazzo Odescalchi, e  la citava con grandissima stima. In realtà quei due libri di ricette venivano ammirati più che usati da mia nonna (mia madre, invece, ne fece poi costante e devoto uso).  Mia nonna faceva tutto ad occhio e a memoria, conosceva un vasto numero di ricette, soprattutto  emiliane, che di divertiva anche a trasformare. 

domenica 1 aprile 2012

61. L'orologio del passato

«Che ora è?» «Quanto tempo mi rimane per finire questo lavoro?» «A Che ora devo venire?» «Mi raccomando, sii puntale perché dopo ho un altro appuntamento». Il tempo è la nostra ossessione moderna e, per ricordarcelo, abbiamo nella casa un’infinità di marcatori del tempo. Orologi elettronici, svegliette, timer… non c’è angolo del nostro alloggio dove non ce ne siano, oltre ai vari orologi da polso che possediamo perché, ovunque ci troviamo, dobbiamo sempre sapere esattamente che ore sono per riuscire a chiudere la giornata.  Viceversa, negli anni ’50 a casa di mia nonna c’era una sola sveglia, unica testimone del tempo che passava lentamente e che, quindi, non aveva bisogno di essere cronometrato.  Negli anni ’40 addirittura in casa non c'era  nulla e per sapere quando buttare la pasta bastava guardare l’ombra degli scalini dell'abitazione: quando arrivava al terzo scalino, era l’ora buona!

Ma la famosa sveglia, eccola qua, faceva un rumore infernale quando suonava per un appuntamento mattutino molto importante. Mi ha raccontato la Meris che quando studiava all’università faceva le ore piccole sui libri e, al mattino, malgrado il rumore assordante dell’orologio, non riusciva a svegliarsi per seguire i corsi. Allora, per essere sicura di sentire la sveglia, la posava su un piattino con tante monetine dentro. Solo così, con il baccano infernale che faceva il tutto quando si metteva a trillare e, quindi a vibrare, riusciva ad emergere dal sonno profondo. La Meris è diventata poi medico, e successivamente, medico condotto proprio a San Giovanni e dintorni. 

domenica 12 febbraio 2012

60. IL DENTISTA DEI TEMPI MIEI

Sono le tre di notte e un dolore lancinante mi fa schizzare fuori dal letto. E’ una stramaledetta carie che mi fa male da diversi giorni e si diverte a scegliere i momenti meno opportuni per tenere sveglia tutta la famiglia. Ho 9 anni e mia nonna ha cercato in tutti i modi di farmi andare dal dentista, ma io ho una tremenda paura.  Mi ha promesso di prestarmi la sua bicicletta, niente. Di farmi accompagnare dalla mia amata zia, niente. Di permettermi di andare al cinema il sabato successivo, senza dover prima addormentare mio fratello, e sempre niente. Ma questa volta non ne può più e, presto di mattina, mi prende per mano e mi accompagna a piedi dal dentista di Casina, una evoluta cittadina collinare che dista una decina di chilometri dal troglodita paese di San Giovanni.
Ci accomodiamo nella sala d’attesa, aspettando il nostro turno ed entriamo, ma appena vedo un omone grande, grosso, minaccioso, con il suo bel camice bianco venirmi incontro, comincio già a strillare. Il dentista non si scompone. Mi mette sulla sedia di forza e, a mo’ di anestetico, mi molla un potente ceffone che mi tramortisce e mi lascia a bocca aperta. Effetto perfetto per lui, che comincia tranquillamente il suo lavoro. Ovvero, mi toglie, senza complimenti (è proprio il caso di dire), tutto il dente, per una banalissima carie. 

domenica 8 gennaio 2012

59. LA GALLINA DELLA SUOCERA

Nel passato nei paesini si sapeva tutto di tutti e persino le galline, a cui veniva dato un nome, erano riconosciute dai loro proprietari che ne seguivano attentamente le abitudini. C’era, per esempio, una gallinella che, per deporre le uova, invece di andare nel proprio pollaio, preferiva il fienile del vicino. Domanda: a chi appartenevano queste uova, quando la Teresina, bella bella, usciva cantando coccodé dal sopraimputato fienile?  I contendenti  non andavano dall’avvocato solo perché ero costoso, ma il dilemma rimaneva e le liti pure.

lunedì 26 dicembre 2011

58. NATALE E' -ANCHE-



NATALE E’  -ANCHE-
di Margherita Perpetua




Tra luci e festoni,
regali e profumi buoni,
voglio celebrare un Natale diverso…
Perciò, leggete e
non lasciate
il mio pensiero “disperso”.
Per me, infatti, c’è un Natale
che è così
fermatevi un poco qui…


domenica 6 novembre 2011

57. Giornalismo del dopoguerra: linotype e fagioli!

di Nino Amoroso
Negli anni del dopoguerra quando, a Campobasso, sono entrato nel mondo del giornalismo di provincia, il giornale si componeva con le singole lettere di piombo che il bravo tipografo prelevava a grande velocità da un contenitore, diviso in singole caselle per ordine alfabetico. Quindi si creava la colonna inumidita e legata con lo spago, che consentiva di impaginare  e di realizzare tutto il menabò sillaba per sillaba, a pagina intera pronta per il pianale di stampa. Spesso però diventava anche un lavoro di sisifo, perché la colonna si disfaceva e bisognava ricominciare da capo.  Anni dopo arrivò anche in Molise la macchina  linotype con composizione a piombo fuso riga per riga, un po’ più facile da utilizzare rispetto al primo secolare sistema. Per chi è nato con la tastiera del computer vicino alla poltrona, forse ha difficoltà a immaginare il grande vantaggio per l’epoca di un moderno strumento, ma lontano tecnologicamente dalla composizione attuale della scrittura. 


