martedì 27 aprile 2010

39. Penna, inchiostro e calamaio

Daniela anni fa mi chiese: «Ma cos’è sto calamaio di cui sento parlare in una trasmissione televisiva?»
Perbacco, mi sono detta, come si fa a non conoscere questo strumento che è stato, fino al 1959, il pane quotidiano per milioni di ragazzini che hanno frequentato le scuole elementari di mezzo mondo? Ma Daniela è nata dopo gli anni ’70 e questa boccettina piena d’inchiostro, in cui si intingeva la penna per poter scrivere, non l’ha mai usata, così come non l’hanno usata tutti quelli che sono entrati in prima elementare dopo il 1960.

A decretare la morte del calamaio (insieme alla penna con pennino e all’inchiostro) è stata la BIC.
Insomma la fantastica penna a biro che non doveva più essere immersa nell’inchiostro per scrivere, che non faceva più macchie una volta posata sulla carta, che non sporcava più i quaderni, le mani, il grembiulino e i compagni di banco di qualche bambino birichino che si divertiva a spruzzarli con l’inchiostro, è nata nel 1953.

Fu il barone francese Bich a liberare migliaia di ragazzini dalla schiavitù dell’inchiostro. Il nobile francese non inventò la biro, perché questa era già stata inventata nel 1938 da due fratelli ungheresi, Lazlo e Georg Biro che si erano rifugiati in Argentina durante il fascismo, ma mise a punto un processo di fabbricazione industriale che permise di abbassare enormemente il costo della penna a sfera e, quindi, di venderla ad un prezzo che sfidava qualsiasi concorrenza. La BIC cominciò ad essere commercializzarla in tutta Europa dopo la metà degli anni ’50. Pensate che ancora al giorno d’oggi se ne vendono più di 15 milioni di esemplari al giorno.
I bambini di prima si ricordano ancora del banco di scuola a due posti dove, sul lato destro di ogni scolaro o in mezzo, vi era un buco per far entrare il calamaio: una boccetta di vetro che si riempiva di inchiostro.
Una tortura utilizzare la penna e il pennino che si spuntava quasi sempre, macchiando e bucando il foglio appena scritto. Lo scolaro quando ritornava a casa aveva continuamente il pollice destro sporco di blù, così come era blù un angolo della bocca dove egli appoggiava la parte finale della penna mentre era assorto nelle sue profonde riflessioni.

Il gesto per scrivere era quello di intingere la penna col pennino nel calamaio, poi si davano due colpetti per togliere l’inchiostro in eccesso (che spesso andava a finire sulla schiena dello scolaro davanti) e, via sul foglio a scrivere quello che dettava la maestra.
L’altro strumento importante da utilizzare con la penna e l’inchiostro era la carta assorbente: senza quella la macchia si allargava e invadeva metà foglio. Per cui ognuno di noi ne aveva una buona scorta. Nei casi disperati si utilizzava anche il talco, un assorbente antico ed efficiente. Altra scorta indispensabile era quella dei pennini che, per chi aveva la mano pesante come la mia, li spuntava continuamente.
Noi scolari di “penna, inchiostro e calamaio” siamo passati alla biro senza nemmeno accorgercene, anche se la differenza tra prima e dopo è stata enorme. Merci Monsieur Bic!
Barbara Bertolini   -   tutti i diritti riservati

lunedì 5 aprile 2010

38. Nell'Appenino reggiano una bella tradizione pasquale

L’uovo, simbolo di rinascita, è il perno su cui ruota una delle più antiche tradizioni pasquali sulle montagne emiliane.



E scussin” (dal verbo scusser, cioè sbattere contro) si praticava in quasi tutti i paesini a Pasquetta.
Un incaricato del posto comperava 5-6 ventine di uova e le cuoceva colorandole: per il verde utilizzava sia l’ortica sia l’erba tout court; per il rosso impiegava, invece, la tintura vera e propria. Dove c’era concorrenza, la decorazione poteva essere più raffinata.
Queste uova sode venivano vendute sulla piazza del paese. Il gioco, e il divertimento, consisteva nello sbattere il proprio uovo contro quello di un avversario. Vinceva l’uovo chi era riuscito a rompere per primo quello del rivale, dunque la persona che aveva pescato l’uovo più duro, ma che sapeva anche utilizzare una tecnica particolare per sbaragliare i concorrenti.
A questo giochetto partecipavano tutti: uomini, donne e bambini. Il vincitore assoluto era quello che, partito con un uovo, riusciva a racimolarne il più possibile, perché l'uovo "cocciato" diventava suo.
Racconta la Signora Armentina che il suo record fu di sette uova prima di essere sconfitta da un altro più duro del suo!
Una tradizione quindi conviviale, simpatica, semplice ed economica che continua al giorno d’oggi nei paesini di montagna come Castelnuovo Monti, Carpineti o Marola.
Barbara Bertolini

martedì 9 marzo 2010

37. Regolamento del perfetto impiegato


Ecco un regolamento trovato negli archivi e che data della fine dell'Ottocento. Esso stabilisce, in 10 punti, cosa dovevano fare gli impiegati.
Tutti quelli che soffrono perché il lavoro è troppo duro dovrebbero meditare sul fatto che all’epoca si pretendeva che non solo l’impiegato lavorasse bene ma che avesse una vita familiare e sociale decorosa. L’unico dubbio che mi rimane è: perché fumare sigari spagnoli fa dubitare dell’onestà di una persona?



Regolamento ufficio del 1889
1. Gli impiegati dell’ufficio devono scopare i pavimenti ogni mattina, spolverare i mobili, gli scaffali e le vetrine.


2. Ogni giorno devono riempire le lampade a petrolio, pulire i cappelli e regolare gli stoppini, e una volta la settimana dovranno lavare le finestre.


3. Ciascun impiegato dovrà portare un secchio d’acqua e uno di carbone per la necessità della giornata.


4. Tenere le penne con cura; ciascuno può fare la punta ai pennini secondo il proprio gusto.


5. Questo ufficio si apre alle sette del mattino e si chiude alle otto di sera, eccettuata la domenica, nel qual giorno resterà chiuso. Ci si aspetta che ciascun impiegato passi la domenica dedicandosi alla chiesa e contribuendo liberamente alla causa di Dio.


6. Gli impiegati uomini avranno una sera libera alla settimana a scopo di svago, e due sere libere se vanno regolarmente in chiesa.


7. Dopo che un impiegato ha lavorato tredici ore in ufficio, dovrà passare il rimanente tempo leggendo la Bibbia o altri buoni libri.


