Vecchio ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia |
Sono
stata contattata da un’insegnante che stava svolgendo una ricerca sull’igiene
del passato nell’Appennino. In questo
blog ci sono vari post che, indirettamente, ne parlano. Ma soprattutto ho segnalato,
alla ricercatrice, una ex infermiera, Ines Bonini, entrata all’Ospedale S.
Maria nuova di Reggio Emilia nel 1961 e che, quindi, avrebbe potuto chiarire
tutte le sue domande su come veniva gestita l’igiene nella metà del secolo
scorso.
Ho interrogato anch’io Ines, perché la cosa mi incuriosiva e, quello che mi ha raccontato degli ospedali degli anni ‘50/60, mi ha lasciata allibita. Infatti, l’ospedale descritto dall’ex infermiera è uno di quei luoghi dove nessuno di noi vorrebbe mai trovarsi. Non solo per la sofferenza che vi regnava, ma anche per la mancanza totale di igiene e pulizia che lo caratterizzava. Se Ines non si è mai presa nessuna infezione lo deve solo ai robusti anticorpi formatisi quand’era bambina a contatto con il bestiame, in un mondo contadino dove non ci si preoccupava troppo dell’igiene.
Oggi, gli infermieri accedono alla professione dopo aver conseguito una laurea breve. Negli anni ’60 ci si entrava dal basso: prima come lavorante poi con corsi qualificanti che permettevano di acquisire la professione poco a poco, tra pratica e teoria.
L’igiene a quel tempo era una
grande sconosciuta, infatti, appena entrata, Ines viene assegnata al settore
lavanderia situato nei locali sotterranei del Santa Maria, un reparto dove
affluisce biancheria sporca di sangue e di
vari liquidi organici, piena di germi, infetta, perché a contatto con gli ammalati o
proveniente dalle sale operatorie. Ebbene, nessuno di loro usa guanti. La biancheria viene presa a piene mani e, alla
fine del servizio, non ci si preoccupa nemmeno di lavarsele. Ma malgrado questa promiscuità con microbi,
infezioni, batteri, al personale non succede
proprio nulla. Ai pazienti sì, invece, perché mia zia mi ha raccontato che per
una semplice appendicite è dovuta restare un mese in ospedale per un’infezione
sopraggiunta!
Una corsia nel vecchio ospedale di Reggio Emilia (anni '50) |
Dopo la biancheria, Ines viene spostata alle cucine. Alé, peggio di peggio! Il reparto “cucina” di un ospedale grande come poteva essere il S. Maria, è quello che al giorno d’oggi è più lontano dalla modernità, dunque inimmaginabile.
Quando entra nelle cucine, l’aspirante infermiera vede lunghissimi
forni che funzionano a carbone e che lei e gli altri lavoranti devono
alimentare a palate. Quando esce da quelle cucine, sembra la “Cenerentola”
della fiaba, perché tutta nera, sporca di fuliggine. Ma il bello (o piuttosto il brutto) deve
ancora venire: in quel periodo non ci sono ancora i grandi frigoriferi di adesso, ma solo pochi elementi. Il latte
viene portato direttamente dalle stalle e gli animali da cortile come galline,
conigli, polli, vengono forniti vivi. Ines ricorda che uno dei suoi primi compiti è stato quello di andare a
prendere un piccione per cucinare il brodino che sarebbe stato poi servito ai bambini ammalati. Nella cambusa,
quando si è trovata naso a naso con il volatile che non voleva morire, la
giovane allieva non ha avuto il coraggio di infierire oltre sulla povera bestia che la guardava spaventata ed è tornata a mani vuote, con gran disappunto del
cuoco.
Il sudiciume di queste cucine
attirava animali di tutti i generi, in particolare topi che vi scorrazzavano malgrado le varie trappole per acciuffarli: nelle
gabbiette messe allo scopo a rimanerci, invece, erano quasi sempre le dita dei lavoranti perché la molla che doveva bloccare
il ratto scattava sempre in ritardo!
L’apprendista infermiera, a quel
punto, era arrivata infine alla terza fase: quella della cura diretta degli ammalati. L’ospedale era brutto, vecchio, con grandi camerate dove venivano intasati
anche più di venti pazienti per volta.
Vi sono stata ricoverata anch’io nel 1960 per
una gamba rotta e posso, quindi, testimoniare di questa realtà. I reparti, allora,
erano quasi tutti diretti da suore che avevano un vero potere su tutti, anche
sui medici. Per cui era indispensabile tenersele buone, dimostrando di seguire
con scrupolo le funzioni religiose. Mentre la carità cristiana, con il passare
del tempo, veniva smarrita del tutto da queste religiose e i pazienti non
sempre erano trattati con il dovuto riguardo.
Di quel periodo Ines rammenta una
gran confusione, come se tutto avvenisse
in modo approssimativo, lasciato alla
buona volontà delle persone. C’era tanta promiscuità, si lavavano i malati a
letto, sempre senza guanti. I
pazienti non disponevano di pulsanti
elettrici per chiamare, ma sul comodino capeggiava una campanella che suonavano in caso di
necessità: se il malato era troppo
debole e non riusciva a scuoterla, era
il vicino di letto a chiamare per lui, almeno tra gli ammalati vigeva una forte
solidarietà. L’unica nota positiva: il bagno era alla turca, ovvero con un buco
nel mezzo e, almeno quello, era più igienico rispetto a quelli attuali, anche
se meno pratico.
La prima notte di guardia è
quella che Ines ricorda ancora come un incubo. Nel suo reparto è ricoverata una
vecchia barbona, tutta lacera e sporca, completamente ubriaca. Per non
svegliare tutti i pazienti della camerata le infermiere, di notte, si muovevano
con le torce. Ed è in piena notte che alla nostra allieva viene insegnato come fare la prima puntura e
proprio a questa povera disgraziata, che sembra dormire profondamente. La suora
regge la torcia, mentre la ragazza cerca di fare del suo meglio con la siringa.
Evidentemente qualcosa va storto perché la dormiente, appena Ines conficca con
mano tremante l’ago, si sveglia
all’improvviso, lancia un urlo disumano e fa un gran salto nel letto che la fa
cadere per terra. Questo trambusto sveglia di soprassalto tutti i malati della
camerata!
In tutto questo bailamme, la nota
positiva arriva quando Ines è inviata a Parma per seguire i corsi. L’ospedale di Parma è anche
sede universitaria per cui, lì, l’igiene viene presa in dovuta considerazione e,
alle infermiere, vengono impartite nozioni di questa importante materia.
Poi, poco a poco, tutto cambia
anche nell’Ospedale di Reggio Emila che viene riscostruito ex novo, si
ammoderna, e finisce per diventare, al giorno d’oggi, uno
dei migliori in Europa.
E, Ines commenta: se qualcuno oggi lavorasse come facevamo noi allora, lo caccerebbero a pedate!
Barbara Bertolini -
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2 commenti:
Vero tutto quello che ha scritto hai tralasciando con quale metodo venivano assunte le infermiere ma questa è un' altra storia Ines Bonini era del nostro paese questa è unaltra complimenti sei una vera scrittrice ciao
Cara anonima/0, mi sono dimenticata di chiedere a Ines come funzionava l'assunzione e, essendo tutt'ora viva e vegeta, la posso sempre interrogare. Ha lasciato l'ospedale tanti anni fa, e, come una sua sorella, lavorava nel reparto maternità., ciao Barbara
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