Infatti, ora, per avere l’articolo stampato, lo scrivo sul computer e lo mando in redazione, la quale, dopo controllo,  lo invia all’impaginatore che realizza tutto il giornale con un apposito programma installato sul suo pc e poi, una volta avuto l’ok dal direttore, invia direttamente il tutto alla tipografia e il giornale è realizzato, senza che nessuno si sia mosso dalla propria sedia.
Ai miei tempi, viceversa, il giornalista e il linotipista dovevano lavorare gomito a gomito vicino ad una diabolica macchina, la linotype, che possedeva l’arte di comporre i pensieri con il piombo, come direbbe un poeta. Ma che, in effetti, con un rumore assordante, fondeva il piombo, sprigionando nuvole di vapore e, grazie alle dita agili del linotipista e alla paziente opera di revisione del giornalista, riusciva a comporre il giornale , con una perfezione e nitidezza ineguagliati.
Per come me la ricordo io, la composizione avveniva nel  seguente modo: un “crogiuolo”  posto alto

giovedì 29 settembre 2011

56. Quando a novembre si faceva "San Martino"

Ho 8-9 anni, sono in un ampio cortile, è novembre, ma sembra tornata l’estate,  e sto guardando la mia amica Norina mentre, aiutata dal padre, viene issata su un carro trainato da due mucche che la porterà  verso una nuova vita. Non sono sola, nell’aia si sono radunati  i vicini per un ultimo saluto.
In quel carro è stipato tutto quello che la famigliola possiede: 5-6 sedie, un tavolo, un comò, un armadio, una madia, le stoviglie, gli attrezzi agricoli: pochi metri quadri di miseria. Con lei, il carro si porta via un pezzo del mio cuore perché Norina è  la mia amica più cara, quella con cui ho condiviso i salti nel fienile, le corse nei verdi prati, le camminate alla fonte per prendere l’acqua, il tragitto per andare a scuola: tutto quello che faccio, lo faccio con lei. E non capisco perché la famiglia, ora, debba lasciare il paese ed andare verso una destinazione lontana ed a me ignota.

lunedì 16 maggio 2011

55. Lavorazione a mano delle foglie di granturco o mais

Questi lavori sono stati realizzati a mano con le foglie di granone o mais durante l'inverno 2010/2011 dalla Signora Cristina Gualtieri di Baranello per il blog di Altri tempi.

IL GRANONE NELL'ALIMENTAZIONE
Tra le piante più interessanti del mondo contadino di una volta c'era il granone, o mais, o gran turco o formentone (tutti i nomi vanno bene).

Originaria del nuovo Messico, la pianta, portata in Spagna dopo la scoperta dell'America, ha stentato a diffondersi fino al '600. Furono, infatti, gli arabi, che avevano soggiornato in Andalusia nel periodo musulmano, a diffondere il mais nel Medio Oriente. La pianta venne successivamente reintrodotta in Europa dai commercianti italiani: da lì il nome di "gran turco".

Questa pianta ha ancora, al giorno d'oggi, un'importanza primordiale nell'alimentazione umana e animale.
Il mais può essere mangiato in vari modi. Il più semplice è di lessare o fare alla griglia le sue pannocchie. Inoltre, i grani, schiacciati e tostati, diventano corn flakes, oppure, solo tostati, scoppiano e si trasformano in pop corn. In Italia la farina, ricavata dalla macinazione dei chicchi, è utilizzata per preparare piatti gustosi come la polenta o la pizza di granone, alimentazione fondamentale per la sopravvivenza durante gli anni di carestia in Italia (come per esempio nei periodi di guerra). Dice mia madre, che, dopo aver mangiato polenta tutte le mattine, le contadinelle uscivano dall'inverno fresche come rose… ci dovremmo provare anche noi!
Altro prodotto importante dal mais è l'olio: tra i migliori dopo quello di oliva. E, infine, non tutti sanno che il mais è impiegato anche nella fabbricazione di liquori.
Questo è il lato "alimentare" della pianta. Ma dal granturco, in tempi non molto lontani, la donna riusciva ad utilizzare integralmente tutto l'arbusto.
Per esempio, le sue le foglie, una volta seccate, venivano utilizzate per imbottire i materassi (come già detto nel post 12 da Lucia), oppure, intrecciate, formavano cestini, vassoi e scarpette o ciabattine. Inoltre, la sua pannocchia vuota, ovvero il "mulgat", come si chiamava in dialetto emiliano, o "catullo" in quello molisano, veniva utilizzata per accendere il camino perché si infiammava facilmente. E altrettanto si faceva con il gambo che si adoperava quasi sempre quando si doveva far bollire l'acqua del paiolo per fare il bucato.

Insomma questa pianta era davvero preziosa per i contadini che erano quasi totalmente autosufficienti dal punto di vista alimentare, ma anche da quello manufatturiero.
Inoltre, il mais era ed è ancora molto importante nell'alimentazione animale.

Vassoio con pigna

L'UTILIZZO DELLE FOGLIE DI GRANONE O MAIS NEL MONDO CONTADINO

martedì 29 marzo 2011

54. Guerra in Umbria: 1943, i ricordi di un ragazzino di allora

La guerra è stata ed è per quelli che si avvicinano agli ottanta un ricordo incancellabile. Questo blog, incentrato sui tempi passati, non poteva non tenerne conto. Ecco la lucida e interessante testimonianza di Giorgio Bechelloni di Città di Castello…..