8. Ciascun impiegato dovrà mettere da parte una somma considerevole della sua paga per gli anni della vecchiaia, in modo che egli non diventi un peso per la società.


9. Ogni impiegato che fuma sigari spagnoli, faccia uso di liquori in qualsiasi forma, frequenti biliardi o sale pubbliche, o vada a radersi dal barbiere, ci darà una buona ragione per sospettare del suo valore, delle sue intenzioni, della sua integrità e onestà.

10. L’impiegato che avrà svolto il suo lavoro fedelmente e senza errori per cinque anni, avrà un aumento di paga di 5 centesimi al giorno, ammesso che i profitti della ditta lo permettano.

domenica 28 febbraio 2010

36. Ultima serata prima della partenza per l'America: anno 1956

Loreta Giannetti, italo-canadese, ci racconta la partenza per l’America. Una partenza dolorosa, straziante, vista con gli occhi di una bambina che sente sparire il proprio mondo. Gli emigrati che hanno vissuto le stesse emozioni si ritroveranno nel racconto della piccola molisana.


Fine dicembre 1956. Fa freddo in casa. Domani si parte per Napoli dove prenderemo il bastimento per l’America. Non riconosco più la mia casa. I mobili sono stati venduti. Sono rimaste solo tre sedie in mezzo alla cucina e le casse recuperate per la costruzione del presepio.
Il camino acceso che ci riscalda ci fa un po’ di luce con la sua fiamma. Fuori è buio. Notte senza stelle. Mia madre mi sembra più grande del solito. Quando cammina per la cucina, la sua ombra arriva fino al soffitto. Ho paura. Mia sorella dorme su una cassa che gli fa da culla. La casa la chiudiamo domani.

Stasera si veglia e si aspettano parenti e amici venuti a salutarci. Arrivano i nonni, arrivano gli zii e zie. Non sanno dove mettersi; mamma offre le sedie ai piu anziani e le casse ai più giovani. Nessuno ha voglia di parlare; si piange solamente. Anche il fuoco tace stasera. Fa freddo e buio. Tutti di nero vestiti, come ad un funerale. Solamente occhi rossi, solo occhi bagnati da tante lacrime.
La nonna si mette a parlare a bassa voce con mia madre. Forse gli parla di mio padre, suo figlio che ci aspetta in America. Ma le lacrime di mamma aumentano sempre più. Mi avvicino e lei mi prende fra le sue braccia. La prima volta da tanti mesi.

Fuori una fisarmonica si mette a suonare: una canzone triste poi altre due e niente più. Si sente il passo del musicista che si allontana. Arriva altra gente, vicinato, amiche di mia madre, comari e compari: cominciano piano piano grida di dolore.
Grida di mamma straziata da questa partenza e grida di quelli che rimagono. Grida delle nonne, delle zie, delle comari. Gli uomini tacciono e fissano il fuoco del camino, la sigaretta in bocca. Non dicono niente. Dopo un po’ se ne vanno tutti. «Vi accompagniamo domani alla stazione!».
La cucina si è riscaldata; il fuoco rimane fedele: è lui che ci fa compagnia fino alla fine della notte.

Mia sorella dorme sempre. Mia madre prepara un lettino fatto di casse di legno del presepio. Ci mette la grossa coperta verde e mi prende fra le braccia e lì, distese sulla terra di Betlemme, vicino al fuoco, arriva il sonno. Tutto ormai è buio intorno a noi.


Loreta Giannetti

sabato 20 febbraio 2010

35. La messa, la questua.... e le arance

Due storie, quella di Betty e quella di Armentina (post 34), chiariscono la vita religiosa di allora. Tutta la giornata era segnata dalla religiosità: rosari, campane che scandivano il tempo contadino, riti e feste religiose che fermavano il lavoro e la messa che diventava il momento scelto dai giovani per scambiarsi occhiate e sondare le intenzioni. Insomma si era religiosi perché così andava il mondo. La prima storia si svolge negli anni '50, mentre la seconda all'inizio degli anni '30.



Betty Delacrétaz racconta:

en allant à la messe du dimanche je passais devant la vitrine du magasin d'alimentation. Or un dimanche que vois-je : des oranges !
Je n'avais pour argent que les lires que Maman mettait dans le livre de messe. Des lires pour payer la chaise, et d'autres pour la collecte.
Je comptais et recomptais ma fortune et courageusement j'entrais dans le magasin, avec toutes mes lires je reçus 2 oranges.
Pendant tout le trajet du retour (environ 1 heure) j'ai contemplé et humé le parfum délicieux de ces fruits. En arrivant j'ai donné les oranges à Maman qui les a partagées entre tous.
Il fallait se tenir à la table tant elles étaient acides.
Pour moi ces oranges restent dans ma mémoire comme étant les fruits les plus délicieux , savoureux et parfumés que j'ai mangés.
C'étaient d'autres temps. Ce vécu me fait apprécier chaque jour le bien-être dont je jouis.

Traduzione :
Andando a messa la domenica, passavo davanti ad una vetrina del negozio alimentari. Una volta vidi delle belle arance. Avevo in tasca solo le lire che Mamma mi metteva nel libro della messa. Lire che servivano per pagare la sedia in chiesa e per la questua.
Contai e ricontai il mio piccolo tesoro e coraggiosamente entrai nel negozio: con quei soldi ricevetti due arance.
Durante tutto il tragitto di ritorno (quasi un’ora) ho contemplato e annusato il profumo delizioso di questi frutti. Arrivando ho dato le arance a Mamma che le ha divise tra tutti.
Bisognava afferrarsi al tavolo per quanto erano acide. Ma per me queste arance restano ancora nella mia memoria come i frutti più deliziosi, saporiti e profumati che abbia mai mangiato.
Erano altri tempi. Questo vissuto mi fa apprezzare ogni giorno il benessere di cui godo.

34. Le pecore di Sant'Antonio

Armentina, invece, non aveva una mamma altrettanto tollerante e, bisogna dirlo, la sua azione è stata molto più insolente di quella di Betty.



