sabato 11 settembre 2010

44. Le famiglie patriarcali

(famiglia patriarcale del 1920)


Le famiglie patriarcali di una volta erano litigiose come i Simpson, simpatiche come quella di “Happy Day” o pasticcione come le attuali famiglie allargate?








La famiglia contadina patriarcale si è disgregata con la modernità perché l’invenzione di nuovi mezzi agricoli ha permesso di poter lavorare la terra con meno braccia. Per un piccolo podere di 15 biolche, per esempio lavoravano, un tempo, per quasi 12 ore al giorno, 6-7 adulti. Ora, per la stessa superficie basta e avanza il lavoro di due persone, che possono permettersi anche di svolgere un’altra attività.



Se chiedo alla Signora Armentina della società contadina della sua gioventù, ricorda solo una grande miseria. Riecheggiano ancora alle sue orecchie le esclamazioni della Signora Cesira venuta a chiedere un po’ di farina per i suoi 7 figli: «Oh Lina, incoeu i me’ fieu an gan propria gnent, am dareset un po’d farina per la pulenta?» (O Lina, anche oggi i miei figli non hanno nulla da mangiare. Mi daresti un po' di polenta?) Sì, perché i ricordi arrivano alla sua mente solo in dialetto. Ricordi di povertà, di come mamma Lina aiutava quelli più bisognosi di lei. A casa sua non erano ricchi, ma almeno si mangiava tutti i giorni, anche durante la guerra. Una famiglia di gran lavoratori la sua. Guardando nel  passato rammenta che «non c’erano cose né belle, né simpatiche, si doveva lavorare e basta. La terra, come nelle favole, era generosa solo se gli dedicavi tutte le tue energie. C’era sempre qualcosa da fare: falciare l’erba, mietere il grano, battere la canapa, rastrellare il fieno, mungere, fare il pane per l’intera settimana, travasare il vino, insaccare le salcicce, filare la lana. Tutto e di più ». Così sentenzia l’Armentina.

Però, poco a poco, si delinea nella sua mente la personalità di nonno Orazio, il padre-padrone della famiglia, il patriarca la cui autorità non è mai stata messa in dubbio da nessuno dei figli o dai generi perché aveva saputo, con il tempo, far vivere la sua prole in una certa agiatezza. Nonno Orazio, oltre al podere, commerciava in bestiame con la vicina Toscana. Nella tarda primavera s’incamminava a piedi con le bestie e 3 o 4 vaccari, percorrendo, tra andata e ritorno, anche 200 km. Ritornava orgoglioso degli scambi o delle vendite. Infatti di questi viaggi riportava olio e sale, i due generi alimentari che la sua terra non poteva produrre.

Ecco il racconto di Armentina:
«Quando sono nata, negli anni Venti, in casa vivevano 11 persone, di cui tre bambine. Poi due giovani zie si sono sposate e siamo rimasti in 9 di cui 4 maschi adulti e 5 femmine. Successivamente sono nati altri bambini.
L’incontestabile figura di Orazio regnava su tutti noi. La mattina o la sera, intorno al tavolo, discuteva con gli uomini i lavori da fare: erano ordini precisi, netti, indiscutibili. Se c’erano delle controversie era lui a redimerle. Insomma era il grande saggio e, a distanza di tempo, mi è rimasta una percezione molto positiva di quest’uomo, malgrado la sua severità.
La figura della “razdora”, la padrona di casa, veniva assunta
 dalla moglie del patriarca, in questo caso la nonna. Morta lei il timone passava alla moglie del figlio primogenito.
La razdora aveva anche lei dei compiti specifici perché il buon andamento della casa riposava sulle sue spalle. E, non essendogli riconosciuta la figura carismatica del suocero o del marito, era un po’ più difficile per lei farsi obbedire. Ma la razdora era prima di tutto una grande lavoratrice che vegliava su tutto, tutto controllava e il suo posto era la casa quando altre braccia potevano svolgere i lavori dei campi, altrimenti le toccava anche quelli. 
Era lei la prima ad alzarsi per preparare la colazione agli uomini e andare a dare da mangiare alle bestie. Era lei l’ultima ad andare a dormire dopo aver svolto una dura giornata di lavoro. Aveva la fiducia del suocero e del marito fin tanto che si comportava bene: niente grilli per la testa, nessuna possibilità di evadere dalla sua quotidianità: famiglia, casa, chiesa. Il compenso per la sua grande fatica era possedere mentalmente e tangibilmente le chiavi della casa. Se si affacciava un estraneo, chiedeva della razdora perché sapeva che solo lei aveva l’autorità per prendere decisioni.

I bambini, al mio tempo, nella famiglia patriarcale, non erano proprio presi in considerazione, non valevamo nulla, dovevamo solo ubbidire e lavorare.
Forse perché dei tre figli maschi, fino al mio matrimonio, si era sposato solo mio padre, mia mamma non ha avuto rivali femmine in casa ed io non rammento grandi bisticciate. Ricordo unicamente che piccoli e grandi avevamo tanto lavoro da fare che la giornata filava via veloce.
Gelosie, insofferenze, rivalità, venivano tutte taciute o appianate da nonno Orazio.»
Tempi duri per i troppo buoni…..    Armentina

Comunque, fino ai primi anni del secolo scorso, le giovani spose che arrivavano nella nuova famiglia erano subordinate a tutti i membri adulti maschi e, soprattutto, alla suocera che, come abbiamo sentito dalla Signora Armentina, lavorava molto anche lei e decideva chi doveva fare che cosa. 
Per fortuna ci si sposava spesso tra parenti (fratelli, cugini o parenti alla lontana), ciò che permetteva alla sposa di poter continuare a frequentare la sua famiglia d'origine, altrimenti le era difficile poter decidere di andare a rendere visita a sua madre, per esempio, se la suocera non voleva. Insomma la vita per la giovane sposa non era facile. Ma, in quel periodo, la vita non era facile per nessuno.
Barbara Bertolini - tutti i diritti riservati

1 commento:

Giovanna ha detto...

Nonno Orazio, come ce lo racconta Armentina, mi sembra un manager che guida la sua industria. O sbaglio? E le povere donne, loro, sempre a lavorare...
In quanto ai bambini, che cambiamenti! ora sono diventati dei reucci che rompono le scatole (non voglio questo, non voglio quello) e sanno solo comandare...