Città di Castello, in Umbria, ha un nome che fa pensare a uno scenario di fiaba. E per i quattro ragazzi Bechelloni (fra cui io, Giorgio, nato nel 1930) − famiglia della quale si hanno notizie in Umbria fin dal Cinquecento – nelle vicinanze c’era un luogo veramente fiabesco: Villa San Savino.

Giunta a mia madre Laetitia per via ereditaria, e in origine una casa di caccia, è una villa di oltre 50 stanze, costruita nell’Ottocento in stile pseudo-rinascimentale toscano tipico della zona, circondata da un'ampia tenuta. Un particolare però la distingue da altre dimore del genere: la sua torretta è stata riconosciuta dalla Società Geografica Italiana come il punto trigonometrico dell’Italia centrale: insomma, segna esattamente il centro dell’Italia centrale!

Il cancello monumentale in ferro battuto, la “pergola greca”, cosiddetta per via delle antiche colonne provenienti da una villa in Toscana sempre dello zio proprietario originario di Villa San Savino, la limonaia, il parco dove si erge anche un mandorlo millenario, il vasto panorama sulla Val Tiberina: per noi ragazzini di città era un regno sconfinato, magico, di bellezza e libertà.

Alcuni miei incancellabili ricordi sono legati a Villa San Savino e vorrei menzionarli qui in occasione dell' anniversario dell’unità d’Italia.
Era il 1943. L’Italia era divisa in due, al Nord c’era la Repubblica Sociale sotto il tallone dei nazisti. A Roma si moriva letteralmente di fame, c'era il coprifuoco, la benzina era razionata, non c’era riscaldamento, si viveva nella paura. Una sera mia madre ci annunciò avvilita che l’intera cena della nostra famiglia consisteva in un’unica cipolla. Il po’ di carne che rimaneva era per la balia che allattava la mia sorellina di pochi mesi. Io scoppiai a piangere perché sentivo i morsi della fame.
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mercoledì 16 marzo 2011

53. VIVA L'ITALIA

Noi italiani abbiamo la fortuna di essere nati in uno dei paesi più belli del mondo. Da Nord a Sud i paesaggi sono da mozzafiato. I nostri antenati ci hanno lasciato un patrimonio urbanistico eccezionale. Siamo una terra di grandi geni che hanno arricchito il mondo con le loro idee: scienziati, poeti, scrittori, cineasti, santi, navigatori, musicisti, tenori, pittori, architetti. Il Dizionario biografico degli italiani, che raccoglie tutte le biografie dei più grandi e famosi, è arrivato al 70esimo libro e ne sono previsti 110!


Non può essere che si butti a mare tutto per mero interesse economico. Dobbiamo ricordarci che la ruota gira e, non è detto, che fra 20, 30 o 40 anni sia il Sud à essere più ricco.
Stringiamoci "a coorte", e siamo orgogliosi di questo paese!
Ringrazio i padri fondatori che hanno saputo realizzare il loro grande sogno unificando l'Italia che − anche nella mente di altri popoli − era già tale molto prima del 1861.
Auguri a tutti gli italiani.

VIVA L'ITALIA! UNITA E INDIVISIBILE.
Barbara Bertolini

domenica 13 marzo 2011

52. Il ricordo di un garibaldino per festeggiare l'Unità d'Italia

Anche questo blog vuole unirsi ai festeggiamenti per l'unità d'Italia. L'occasione me la dà Nicoletta Barbarito, che ormai conoscete perché dalla sua penna escono pezzi da grande "reporter"...
Ella scrive:


Ecco il mio piccolo contributo alle commemorazioni dell'anniversario dell'unità d'Italia:
la foto del mio bisnonno, Emilio de Lama, di Parma, che nel 1866, a 16 anni, scappò di casa per unirsi alle truppe di Garibaldi. Una bravata poco apprezzata dalla famiglia che comunque non gli avrebbe dato il permesso di partire.
La foto fu scattata a Brescia, punto di raccolta dei giovani di Garibaldi. La camicia rossa e il berretto rosso furono in seguito donati dalla figlia Albertina, mia nonna materna, al Museo garibaldino che si trova a Roma accanto annesso alla basilica di S. Maria degli Angeli a Roma.

Tutto quello che so di lui viene solo dai ricordi di mia nonna (la quale fisicamente gli somigliava moltissimo).
Era aitante, simpatico (da giovane anche gran burlone, scavezzacollo), con gli occhi azzurri, e una splendida voce da tenore. Cantava con le finestre aperte e i vicini lo applaudivano incantati. Sognava di calcare le scene del Teatro Regio di Parma, allora come adesso celebre tempio della lirica. Anche in questo caso però la famiglia de Lama - di piccola nobiltà provinciale e tradizionale - si dimostrò contraria.