Racconta dunque l’Armentina:

Premetto che da quando avevo 6 anni tutte le mattine da aprile a ottobre mia mamma mi svegliava all’alba per mandarmi a pascolare le pecore (ore 5 o 4, secondo i mesi). In inverno, invece, mi si buttava giù dal letto alle 8. Solo con la neve facevo festa perché le pecore non uscivano.
Un lavoro che ho sempre odiato per vari motivi: facevo una fatica immane per uscire dal sonno, non amavo questo attività dove non serviva la bravura, ma soprattutto perché solo a me era richiesta tale mansione; mai a mia sorella più grande.
Dovevo avere 8-9 anni quando mia madre mi mandò a messa e mi diede 20 centesimi per darli a Sant’Antonio. Mi disse che gli dovevo chiedere la grazia di conservare i nostri animali sani. Era, infatti, il 17 gennaio festa di Sant’Antonio Abate. Andai in chiesa e la statua del santo era stata messa in mezzo alla navata, sopra un grande drappeggio dove tutti buttavano i loro soldi e chiedevano la grazia. La chiesa era affollata, la messa veniva ufficiata da vari celebranti e io osservavo attentamente il Santo: ting, ting, le monetine cadevano a fiotti sul telo, ma lui non si abbassava mai e non diceva grazie. Allora, tra me e me, mi son detta che non era lui a ricevere i soldi ma i preti e ho quindi deciso di spendere quelli che mi aveva dato mia mamma (una grande somma per il periodo) per comperare il castagnaccio e gli “scachetti” (arachidi) che avevo visto su una bancarella prima di entrare. Ma prima di uscire dalla chiesa domandai comunque al Santo una grazia: quella di far morire tutte le pecore e di salvare solo gli altri animali.



Il proprietario della bancarella fece resistenza, gli sembrava strano che una bambina potesse spendere tanti soldi per delle golosità. Alla fine cedette, allora chiamai tutti i miei amici e ci facemmo una scorpacciata di castagnaccio come mai era capitato in vita nostra.
Appena arrivata a casa, andai subito nell’ovile a verificare se le pecore erano morte. Ma niente, Sant’Antonio non mi aveva fatto nessuna grazia: erano tutte lì, vive e vegete. Che delusione!
Quando mia madre mi chiese se avevo dato i soldi risposi di no, perché quei soldi non se li prendeva il Santo ma i preti che c’erano. Mi corse dietro con le pinze del camino. Per fortuna uno zio presente  la bloccò e le disse: «la bambina ha detto la verità e guai a te se la tocchi!» E, per la prima volta in vita mia, me la cavai senza botte, com’ero contenta…..

martedì 16 febbraio 2010

33. Fino agli anni '50 il latte appena munto veniva consegnato tutti i giorni porta a porta

Ines e Armentina rispondono alla domanda di Simonetta, ovvero come veniva trasportato e conservato il latte nelle case prima del frigorifero.

Pensavo di cavarmela con due parole, ma sentendo le esperte ho capito che ci scappava un post.

Ebbene sì, il latte veniva comperato giorno per giorno sia in città che in campagna perché poteva al massimo durare due giorni, ma solo se faceva freddo.
A San Giovanni, negli anni ’40, e fino agli anni ’50 c’era una donna che chiamavano “la lataröla”, che passava di casa in casa con il suo latte contenuto in un bidone di alluminio, che trasportava sopra un rudimentale carretto. Aveva un mestolo che misurava esattamente mezzo litro. Per cui versava il latte richiesto nei contenitori che le porgevano le massaie, quasi sempre una bottiglia di vetro dal collo largo. La lataröla chiedeva alle famiglie se volevano il latte anche il giorno dopo e, sapeva quindi, grosso modo, quanto latte portare. Altrettanto si faceva in città, dove passava un contadino o contadina con i suoi bei bidoncini.
Questo latte non era pastorizzato e, normalmente, lo si doveva bere solo dopo averlo bollito. Io ricordo invece di una zia che, sapendo la mia passione per il latte, quando mungeva la mucca, me lo spruzzava direttamente in bocca (e inevitabilmente sul viso), buonissimo!
Nei paesi dove c’era la latteria, le mamme mandavano i figli a prendervi il latte con un bottiglione o un piccolo bidone che aveva una chiusura ermetica. Ma durante i mesi invernali (da novembre a marzo) la latteria chiudeva. Ed era in quel momento che la “razdora”, altro termine emiliano per indicare la padrona di casa, con il latte delle sue mucche faceva il formaggio, il burro e la ricotta. Molti di voi, sono sicura, hanno ancora in bocca il sapore di questa ricotta calda appena fatta, che veniva messa sul pane con un cucchiaio di siero.

La contadina nel passato era una lavoratrice instancabile, a tempo pieno, e riusciva non solo a rassettare la casa, occuparsi dei figli, del marito, degli uomini e anziani della famiglia, preparare il pranzo, ma anche a produrre alimenti, ad accudire il bestiame, lavorare i campi e realizzare tessuti per indumenti.
***°°°***
Ecco una buona notizia: è ritornato nelle nostre città il latte di giornata, quello munto di fresco.
Infatti, Ines dice che a Reggio Emilia ci sono ormai vari negozi dove si può comperare latte di giornata. Una mucca disegnata in grande sulla vetrina indica inequivocabilmente il tipo di prodotto venduto. Ci siamo stancati di bere latte che non sa più di nulla, non si sa dove e quando è stato prodotto e arriva sulle nostre tavole dopo aver percorso anche 2000 km. Questi negozi certificano, invece, la provenienza vicina e la qualità del latte: EVVIVA LA GENUINITA’

Barbara

martedì 9 febbraio 2010

32. Quando la Chiesa dettava le regole della sobrietà, anche ai bambini



di Betty Delacrétaz



Je me souviens, j'avais environ 6 ans nous étions à Valle di Sotto province de Vicenza, où comme dans beaucoup de régions les curés régnaient en maîtres et seigneurs.
Nous nous préparions avec enthousiasme à la Fête Dieu. A cette occasion des petits paniers en osier avaient été fabriqués Ils étaient remplis de pétales de roses. Pour moi c'était un évènement....
La procession allait démarrer, tous les enfants étaient derrière le baldaquin et la joie était à son comble, lorsque une dame proche du curé qu'on appelait « la perpetua »s'approcha de moi, me prit par la main, et me fit sortir des rangs car ma robe ne couvrait pas les genoux. Mon crime: j'avais grandi un peu trop vite et, faute de moyens, la garde-robe n'avait pas suivi!

Je demeure persuadée que la stupidité et l'ignorance de certains ont largement contribué à la désertification des églises.