Emilio ebbe una bambina dalla giovane moglie Marianna, di famiglia modesta, che morì di parto. Si risposò successivamente con Laudomia Toscani, una bravissima ragazza che faceva la sarta a Parma. I genitori, infastiditi da questo nuovo colpo di testa, costrinsero Emilio a lasciare Parma. Della famiglia di Parma mia nonna Albertina conservò fino alla morte una grande nostalgia, ricordandone la grande casa, i nonni imponenti (che lei, "la bimbina", chiamava Babbo Grande e Mamma Grande) che si esprimevano in dialetto parmigiano o in francese, la villa in campagna, i numerosi zii e zie, dei cugini dai nomi impossibili che amava ripetere ridendo: Azelia, Burcarda, Cadmo, Driope, Elle, Fillide, Glauco, Learco, Romano (quest'ultimo almeno se l'era cavata!). Su quei parenti raccontava vecchi e spassosi aneddoti, che evidentemente sapeva da suo padre. Se Emilio non fosse stato un giovane tanto "scomodo", Albertina avrebbe probabilmente avuto una vita più serena e agiata.
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martedì 8 marzo 2011

51. Quando l'insegnamento scolastico terminava in 3a elementare

Diploma di maturità, laurea, master, i giovani di oggi, in fatto di istruzione, non soffrono certo più di analfabetismo, anzi. Super istruiti, superpreparati culturalmente, hanno passato i primi vent'anni della loro esistenza nello studio delle conoscenze: in 10 mila anni di storia dell'umanità, è la prima volta che il sapere viene inculcato ad intere generazioni di ragazzi nel mondo intero!

Nessuno di loro può quindi immaginare in che condizioni andavano a scuola i loro nonni o bisnonni.

Nel piccolo paesino emiliano di San Giovanni, l'anno 1930 è lo spartiacque dell'istruzione. Quelli nati prima, andavano a scuola dell'obbligo solo fino alla terza elementare. Gli altri (generati dal 1930 al 1949) terminavano la quinta elementare. Dopo il 1960 l'obbligo, in Italia, si è esteso anche alle medie.

A raccontarmi l'istruzione rattoppata delle passate generazioni, ci prova Adele, nata sul finire degli anni venti del '900. Lei, rispetto alle sorelle maggiori, ha avuto la fortuna di fare qualche mese di quarta. Ma, come le altre, prima di andare a scuola, doveva portare a pascolare le pecore: alzata all'alba, poi via per campi e boschi, ritorno a casa con quelle maledette bestie che scappavano da tutte le parti, poi, grembiule, cartella, provvista di legna per la stufa durante l'inverno, e di corsa a scuola. Alle 8.30, come lei, tutti i bambini del paese si raccoglievano a Cà d'Funsin, in una stanza dove l'unica maestra, Teresa Munarini, impartiva le lezioni a tre classi contemporaneamente. Aste e punto il primo anno, per imparare a scrivere. Il secondo, un po' di aritmetica e di scrittura e, il terzo, scrittura, lettura e aritmetica.



mercoledì 23 febbraio 2011

50. Antichi Romani e il mio viaggio-studio negli Stati Uniti

di Nicoletta Barbarito

Anni fa con il mio nipotino di 5 anni - in visita dalla California – andai al Colosseo. Più che dall’immenso edificio, il bambino fu impressionato dai finti gladiatori romani con le facce truci, cimieri, mantelli svolazzanti e daghe di legno argentato. Li osservò a lungo, pensieroso, girando loro intorno, poi disse in tono serio, “Nonna, quando tu eri piccola, al tempo degli antichi Romani…”

Domanda giustificata, agli occhi dei bambini tutto è contemporaneo! Proprio al tempo degli antichi Romani non c’ero, risposi, ma a Roma nell’altro secolo sì, fin da prima della metà. Sempre tempi antichi erano.
In quei tempi di romani antichi, andai in America (1960).

Fra il vecchio e il nuovo mondo non c'era soltanto l’oceano. Era proprio un altro mondo. Chi in Italia conosceva i due Paesi (emigranti a parte) ci era arrivato attraverso gli studi, i libri, il cinema, le canzonette, il jazz. Dopo la ricostruzione degli anni Cinquanta, l'Italia era sì in pieno boom economico, ma nelle famiglie borghesi e in generale per le ragazze, ancora poco si era mosso. Il femminismo era di là da venire, i diritti delle donne erano ai primordi, non c’era il divorzio. Solo chi aveva finito il liceo poteva accedere a tutte le facoltà universitarie: studi seri, i professori onnipotenti, severi, distanti. Turisti di passaggio e residenti stranieri a parte, nello stivale tutti erano italiani, mangiavano all’italiana, pochi avevano familiarità con le lingue (e semmai con il francese). La maggioranza degli intellettuali italiani che nel dopodguerra hanno tradotto gli autori americani non aveva mai messo piede negli States.

Le Olimpiadi di Roma erano lì lì per cominciare. Ero appena laureata (allora ci si laureava in 4-5 anni, era normale), parlavo piuttosto bene l'inglese avendo fatto due lunghi soggiorni in Inghilterra come ragazza alla pari. Grazie ad una borsa di studio, insieme ad altri 9 borsisti feci la traversata da Napoli a New York sulla "Leonardo da Vinci". Delle mie compagne, soltanto due avevano passato un anno in America, una in un college sempre grazie ad una borsa di studio, l’altra ospite di uno zio giornalista corrispondente da Washington. Anche fra gli intellettuali che negli anni precedenti avevano tradotto e pubblicato in Italia gli autori americani, del resto, pochi avevano visto la Statua della Libertà, avendo imparato l’inglese – chi più chi meno - sui libri.

Arrivati a New York i 10 borsisti presero strade diverse. La destinazione mia e di due bolognesi era Cornell University a Ithaca, stato di New York, non lontano dalle cascate del Niagara. Un immenso campus su verdi colline, con torrenti, laghetti e una cascata.

Il nome “Ithaca”, in particolare, mi attraeva, venivo da studi classici. Che fosse la fine piuttosto che l’inizio di un’avventura? Un ritorno? Non troppo lontano da Ithaca, circa sei ore di viaggio da NY, vedo tre cartelli direzionali: Berlin, Babylon, Rome. Fantastica, sconcertante geografia, anche liberatoria. Nel Nuovo Mondo è tutto da inventare. Ma perché aver chiamato “Babilonia” una tranquilla cittadina nel verde? (magari c'è anche una Sodoma,da queste parti...)
Vi passo, scrivendole al presente, alcune mie impressioni di allora. Sì, è roba stantìa, banale “déjà vu”! Le distanze ormai non esistono più, gli italiani viaggiano freneticamente, Google solleva in un attimo da ogni curiosità. Ma allora, per una "antica romana" oltretutto giovane, erano grandi novità da scrivere a casa (obbligatoriamente una volta la settimana), esperienze invidiabili e invidiate.
 

venerdì 21 gennaio 2011

49. Il tempo dilatato dell'infanzia

Non si può andare, come Proust, alla ricerca del tempo perduto. Ma si può sognare di quel tempo dilatato che hanno usufruito, durante la loro infanzia, quelli nati fino agli anni '60 del secolo scorso. Dopo non è più possibile, perché i tempi moderni hanno catapultato nel nostro mondo mezzi che hanno fatto correre il tempo, tanto da metterci l'affanno per tenergli dietro. Cosa è successo? Perché ognuno di noi ha l'impressione che le settimane, i mesi, gli anni, volino?
Quando penso al tempo della mia infanzia, affiora subito alla mia mente un'immagine di infinita serenità: un biroccio trainato da due pacifiche mucche mi sta trasportando, con tutto il carico, verso casa. Sono seduta su un enorme mucchio di erba che inebria le mie narici con i suoi mille odori. Non c'è nessuna fretta, i ruminanti conoscono la strada e la percorrono, lentamente. E' una bella giornata di maggio, comodamente seduta, assaporo i raggi del sole e il procedere cadenzato delle bestie mi culla e mi lascia la libertà di far vagare la mia mente.
Questo è il mio tempo dilatato, quello che rimpiango quando, ora, troppi impegni si accavallano.
Un tempo che sembra anni luce lontano da quello attuale. All'epoca vivevamo in simbiosi con i cicli della natura e, poiché si andava sempre a piedi o, al massimo in bicicletta, non poteva esserci fretta.

Racconta la Signora Armentina (la decana di questo blog) che addirittura quando era giovane (1940), in casa sua non c'erano orologi. Per cui ci si regolava per le varie attività della giornata solo dalla luce del giorno e dalle campane che, nei paesini, suonavano alle sei, a mezzogiorno, al vespro per richiamare i fedeli ma che, in effetti, scandivano la giornata di lavoro agricolo: inizio lavoro, pausa pranzo, fine lavoro; un suono che si espandeva nelle campagne a distanza di chilometri.
Un altro fattore importante per regolarsi sul tempo, era il sole. Armentina dice che, per accendere il fuco per il pranzo, le bastava guardare quando l'ombra arrivava al secondo scalino della sua gradinata. Nel mondo contadino tutto era questione di osservazione, attraverso questa, infatti, e alle esperienze acquisite, l'agricoltore sapeva far fruttare la natura: tradizioni e savoir faire tramandati da generazioni.


venerdì 31 dicembre 2010

48. Cinque regole per avere buone relazioni e passare un eccellente anno

Dal punto di vista relazionale, per essere sicuri di passare davvero un buon anno, ecco cinque regole infallibili:



1. Liberate il vostro cuore dall'odio
2. Liberate la vostra mente dalle preoccupazione
3. Vivete semplicemente
4. Date di più
5. Aspettatevi di meno



Du point de vue des relations, pour être surs de passer vraiment une bonne année, voilà cinq règles infaillibles:

1. Libérez votre cœur de la haine
2. Libérez votre esprit des inquiétudes
3. Vivez simplement
4. Donnez plus
5. Attendez moins

lunedì 20 dicembre 2010

47. Questa piccolissima serenata......

C'era una volta un innamorato che per conquistare la ragazza del cuore aspettava lo scoccar della mezzanotte poi andava sotto la finestra dell'amata ed eseguiva una bella serenata….
C'era una volta, ma non c'è più: come si può fare oggi con i supercondomini e la musica heavy metal, tecno o hardcore! Impossibile per i giovani creare un'atmosfera di "Luna caprese", "Occhi di ragazza" o "Il cielo in una stanza"…..

Allora, non resta che farmi raccontare queste memorabili serenate da una delle ultime protagoniste che ha avuto la fortuna di viverle. Si tratta di Assunta e, il suo amato, di romantiche serenate glie ne ha fatte molte perché era intonato, sapeva suonare, e, soprattutto, ci teneva a marcare il "territorio" per sapere se la dulcinea accettava o no la sua corte.

C'era un rito specifico? Come avvenivano questi concerti casalinghi e quale impatto avevano presso le famiglie?