***°°°***
Traduzione:
Mi ricordo, avevo circa 6 anni e vivevamo a Valle di Sotto in provincia di Vicenza, dove come in molte altre regioni i preti regnavano padroni e sovrani incontrastati.
Ci preparavamo con entusiasmo alla festa del Corpus Domini. Per l’occorrenza erano stati realizzati piccoli cesti in vimini che avevamo riempito di petali di rose. Per me era un avvenimento eccezionale….
La processione iniziava, tutti i bambini erano dietro al baldacchino e la gioia era al culmine quando la “perpetua, una signora al servizio del sacerdote , mi si avvicinò, mi prese per mano e mi fece uscire dalla fila perché il mio vestito non copriva le ginocchia. Il mio crimine: ero cresciuta troppo in fretta e, per mancanza di soldi, il guardaroba non aveva seguito l’evoluzione!
Rimango persuasa che la stupidità e l’ignoranza di certi hanno largamente contribuito alla desertificazione delle chiese.
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La Signora Delacrétaz è svizzera d'origine vicentina e ha deciso di lasciare a questo blog, nella lingua che domina meglio, le sue considerazioni sul passato. La ringrazio di cuore. La traduttrice-traditrice del suo pezzo sono io. Barbara

domenica 31 gennaio 2010

31. Come si faceva il burro a mano?


Cara Silvia, grazie per la domanda. Ho chiesto alla Signora Armentina, la consulente ormai ufficiale di questo blog. Ed ecco le sue spiegazioni:



Per realizzare il burro a mano si metteva la panna in una bottiglia. Ci si sedeva e, appoggiando la bottiglia sulle ginocchia, la si faceva andare avanti e indietro energicamente, fino a quando questo composto si condensava diventando burro. Questa operazione poteva durare anche mezz’ora.
Dopo di ché, si svuotava la bottiglia in una teglia e, con le mani, si dava al burro la forma che si voleva. Chi aveva fantasia poteva, con un coltello o in piccolo bastoncino, comporre dei disegni. Inoltre, nelle case contadine ma soprattutto nei paesini delle Alpi, esistevano anche stampi di legno, realizzati con varie decorazioni (come quelli della foto) – intagliati a mano durante i mesi invernali – per dare una conformazione graziosa al burro.
Questa tecnica è valida anche al giorno d’oggi per chiunque voglia realizzare in proprio il burro.
Mentre, per ritornare al “casaro” (del post 30), lui, aveva un attrezzo che funzionava all’inizio del ‘900 a manovella e, successivamente a motore. Con l’aggiunta del ghiaccio, riusciva a ricavare tanto burro quanto voleva.

venerdì 22 gennaio 2010

30. La conservazione degli alimenti senza frigorifero

Vi ricordate i film americani anni ‘60? Primo piano sul soggetto che entra in casa, apre la porta, e subito dopo il «ciao cara», senza svestirsi, si fionda sul frigorifero e beve la sua bottiglietta di coca-cola o di birra come se, per ritornare dal lavoro avesse attraversato un immenso deserto.

E’ questa immagine che mi viene in mente per parlare di “nevaia” o “ghiacciaia”, ossia come nel passato si riusciva a produrre ghiaccio e a conservare gli alimenti quando non si possedeva il frigorifero.

Infatti, l’elettrodomestico tutt’oggi più utilizzato nelle case degli italiani, è stato inventato nel 1919 a Chicago, con il nome di “kelvinator”, trasformato poi in “frigorifero”. Esso, però, fu prodotto a livello industriale, sempre negli Stati Uniti, solo a partire dal 1931.
In Italia è arrivato verso la metà degli anni ’40 e, solo nelle case ricche, poiché troppo costoso. Ha cominciato a svilupparsi dappertutto dopo gli anni ’60.

E fino ad allora, come si faceva a conservare gli alimenti deperibili? Ma soprattutto, come si faceva a produrre ghiaccio in piena estate?

Nella vita contadina il ghiaccio era indispensabile per fare il burro, uno degli alimenti di primaria necessità poiché nelle regioni del Nord era (ed è) utilizzato al posto dell’olio.
Ogni paese aveva la sua “nevaia” o “ghiacciaia” , un buco profondo, in un luogo freddo, dove si raccoglieva la neve durante l’inverno e si copriva il tutto con fascine. Questa neve finiva per trasformarsi in ghiaccio che durava fino all’inverno successivo. La persona che custodiva la nevaia, tagliava, con una sega, man mano il ghiaccio necessario e, alla fine dell'estate, il buco era diventato così profondo che gli occorreva una scala a pioli per arrivare in fondo alla nevaia.

Senza il ghiaccio così conservato, come detto, il “casaro” non era in grado di produrre il burro dal suo latte. E’ possibili farlo a mano senza ghiaccio, ma solo in piccole quantità e con molto “olio di gomito”, ecco perché, per la difficoltà di realizzazione di questo alimento, il casaro era addetto alla produzione di burro per tutti.
Il ghiaccio della nevaia, veniva comperato anche dalle famiglie per realizzare sorbetti o granite. Il pezzo di ghiaccio veniva grattato poi, sul composto ottenuto, si versava la menta o lo sciroppo, quasi sempre d’amarena al Nord e limone al Sud: una delizia per grandi e piccini. Racconta Nicoletta Barbarito (post 40) che le famiglie benestanti possedevano piccole ghiacciaie composte di legno e di zinco dove ci si calava dentro un grosso cilindro di ghiaccio. Questo ghiaccio veniva recapitato giornarlmente da un apposito venditore.
Altri alimenti deperibili venivano consumati in giornata o, al massimo nei due giorni successivi.
La carne di maiale, per esempio, che poteva essere macellata solo in inverno, veniva, invece, messa sotto la sugna per durare più a lungo, così come tutto quello che riguardava l'insieme della produzione suina.
Altri alimenti deperibili potevano essere messi in salamoia, sotto sale, sott’olio, sottaceto, sotto il grasso della sugna, come detto, oppure essiccati o affumicati. Con l'essicazione, per esempio, si eliminava l’umidità naturale attraverso il calore o l’aria rendendo così un alimento durevole oltre che trasportabile (si pensi al merluzzo). E l’essicazione  non altera il  valore nutrizionale dei cibi e, anzi, ne esalta il gusto.

Questi erano sistemi di conservazione degli alimenti che duravano da millenni e che continuano a durare e che hanno permesso all’uomo la sua crescita (mangiate e moltiplicatevi!).

Barbara Bertolini  -   tutti i diritti riservati

martedì 5 gennaio 2010

29. Cosa portava la Befana ai bambini buoni?

Fino agli anni ’60 nelle famiglie italiane in maggioranza era la befana a portare, nella notte dell’Epifania i doni ai bambini. Babbo Natale apparteneva, allora, alle culture del Nord Europa.
La tradizione italiana, infatti, voleva che i bimbi mettessero sotto il camino una grande calza per permettere alla Befana di riempirla di doni.