La serenata serviva a far capire alla ragazza prescelta che si aveva intenzione di costruire qualcosa di serio con lei e, nello stesso tempo, era anche un impegno "pubblico" preso nei riguardi della famiglia.
Anche se fare la corte era codificato dai tempi antichi, nel paese di Assunta, negli anni '60, la cosa nasceva quasi sempre nel bar. I giovani (solo uomini) vi si riunivano dopo cena per giocare a carte e, aiutati da qualche buon bicchiere di vino che metteva la giusta allegria, cominciavano a suonare e a cantare e finivano, inevitabilmente, per parlare di donne.
«Giovà, oggi t'ho visto che facevi il cascamorto con Assunta. Ti piace la guagliuncella eh?». «Perché non andiamo a fargli una bella serenata?», lanciava uno. E così, qualche volta per scherzo e qualche volta a ragione si formava un gruppetto di amici, una band si direbbe ora, con l'immancabile fisarmonica, e si andava sotto il balcone della bella a suonare almeno tre canzoni. In genere erano scelte dal repertorio napoletano. Ma non mancavano gli ultimi successi canori come quelli di Gianni Morandi, Adriano Celentano, Fausto Leali, Mina, Edoardo Vianello o Massimo Ranieri.

Per queste serenate c'erano due tempi: il primo era quando la ragazza non aveva ancora ufficializzato il rapporto e poteva anche essere completamente all'oscuro del desiderio amoroso del ragazzo. In quel caso ascoltava nella sua stanza, senza accendere la luce od aprire le imposte. Se gradiva o no, lo avrebbe fatto capire all'innamorato il giorno dopo, con uno sguardo (sorridente o duro), incontrandolo per strada. Mentre i cantanti-suonatori potevano rischiare di ricevere una secchiata di acqua in testa dai genitori della ragazza, che non apprezzavano il pretendente, o dai vicini, che non amavano il baccano. Il secondo, invece, era quando i due erano già fidanzati e si dovevano sposare. Lì la serenata era d'obbligo. Bisognava presentarsi allo scader della mezzanotte sotto il balcone dell'amata che, dopo il duetto o quartetto (dipendeva dal numero di cantanti e suonatori) accendeva la luce e, se si affacciava al balcone, accettava la corte! Se le imposte restavano chiuse voleva dire che si era messa male per il futuro sposo.

E il vicinato, come prendeva questi rumori molesti?
Anche se si ascoltava la più melodica delle canzoni, venir svegliati nel cuore della notte era una vera minaccia per gli imprudenti. Ma, per fortuna, queste serenate avevano la loro stagione, l'estate, dove, comunque, si facevano le ore piccole. E Assunta dice che le vicine, il giorno dopo, si felicitavano con lei dicendo quanto fossero stati bravi i cantanti e i suonatori. Insomma tutto il vicinato apprezzava queste serenate che mettevano allegria, che permettevano agli anziani di fare un tuffo nel loro passato e che creavano un diversivo piacevole in un ambiente dove non succedeva mai nulla di nuovo.
Barbara Bertolini©2010tutti i diritti riservati

mercoledì 10 novembre 2010

46. Portati la sedia e cinque lire se vuoi vedere la tivù!

La televisione, al suo apparire, ha un immediato successo: grandi e piccini la vogliono vedere ma il costo per le famiglie contadine di quel tempo è troppo alto. Allora, come si fa? Semplice, la comperano gli unici che vedono circolare un po’ di soldi nel proprio commercio: il bar del paese o lo spaccio che è quasi sempre la stessa cosa.
Da noi di Cà di Pas, il primo ad indebitarsi per comperare il televisore - che costava quanto la paga media di un anno di lavoro - è stato il barista Licinio, il quale l’aveva piazzata nella stanza che prima la sua famiglia aveva adibito a sala da pranzo. Licinio, un omone rotondo, con l’eterno borsalino in testa e un orologio legato con una lunga catena d’oro che suscitava la mia ammirazione, si occupava dell’osteria, mentre l'Adelina, sua moglie, badava ai clienti dell’adiacente negozio e, dopo aver liberato dai pochi mobili la stanza “della televisione”, aveva invitato tutti i paesani che volevano seguire le trasmissioni, a munirsi di sedia e di 5 lire.

Già la prima sera mezzo paese era lì, inchiodato a guardare la tivù. Le massaie si erano affrettate a far la cena e a lavare i piatti perché alle 20 e 50 e, per dieci minuti, era trasmesso il programma più amato dalle famiglie italiane: "Carosello", la pubblicità veicolata da sketch comici o ironici che si ripetevano tutte le sere, come le favole e, per questo, prediletta da noi bambini, arrivati senza sedia (però con i soldini), seduti per terra davanti al piccolo schermo.

Insomma alla fine degli anni Cinquanta la televisione era vista come quando si andava al cinema: commentando, ridendo, piangendo, tutti insieme appassionatamente.
E piano piano Carosello ha formato l’(in)coscienza dei neoconsumatori. Mentre altri programmi come Il Musichiere di Mario Riva, Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno, Il Festival di San Remo, hanno modellato la nostra italianità. 

E’ la televisione che ci ha insegnato a parlare italiano; è lei che ci ha permesso di memorizzare i confini del mondo, è ancora lei che ci ha fatto venire gli incubi con le immagini di catastrofi, di guerra fredda, di crisi di governo o dell’instabilità della lira. Prima di lei, il nulla.

Per chi vuole saperne di più: la prima televisione meccanica fu inventata da un ingegnere scozzese, un certo John Braird che depose un brevetto nel 1923. Mentre la prima televisione elettronica fu inventata dal giapponese Kenjiro Takayanagi nel 1926. Le prime trasmissioni televisive partirono da Londra nel 1932, quando la BBC intraprese di diffondere programmi regolari di televisione.

In Italia le prime prove sperimentali televisive si svolsero a Torino nel 1934 dal Centro EIAR (in seguito RAI). Il primo trasmettitore televisivo (senza il quale non si possono ricevere i segnali) fu installato a Monte Mario a Roma nel 1939.
Con la guerra Mussolini fece sospendere tutte le trasmissioni. Bisognò aspettare il 1949 prima di ricominciare da capo. In Italia, la prima trasmissione regolare cominciò solo dal 3 gennaio 1954, a cura della RAI.
Barbara Bertolini

mercoledì 27 ottobre 2010

45. La prima volta che ho visto la televisione

Negli anni ’50 del secolo appena passato, una piccola finestra affacciata sul mondo ha rivoluzionato il nostro modo di vedere e percepire le cose:  la televisione!  Ecco la prima volta che ho visto questo schermo magico…. correva l’anno 1958 (forse)





Ho  9 o 10 anni (non ricordo bene), verso le 11 del mattino sto tornando a casa in compagnia di Angela e passiamo davanti all’Asilo, una struttura che a San Giovanni è punto di riferimento importante poiché vi è il cinema e un ricovero gestito da suore che ospita piccini e handicappatati in difficoltà.

Angela, una bella ragazza che ha appena festeggiato i suoi 14 anni, appartiene a quella categoria di persone comunicative, allegre, la simpaticona per eccellenza la cui compagnia è molto richiesta. Dal cinema si affaccia qualcuno e la chiama, le deve far veder una cosa davvero particolare. Entriamo curiose e là, su un tavolo, è poggiato uno scatolone cubico con una facciata a vetro, circondato di legno liscio. Sotto, dei pulsanti che qualcuno s’ingegna a far funzionare. Poi, all’improvviso, lo schermo s’illumina e compare un topolino con una voce nasale strana, che corre dietro ad un cane tonto dal nome Pluto. E’ Mickey Mouse. Non so cosa sia un cartone animato, è la prima volta che ne vedo uno, anzi è la prima volta che vedo la televisione, e la mia risata parte immediata, rigogliosa, prolungata, più vedo il topo e più rido, non riesco a fermarmi. Con la mia ilarità cristallina contagio le tre-quattro persone presenti, tutte adulte. Loro non ridono per topolino, non lo capiscono, ridono della mia allegria. Invece, per me, è amore a prima vista. D’ora in poi, qualsiasi cartone animato mi inchioderà vicino a quella magica scatola e, a qualsiasi età, non smetterò di divertirmi con le animazioni di Walt Disney and Cie.

Va detto che quella trasmissione mattutina era sperimentale, poiché fino alla metà degli anni ’60 i programmi televisivi si trasmettevano solo a partire dalle 8 di sera, in bianco e nero ben inteso.

Barbara Bertolini

sabato 11 settembre 2010

44. Le famiglie patriarcali

(famiglia patriarcale del 1920)


Le famiglie patriarcali di una volta erano litigiose come i Simpson, simpatiche come quella di “Happy Day” o pasticcione come le attuali famiglie allargate?








La famiglia contadina patriarcale si è disgregata con la modernità perché l’invenzione di nuovi mezzi agricoli ha permesso di poter lavorare la terra con meno braccia. Per un piccolo podere di 15 biolche, per esempio lavoravano, un tempo, per quasi 12 ore al giorno, 6-7 adulti. Ora, per la stessa superficie basta e avanza il lavoro di due persone, che possono permettersi anche di svolgere un’altra attività.



Se chiedo alla Signora Armentina della società contadina della sua gioventù, ricorda solo una grande miseria. Riecheggiano ancora alle sue orecchie le esclamazioni della Signora Cesira venuta a chiedere un po’ di farina per i suoi 7 figli: «Oh Lina, incoeu i me’ fieu an gan propria gnent, am dareset un po’d farina per la pulenta?» (O Lina, anche oggi i miei figli non hanno nulla da mangiare. Mi daresti un po' di polenta?) Sì, perché i ricordi arrivano alla sua mente solo in dialetto. Ricordi di povertà, di come mamma Lina aiutava quelli più bisognosi di lei. A casa sua non erano ricchi, ma almeno si mangiava tutti i giorni, anche durante la guerra. Una famiglia di gran lavoratori la sua. Guardando nel  passato rammenta che «non c’erano cose né belle, né simpatiche, si doveva lavorare e basta. La terra, come nelle favole, era generosa solo se gli dedicavi tutte le tue energie. C’era sempre qualcosa da fare: falciare l’erba, mietere il grano, battere la canapa, rastrellare il fieno, mungere, fare il pane per l’intera settimana, travasare il vino, insaccare le salcicce, filare la lana. Tutto e di più ». Così sentenzia l’Armentina.

Però, poco a poco, si delinea nella sua mente la personalità di nonno Orazio, il padre-padrone della famiglia, il patriarca la cui autorità non è mai stata messa in dubbio da nessuno dei figli o dai generi perché aveva saputo, con il tempo, far vivere la sua prole in una certa agiatezza. Nonno Orazio, oltre al podere, commerciava in bestiame con la vicina Toscana. Nella tarda primavera s’incamminava a piedi con le bestie e 3 o 4 vaccari, percorrendo, tra andata e ritorno, anche 200 km. Ritornava orgoglioso degli scambi o delle vendite. Infatti di questi viaggi riportava olio e sale, i due generi alimentari che la sua terra non poteva produrre.