Il ceto sociale faceva la differenza tra i doni ricevuti nelle case dei contadini, o di chi aveva un reddito saltuario, rispetto ai “signori”, come si diceva allora.
Rita e Angela ci hanno raccontato i loro ricchi doni ricevuti sotto il camino: bambole, trenini, e vari giochi erano decisamente il sogno degli altri bambini meno fortunati, che rimaneva, tuttavia, davvero un sogno irraggiungibile, quindi rimosso: il bambino povero non osava nemmeno desiderarli. Nella loro calza, invece, quando si svegliavano al mattino e correvano nella stanza dove troneggiava il camino (o la stufa per chi non aveva il camino) e la trovavano gonfia e traboccante di roba, era davvero una grande festa per questi ragazzini che esplodevano di felicità.

Cosa c’era nella calza? Ho chiesto a molti di ricordare. Ed ecco il risultato:

Dal Nord o al Sud il contenuto cambiava poco. Venivano messi mandarini, portugal (che poi erano arance così chiamate sia in Emilia che a Napoli), noci, caramelle, qualche dieci lire, uno o due pacchettini di “mignin” (biscottini industriali fatti a strati che si vendono ancora al giorno d'oggi con il nome di wafer), arachidi, fichi secchi, qualche cioccolatino. Per i più poveri la calza veniva riempita con delle mele. Giochi, molto raramente, a meno di avere uno zio che ritornava dall’America. Qualche volta potevano esserci delle matite colorate, le famose “Giotto”.
Ma quello che non mancava mai sul fondo della calza, per tutti i bambini, poveri e ricchi, che durante l’anno qualche marachella l’avevano di certo commessa, era un bel pezzo di carbone, quello vero ben inteso!
Questa era la nostra Befana, che ci dava comunque una contentezza infinita. Tutta la notte avevamo cercato di stare svegli per sorprendere la vecchietta, invano. Anch’io, come Rita, mi sono fatta mettere il letto vicino al camino, ma la befana è stata più furba di me.

A casa di mia nonna, invece, c’era una tradizione molto bella per noi bambini. Essa realizzava un tortellone dolce, lungo come il tavolo della sala, farcito di noci, cacao, miele e altri ingredienti che non ricordo. Questo tortello particolare veniva cotto dal fornaio del paese, l’unico che aveva un forno adatto per cuocere una alimento così lungo.
Una volta messo in tavola ci dovevamo mettere in fila (dal più piccolo al più grande), ci venivano bendati gli occhi e ci veniva dato un coltello con cui dovevamo tagliare il tortello: mangiavamo il pezzo che eravamo riusciti a tagliare!
Che allegria, che divertimento!
Comunque, ora, meno male che l’Epifania tutte le feste le porta via!

Barbara

domenica 27 dicembre 2009

28. Natale postbellico

I Natali d’antan

di Rita e Angela Frattolillo   (bambine nella foto)

La nostra euforia per il Natale cominciava piuttosto presto, a novembre: noi sorelline eravamo investite del compito di preparare l’impalcatura del presepe, e vi posso assicurare che era un lavoro piuttosto complicato, anche perché io e mia sorella, che eravamo le più grandine, avevamo il compito di vigilare a che le due piccole non facessero troppi danni mettendo le mani dappertutto. La metà di una stanza, quella del balcone che aveva il soffitto decorato con angioletti paffuti e svolazzanti, veniva occupata da cataste di sughero che noi disponevamo su una struttura di legno fissa in modo da formare montagne e grotte. Poi era la volta della casette di cartone pressato e dipinto alla buona, dei pastori comprati, in più riprese, a S. Biagio dei librai, da nostro padre che allora insegnava a Napoli. Qualcuno, nel tempo, e malgrado il trasloco da una casa all’altra, è sopravvissuto, anche se ne porta i segni: a Gesù bambino s’è rotta la testa (che è stata amorevolmente incollata); il pescivendolo è rimasto senza bancone; la pastorella ha qualche pecora in meno; fortunatamente il pastore dormiente, che è una figura con una simbologia precisa, è rimasto intatto. Infatti, nella tradizione napoletana, la sua presenza è indispensabile perché è lui, dormendo, che sogna il presepe, la Natività: se si sveglia, il sogno svanisce!



Sistemate figurine, animali e casette, finalmente era il turno del muschio.

Ne occorreva molto, per tappezzare le giunture, formare il prato, adornare la grotta di Gesù, coprire i bordi del laghetto ottenuto con una scheggia di specchio. Muschio che non si vendeva nei supermercati, a differenza di oggi, ma si trovava “in natura”, fresco e bellissimo, come un velluto cangiante; bastava andare a cercarlo nei posti giusti. Il segnale era quando papà staccava dall’armadio la sua giacca di cacciatore.

Noi allora si partiva felici e imbacuccate, armate di borsa, trotterellando dietro a lui e al suo cane da caccia. Dopo un accurato sopralluogo, estraeva dalla giacca il coltello di cacciatore dalla punta acuminata, e staccava con cautela il muschio dalle cortecce degli alberi, dai muretti che delimitavano gli appezzamenti, dal recinto della macina. Noi lo deponevamo nella sacca con delicatezza, per non farlo rompere e ci divertivamo a seguire la nuvola che formavamo col fiato, nella nebbia mattutina.



Il nostro Natale di allora era estremamente povero: senza alberi o palline colorate, niente luci o regali sfavillanti. Il suo momento clou, dopo il rosario, era la processione giaculante dietro al bambino più piccolo della famiglia che aveva il privilegio di portare Gesù bambino per tutta la casa: il terrazzo, il cortile, la fuga delle stanze.

Ma la Befana, no; era una vera festa.

Ai nostri occhi vigili non sfuggiva, nella settimana che la precedeva, un insolito traffico. Papà ritornava da Napoli con grossi pacchi che, misteriosamente, non arrivavano mai su.

Noi gli davamo il tormento nella speranza di capire: “papà, che ci porta la befana?”. E lui: tu che vuoi che ti porti? Di giorno in giorno le mie, le nostre pretese aumentavano : la bambola, la carrozzina, le pentole, le tazze. Lui incalzava, ma cosa vuoi di più? E così per ore; a volte si inteneriva al nostro spasmodico desiderio di sapere e implorava mamma con gli occhi per avere da lei l’approvazione nel rispondere. Ma lei inflessibile, interveniva cercando di distogliere la nostra attenzione. Allora papà ci diceva di gridare i nostri desideri alla Befana attraverso il camino, e noi lì a ripetere, sotto il suo sguardo divertito, fino a rimanere senza fiato…la bambola, la palla, la carrozzina, le tazze, il lettino…

La sera fatidica, messa in bella mostra la calza più capace, ci proponevamo, io e Angela, di stare sveglie, per poter sorprendere la… Befana. Il nostro chiacchiericcio andava avanti per ore, ma poi, nonostante i propositi e i mezzi escogitati, sprofondavamo sempre in un sonno traditore. Angela era sempre la prima a svegliarsi, alle due o tre, e, intraviste le calze gonfie di doni, lanciava l’urlo vittorioso, mi svegliava, e tutte correvamo nella camera da letto dei genitori per mostrare ciò che la Befana ci aveva portato; poi a giocare, fino a che le prime luci dell’alba ci sorprendevano riaddormentate e abbracciate alle bambole, alle palle, alle tazzine, con la mano sulla carrozzina…

E i sogni erano sempre bellissimi: spingevo sul marciapiede la mia carrozzina di vimini con la bambola bionda ed elegante e tutte le bambine si affacciavano a guardare con un bel po’ di invidia per me, così fortunata.