Ecco il racconto di Armentina:
«Quando sono nata, negli anni Venti, in casa vivevano 11 persone, di cui tre bambine. Poi due giovani zie si sono sposate e siamo rimasti in 9 di cui 4 maschi adulti e 5 femmine. Successivamente sono nati altri bambini.
L’incontestabile figura di Orazio regnava su tutti noi. La mattina o la sera, intorno al tavolo, discuteva con gli uomini i lavori da fare: erano ordini precisi, netti, indiscutibili. Se c’erano delle controversie era lui a redimerle. Insomma era il grande saggio e, a distanza di tempo, mi è rimasta una percezione molto positiva di quest’uomo, malgrado la sua severità.
La figura della “razdora”, la padrona di casa, veniva assunta

sabato 26 giugno 2010

43. Il bucato del tempo passato

“♪ Amor dammi quel fazzolettino, amor dammi quel fazzolettino vado alla fonte e lo vado a lavar. Io lo lavo con acqua e sapone……♫”, recita una delle più conosciute canzoni del folclore italiano.

Un giovane oggi non capirebbe perché un innamorato doveva andare alla fonte per lavare il fazzoletto e non nel lavandino di casa o dentro la lavatrice?

Cari ragazzi, che sapete tutto sui videogiochi, telefonino, software, facebook , sms o gps, vi siete persi un collegamento importante nella vita, quello tra saper fare e saper utilizzare! Voi siete solo gli utilizzatori finali dei prodotti. Mentre nel passato bisognava soprattutto saper fare poiché da ciò dipendeva la sopravvivenza della famiglia.

E questo blog è “l’anello mancante” quello che fa riemergere dal passato il “saper fare”!
Ecco perché mi sono fatta raccontare dall’Armentina una delle attività più importanti della “razdora”, padrona di casa, ovvero come si lavava il bucato quando non c’era l’acqua in casa e i detersivi che si utilizzavano.

Come si faceva il bucato prima della modernità?
Il bucato del “bianco”, lenzuola, canovacci, tovaglie, asciugamani di canapa ecc… veniva fatto una volta al mese. E bastava, perché la fatica era molta e vi lavoravano tutte le donne di casa per un’intera giornata che doveva essere soleggiata. Poiché si viveva in famiglie allargate, si arrivava facilmente a 15 persone e il cumulo della biancheria riempiva decine di ceste.

Dopo aver portato a casa l’acqua, si faceva una prima passata ai panni, sporchissimi, con spazzola, sapone, e molto olio di gomito. Questa biancheria appena strofinata

martedì 1 giugno 2010

42. Colpita da un fulmine è salvata dalla terra....

La croata IVANKA lascia a questo blog una testimonianza davvero fuori dal comune.

Se ora posso raccontarvi la mia storia lo devo a zio NEDO che ha saputo riportarmi in vita con un metodo antichissimo, tramandato dalla memoria del tempo.
Ero nelle mie 17 primavere, la mia casa era situata in un grazioso paese croato, circondata da tante altre. Ero sola nella mia stanza, mentre mia mamma e mia sorella stavano affaccendate in cucina. Di fronte alla mia casa c’era quella di zio Nedo che stava guardando dalla sua finestra il forte temporale che si era abbattuto sulla zona. I nostri sguardi si sono incrociati e ci siamo fatti un cenno di saluto. Poi, all’improvviso, un forte bagliore ha invaso tutta la mia stanza e io mi sono accasciata. Mia mamma e mia sorella non si sono accorte di nulla. Solo zio ha capito che qualcosa non andava perché dopo il bagliore non mi ha più visto. Corre da noi, allerta mia mamma: mi trovano inanimata sul pavimento, colpita da un fulmine. Non reagisco ai loro strattonamenti. Mamma vuole portarmi immediatamente in ospedale. Zio la ferma e, come un forsennato, esce e chiama tutto il vicinato. Ordina loro di scavare una fossa nel giardino il più rapidamente possibile. Nedo è un uomo molto stimato in paese e tutti lo assecondano. Sotto la pioggia battente scavano rapidi fino a quando possono immergervi tutto il mio corpo. Poi, sempre secondo gli ordini di zio, mi ricoprono interamente di terra, lasciandomi fuori solo la testa. E aspettano…., aspettano per ore, preoccupati, scettici, tentennanti. Solo Nedo è sicuro di quello che fa. Ed ha ragione perché all’improvviso apro gli occhi. Mi guardo intorno e non capisco. «Ivanka! Ivanka!» chiama mia madre. Ruoto gli occhi allibita e mi chiedo cosa faccio sotto terra, sotto un diluvio di acqua, sotto gli sguardi meravigliati delle persone?

Nel frattempo è arrivato anche il medico che non può far altro che stupirsi di questo metodo. Mi tolgono dalla terra e mi portano in ospedale. Anche i dottori confermano che se fossi stata portata subito lì, probabilmente non vi sarei giunta viva.
Del fulmine che mi ha folgorata mi rimarrà solo una bruciatura alla gambe e alle mani, il resto, la terra lo ha assorbito.
Nedo aveva scoperto questa antica tecnica facendo il servizio militare, quando un commilitone fu colpito in montagna da un fulmine e curato così.

A mia volta ve la racconto perché sappiate come agire se dovesse succedere la stessa cosa a qualcuno, in un posto magari sperduto.
Di questa storia rimane comunque un profondo mistero: com’è entrato quel fulmine nella mia stanza priva di camino, senza rompere nulla, e con porte e finestre chiuse?
Nessuno, nemmeno la polizia ha mai saputo dare una risposta a questa domanda.
Ivanka            (storia raccolta da Barbara Bertolini)