La sera dell’Epifania, con malinconia si smontava il presepe e si riponeva il tutto, fino al prossimo Natale.

martedì 22 dicembre 2009

27. Natale in rima

Buon Natale anche a chi non crede




Buon Natale in questo giorno particolare
a tutti voglio augurare
Buon Natale anche a chi non crede
perché il Natale non è questione di fede
Il Natale è una festa tradizionale
sentita da tutti in modo speciale
Una tradizione vecchia come il mondo
quando l’uomo non sapeva che il nostro pianeta è rotondo
e aveva paura che il sole andasse per sempre a dormire
e che le tenebre, a dicembre, non smettessero d’imbrunire
E allora ha pensato di far tornare il sole
festeggiando con grandi fuochi accesi nelle tarde ore


La nascita del bambinello, se non lo sapevi,
è la speranza di oggi e di ieri…
di tutta l’umanità
che non vuol conoscere l’aldilà!


                                   Armentina

giovedì 17 dicembre 2009

26. Ecco come veniva sostituito lo zucchero nelle case contadine

Di Barbara Bertolini  

Giorni natalizi, giorni di feste e… di dolci. Nella tradizione culinaria italiana, di piatti dai sapori zuccherini, senza conservanti né coloranti, ce ne sono tanti, ma quello che vi voglio raccontare ora è la storia di un alimento che in tante case povere ha sostituito per anni lo zucchero, considerato allora troppo caro.

La mia mente corre agli anni ’50. Non c’è nessuno in casa. Entro con timore nella camera da letto dei miei nonni. In fondo alla stanza c’è una tenda che nasconde una nicchia. Scosto la tenda e inzuppo le dita in un grosso pentolone che vi è deposto, dove giace un invitante e gustoso intingolo denso e marrone. So che non posso mangiarne troppo perché il “savurett” servirà per preparare i dolci di tutto l’anno e, se mi becca la nonna, sono guai, ma sono troppo golosa e non resisto: sclaft, sclaft, hummm che bontà!
Questo è l’unico dolce della casa ad eccezione, ben inteso, della marmellata. Ma è soprattutto il solo che posso mangiare senza che nessuno se ne accorga.
Ho scoperto poi che intere generazioni di bambini, nati in campagna prima del 1950, si leccavano avidamente le dita come me dopo averle intinte nel savurett!

A cosa serve e come è fatto il “savurett”?

Come al solito è la signora Armentina a dare le spiegazioni:

Nei tempi passati, durante e dopo la guerra, il problema economico era tale che perfino lo zucchero era troppo costoso per le tasche dei contadini. Si cercavano quindi soluzioni alternative per sostituirlo. Una di queste era appunto il “savurett”. Non ne conosco il nome italiano, chiedo lumi all’amica Rita, esperta linguista, forse lei sa trovare questa parola emiliana che deriva da “sapore”.

Dunque, durante l’autunno si raccoglievano in grande quantità le pere (verdi con sfumature di marrone – l’Armentina le chiama “pere valle”) che cadevano in abbondanza.
Si lavavano, poi, così com’erano (con il torsolo e la buccia), le si passavano dentro una specie di tritatutto. Il composto così ottenuto lo si lasciava scolare. Quando il sugo si era completamente deposto lo si doveva far bollire in un paiolo per 24 ore (alla fine ne restava solo un quarto) e il savurett era pronto.
Infatti il sugo rimasto era dolciastro e poteva quindi essere utilizzato per zuccherare le torte o altri cibi. Poiché era un alimento che non costava nulla (allora la legna si trovava nei boschi e di frutta ce n’era a volontà), i più poveri, in mancanza di qualsiasi altro alimento, lo utilizzavano per insaporire la polenta. Questo composto si manteneva inalterato per qualche anno.

Al giorno d’oggi lo si chiamerebbe “fruttosio”. O sbaglio?

(la foto di queto post è stata presa da http://www.giallozafferano.it/)

venerdì 11 dicembre 2009

25. Bambinaia a Milano negli anni '50

Che anni duri per le contadinelle adolescenti costrette a lavorare per racimolare qualche lira!



di Ines Bonini


Doveva essere la prima metà degli anni ’50, non avevo più di 12 anni e fino a quel momento mi ero allontanata dal mio paese al massimo una ventina di chilometri per andare a trovare i vari parenti. Era un giorno d’autunno e mi stavo preparando per partire a Milano. Una paesana aveva la figlia che lavorava in quella città e mi aveva trovato un posto da bambinaia. Baby-sitter si direbbe oggi, ma allora ero considerata serva, tò, proprio perché giovane, servetta, ovvero una domestica che avrebbe vissuto in una famiglia e che avrebbe dovuto occuparsi di un bambino di 7 mesi e della pulizia della casa per una coppia di giovani sposi benestanti ma non ricchi, che abitavano San Donato Milanese.

Partii di buon’ora con la corriera che mi portava a Reggio Emilia e lì, da Porta Castello, dove si fermava il mezzo, sarei dovuta andare a piedi alla stazione, prendere il treno e, una volta giunta a Milano mettermi una fascia bianca al braccio e sperare di trovare la Signora che mi veniva a prendere. Per me già Reggio Emilia fu una scoperta incredibile: tutte quelle case, quel via vai di gente. Ma quando giunsi a Milano, ormai verso sera, rimasi a bocca aperta. Non avevo mai visto tanta gente prima, chi andava su, chi andava giù, chi a destra, chi a sinistra, in un moto perpetuo. Mi prese un’angoscia terribile di non trovare la Signora in mezzo ad una folla così. E le luci! Mamma mia che illuminazione potente, sembrava di stare in estate a mezzogiorno. Nemmeno il sole riusciva ad illuminare così bene le strade come i lampioni della stazione di Milano. Nel mio paese non esisteva l’elettricità per cui passare dalla lucerna alla luce fosforescente delle lampadine al neon mi sembrava straordinario.

Alla fine del binario una giovane signora si fece avanti e io mi sentii infine salva. Ma quando fui fuori dalla stazione e vidi tutte quelle auto percorrere velocemente le strade mi ritornò la paura perché mi chiedevo come avremmo fatto ad attraversare!

San Donato Milanese cominciava solo allora ad urbanizzarsi per cui, quando la domenica andavo a trovare la mia amica che abitava molto distante e tornavo di sera, avevo sempre una gran paura ad attraversare il quartiere ove giravano brutti ceffi.

In quella casa di San Donato Milanese trovai anche una vecchietta che mi prese in simpatia. La sera, quando avevo fatto addormentare il bambino e sistemato la cucina, mi chiamava in camera sua ad ascoltare le commedie alla radio…. anche quella una grande novità per me!

Con il primo stipendio, 12 mila lire, mi comperai il cappotto, che non avevo. La Signora mi portò alla Rinascente (mai immaginato un negozio con tutto quel ben di dio e le scale mobili!). Purtroppo, per quella somma mi dovetti accontentare di uno bruttissimo che non mi piaceva indossare. A San Donato Milanese stetti per otto mesi. Tornai a casa con una grande voglia di rivedere la mamma. Speravo mi aspettasse alla corriera. Quando scesi, c’era una signora girata di spalle che le assomigliava. Le corsi incontro a braccia aperte. Che delusione quando si girò. Mia madre, invece, come al solito stava nella stalla ad accudire le mucche.

Feci un’altra esperienza da “serva” l’anno dopo. Fu più divertente perché ci presero in due nella stessa casa. L’episodio che più mi è rimasto impresso di questa seconda esperienza è il fatto che una sera, quando i padroni erano già andati a dormire e stavo per mettere della carta nella stufa, da questi giornali stropicciati caddero delle lire. Dispiegai il tutto e scoprii che dentro c’erano parecchi soldi. Era l’incasso della giornata che i due, commercianti, avevano sbadatamente abbandonato vicino alla stufa avvolti appunto in un giornale spiegazzato, probabilmente per nasconderli ad eventuali rapinatori. Fui così in collera con loro che li andai a svegliare e glie li feci vedere dicendogli: «Se io non me ne fossi accorta in tempo, voi domani mi avreste accusato di furto!»

***

 

Per la cronaca, dopo queste esperienze milanesi, sono riuscita ad entrare nell’Ospedale di Reggio Emilia dove ho frequentato i corsi per infermiera, diventando poi infermiera neonatologa (a qualcosa è servito lavorare come bambinaia!).

lunedì 23 novembre 2009

24. Quelle notti d'inverno dove solo un "prete" poteva esserti d'aiuto....

Di  Barbara Bertolini
Noi in Emilia lo chiamavamo prete, da altre parti, come ha ricordato Mariolina (post 18), lo chiamavano frate, ma chissà quanti altri nomi ha. Insomma quell’aggeggio fatto di due legni sovrapposti, di forma ovale, lungo un metro e che veniva posto fra le lenzuola gelide, con sopra un braciere, aveva lo scopo di riscaldare il letto. Le braci venivano portate in camera un’ora prima di coricarsi. Senza il prete infilarsi nel letto sarebbe stato traumatico.

Nelle case senza riscaldamento il momento più brutto arrivava, infatti, quando si doveva abbandonare il tepore della cucina per andare nelle glaciali camere da letto. Doversi spogliare in un luogo dove la temperatura arrivava talvolta anche sotto lo zero era davvero un’impresa.

Sembra impossibile che il termometro scendesse così in basso nelle stanze, ma è un ricordo ben preciso a dimostrarlo: mia mamma, quando io e mio fratello dovevamo andare a letto, ci dava una bottiglia di acqua calda. Ebbene, quella bottiglia, che finiva quasi sempre per cadere sul scendiletto, qualche mattina l’abbiamo trovata con l’acqua completamente ghiacciata!

Tra le mie reminescenze più sgradevoli del tempo che fu, c’è proprio quella del risveglio alla mattina durante l’inverno, quando dal calduccio del letto dovevo sgusciare fuori in un ambiente molto simile a quello dell’igloo.

Ho ancora nelle orecchie la voce di mia nonna quell’anno del 1957, rimasta con lei e la sua famiglia perché i miei erano emigrati all’estero: «Angelaaaa, Ineees, l’è ora d’alves! (è ora d’alzarsi)», gridava alle figlie, a mo’ di sveglia, dalla cucina dove aveva appena avviato il fuco nella stufa. A quel richiamo, la prima a scendere, in effetti, ero io che avevo sì fatto uno sforzo sovrumano per abbandonare il lettone ma, che, però, venivo gratificata dalla nonna che immancabilmente mi diceva: «tu sì che sei brava, non quelle due dormiglione là». Le due dormiglione come al solito si erano rigirate dall’altra parte e ci avrebbero messo più di mezz’ora prima di sbucare fuori dal letto, e solo perché sentivano la voce minacciosa della madre che si avvicinava. Non avevano torto, però, a prendere tempo. Anche se il letto non era quello molleggiato di ora, ma aveva il materasso di foglie di granone, i loro corpi avevano prodotto una nicchia così calda che ci voleva un bel coraggio per affrontare una nuova giornata che cominciava al freddo e al gelo come nella grotta di Betlemme.

E per ritornare al prete, c'è da dire che oltre ad utile era anche un attrezzo molto pericoloso poiché, pieno di braci, veniva posto in un luogo dove, se rovesciato, avrebbe incendiato tutto facilmente. Infatti, molti materassi contadini erano fatti con le foglie di granone, come detto da Lucia (post 12).

Conoscete qualche altro nome di questo attrezzo?

martedì 17 novembre 2009

23. L'arrivo di una giovane sposa nel paese dei suoceri:anno 1910


Parlando d’amore nel tempo passato, ho trovato un racconto molto bello, quello di Lina Pietravalle, che va giovane sposa nel Molise.


Siamo intorno al 1910. La ragazza, figlia di un illustre medico, Michele, originario di questa regione, direttore degli Ospedali riuniti di Napoli e deputato, sposa Pasquale Nonno, giornalista di umili origini.


Anche Pasquale Nonno è molisano, e, dopo le nozze avvenute a Napoli porta la giovane sposa a Chiauci, in provincia di Isernia, paese dei suoi genitori. Il suocero di Lina, molto orgoglioso di questo matrimonio, coinvolge tutto il paese nell’accoglienza dei novelli sposi.


Ecco come la scrittrice descrive il suo arrivo:

ʻViaggiammo di notte, nell’augusta prima di velluto rosso ed arrivammo a Pescolanciano all’alba. Lì finisce la ferrovia ed incomincia, tra roccie scabre, la foresta con la sua cupa grandezza ascetica (…)

Eran pronte ad attenderci due cavalcature con un uomo sanguigno e baffuto che era a parte del nostro disegno di giungere di nascosto a tergo del paese, verso sera.

La mia cavalla si chiamava Gualfante ed era grande, magra, ed occhialata di nero come una maga coi fianchi iridati dal placido sudore. Aveva in testa una penna altissima che mi cavava gli occhi, fiocchi, sonagliere, e briglie pittoresche impicciatissime.

«Gatà, tu sei pazzo! Qua i pazzi vanno sciolti come i cani» proruppe allegramente mio marito «Spoglia la cavalla, se no m’accechi la sposa». (…)

Mi fece mettere sul suo cavallo e la lietezza mattutina gli parve un augurio ed un canto.

La strada borbonica era bellissima. Lenta come il ritmo del tempo d’allora, strada calma e patriarcale che rispettava ogni lembo di terra ed ogni diritto di pastura. (…)

Il suocero era alle vedette, Peppe Cacerna ci aveva traditi per quattro soldi di polvere da sparo. Per la storia egli gliene offerse due, ma Peppe rispose tutto d’un pezzo: «Fossi fesso, per due». (…)

Cominciarono a brillar fiaccole sanguigne tra le forre e le rupi solinghe, erte come cippi, e per le pasture scarse, contese dal passo della montagna, rispondevan fuochi alti e ruggenti come pire, incorniciati di faville. Tra le macchie degli alberi sbucavano intanto gruppi di ragazzi con fiaccole ed aquiloni di carta che urlavano come i lupi: «Evviva la Novella! Evviva don Pasqualino!». (…)

Intanto eravamo alla porta del paese. Ad attenderci v’erano i “municipali” vestiti di panno turchino, con la giacca a figaro, le camicie di canapa color olio ed una penna di gallo sul cappello. Mio suocero con il petto coperto di medaglie, aggrondato e solenne come un despota, ci fece l’investitura.

Su un piatto pane, olio e sale e le chiavi della porta maggiore che era quella della casa comunale. L’antico rito si compiva, come nei fasti del Trecento, fasti di grande alterigia e di commossa umiltà, nel quale il sangue dell’arrogante signore e quello del torbido plebeo eran confusi come in un crisma perfetto.

Una schiera di fanciullette, vestite di mussola bianca, con duri veli e rose di carta, si fece avanti a ghirlanda, seguita da una maestra monaca, cantando con le voci bianche ed acerbe dei campi, incrudite dal gergo, questa strana canzone:
«Vieni, mia sposa, al talamo, viene dal Libano e sarai incoronata….»
«Lina ascolta! E’ il cantico dei cantici! » egli mi disse.

Il suo volto era vitreo d’ambascia ed il suo sorriso convulso.

La folla intanto irruppe: donne, uomini, vecchi; sulle finestre rozze coperte colorate e scarselle accese, sui tetti torcie bluastre di resina e le strade pavesate di tele tessute in casa, rigide e grezze. (…) «Compari e comari» gridò mio suocero attaccando un energico moccolo «non fate i cafoni zulù! Largo alla sposa, per Sant’Onofrio rimbambito!».

Piovevan baci a mitraglia sul mio vestito e sulle mani: baci duri, informi, disperati e pianti macabri come se fossi nel cataletto.
«Figlia di sangue gentile! Palma! Figlia di mamma beata!».

E gli auguri:
«Nessuno vi possa spartire!».
«Santa Lucia ciechi il malocchio!»
«Servi a cento e mai il medico e lo speziale!».
«Sant’Agnese diletta! Santa Marzia preferita! Essa porta una quartana di capelli. Capelli e figli assai, capelli e grano assai!».

Infatti il grano ci copriva e non potrò mai dimenticare tra quelle luci labili, sotto quello spesso cielo di viola, arcato e dipinto come un portico, la pioggia lene e torpida del grano da tutte le finestre. Pareva polvere sfarinata d’un mestissimo oro, pieno di piombo e di ferro, e sulle mani e sul viso sentiva ancora di sole e di terra. Era tutto grano mondo, pane strappato alle loro bocche penitenti dalla poesia del mito e dalla virtù della tradizione. Una muta di servi gettava denaro e confetti e a tutti i capi di casa che attendevan sulle porte era dato il dono della sposa: un fazzoletto fiorito alle femmine, ed un taglio di camicia agli anziani. Ai fanciulli, rauchi di tripudio, ciambellette, frappe e fichi secchi……. ʼ

Questa grandiosa festa è tutta opera del suocero di Lina Pietravalle che così lo descrive:

“Mio suocero, bellissimo e truculento tipo di capo-tribù, era scellerato di fama ma cinto dalla forza delle sue imprese da una nube di fatalità e d’imperio e come tutti i violenti semplici e barbari in Cristo, sentimentale e persuaso d’essere un giusto ed esemplare uomo. Era sindaco, notaio, consigliere provinciale e di tal fegataccio che vantava medaglie d’ogni genere al valor militare e civile. Aveva accoppato i briganti essendo lui diceva «peggio di un brigante» ed accoppava sempre tutti con una sincerità esplicativa e laudativa eroica. (…)
Naturalmente per il mio matrimonio riunì i consiglieri che puzzavano di stabbio; vecchi pastori, con le brache rappezzate e le mani grosse come spatole per la calcina.
«Don Pasqualino sposa la figlia di don Michele. Invito la Giunta a mandare una lettera di pubblico giubilo per le nozze alte».
«Nozze altre» ripeté il prosindaco. «E quanta dote porta?»
«Non porta dote» ribadì solennemente mio suocero «perché se portava pure la dote non si sposava a figliemo (figlio mio)».
La gente allibì ed egli spiegò ch’egli voleva nobilitare il suo sangue e schiarirlo.
«Mio padre era fabbro e mio nonno contadino, io ho fatto il primo passo ed ho “ammegliato”, e mio figlio deve farlo più lungo, non ci vuole per lui una femmina con i polsi grossi, ma pregiata di figura e col cervello fino».
«E t’è piaciuta, noreta? (tua nuora)»
«Mi è piaciuta e parla meglio di monsignore».

Lina Pietravalle, Marcia Nuziale, pubblicato da Bompiani il 15 dicembre del 1931, ripubblicato nel 1987, centenario della nascita della scrittrice