domenica 13 dicembre 2015

93. Le serve nelle case borghesi del passato, racconto di Lina Pietravalle

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale era facile trovare nelle case delle persone abbienti la servetta, ovvero una ragazza di campagna andata a servizio presso una famiglia per poter guadagnare un po’ di soldi, che avrebbe poi utilizzato sia per il suo corredo, una volta che andava sposa, sia per aiutare la propria misera famiglia. E non era raro che queste giovinette, trattate molte volte come vere schiave, diventassero anche un oggetto sessuale dei maschi di famiglia, con gravidanze indesiderate, come ci espone la scrittrice Lina Pietravalle ne “I racconti della terra”.

La scrittrice ci trasporta negli anni Venti del secolo appena passato e, con un linguaggio ricco e raffinato, pieno di sfumature psicologiche, ci racconta la storia di Rosanella inviata a servizio in un paese del Molise.




da   I RACCONTI DELLA TERRA – LA SERVETTA
di Lina Pietravalle


Era entrata in funzione una mattina di Domenica nella casa di notar Diego, il don Rodrigo d’un piccolo e romito paese molisano con uno schiaffo di vento ed una raffica d’acquazzone che l’aveva sbattuta col mento sulla porta lei la “ziotta” di Bagnoli del Trigno e un favoloso ombrello blu a righe rosse che aveva ballato sulle loro teste sbalordite per tutto il lungo cammino un saltarello maledetto, avendo sempre lottato col vento e l’acque con una stecca di ferro lunga come uno spiedo.

Toc-toc, era stato aperto. «Rosanna come si va?» dice donna Lavinia apparendo: «stai bona, stai bona» e canta una litania di «tempo schiattoso» di galline rubate sotto la pioggia e di Don Diego che ha i «reumatici» e della vecchia domestica che s’è allettata e «Dio e la Madonna lo sa». La zietta è entrata in cucina, nella bella veneranda cucina un po’ torva nella grigia luce del temporale, e la servetta vestita di verde come una ranocchia, tutta fradicia d’acqua, guarda allibita la ricchezza patriarcale dei rami che coprono le quattro pareti letteralmente.

Per Santo Michele com’è ricca la padrona! E pensa che potrà certo rubare del cacio, del lardo e della salciccia e venderla ai pastori in campagna «alla faccia sua». E intanto la «ziotta», che fu la balia d’uno dei figliuoli morti di donna Lavinia, si è seduta vicino al focolare, con le gambe larghe e gli scarponi infangati e parla con le cadenze lunghe della parlata paesana, tediose come i lamenti dei rapsodi vagabondi: «Rosannella è faticatora, serviziante, core di mamma, se ne vergogna che voi  siete signori grandi, ma se la “citolella” se non va dritta, signoria ai da chiudere gli occhi, e mena, mena dove cogli mena, addavè la ducazione, ca è cafoncella amara…». A Rosannella non conveniva affatto quel ritornello di «mena, mena». Donna Lavinia aveva una faccia di sughero affilata dalla malizia, senza labbra, con occhi sottili e arguti, come linee di fosforo giallo dietro gli occhiali, e una buon’aria conciliante di femmina-vipera. La servetta aveva l’istinto infallibile del fiuto di mestiere. Col capo chino, così nero ed un toche mandava la luce dell’inchiostro, sogguardava accigliata e selvaggia scrostando coll’unghia il muro vicino a lei… I giudizi ronzavano come mosche dietro la sua fronte stretta e opaca: era avara doveva dire le «buscie» a misurelle come i lupini, e certo glie ne avrebbe sonate assai di «scardoffie». Quando la zietta se n’andò nel pomeriggio essa rimase impassibile. Se le avesse voluto bene, lei ch’era senza figli e allevava due maialoni l’anno, non l’avrebbe portata per serva. Tant’è. Questo era il sigillo imperiale  di tutti i discorsi che rimuginava e faceva questa quattordicenne verdastra e pelosa come una pesca duraccina acerba. Tant’è.

«Schiatta che non lo faccio». Ma non lo diceva affatto a donna Lavinia di no «Mo’» rispondeva, «mò, donna Lavì, mò» e, fisiologicamente, decisa per uno dei suoi ghiribizzi silenziosi ed ostinati che lei quel giorno quella tale cosa non l’avrebbe fatta, si faceva buttare gli accidenti a grappoli come le cerase senza muoversi dal suo fiero proposito. Poi veniva l’intermezzo bellico. Un ciocco del focolare scagliato da Don Diego finiva sempre di sonare sulle sue spalle magre e piatte il suo «bemolle» molto duro. Cosicché lei astutamente in legnaia li sceglieva sempre leggerini e sottili i ciocchi. «Schiattasse donna Lavì, me le vuò sonà a me… Non è scema Rosanella». E rideva dentro le labbruzze impenetrabili strette con una piega di motteggio ironico inestinguibile. […]

Rosanella non è scema. Fatto si è che lo fu, povera Rosanella. Arrivò nel mese di luglio, reduce dalle glorie della laurea di medicina, dopo una grande solenne ripulitura di rami che le ruppe le reni per la smania furente dello strofinìo a ginocchioni, arrivò il giovane padrone, il tanto atteso e sospirato don Gherardo. La servetta non osò mai guardarlo. Ma lo stava a sentire quando parlava a tavola come si ascolta la melodia d’uno strumento, arcano, sconosciuto. Diceva cose magnifiche. Ma lei non capiva niente. E questo più che mai l’esaltava di mistica ammirazione. Che bel giovane! […]
Don Gherardo  trovò come omaggio una fila di scarpe e stivali da caccia usati e da usare la sera in camera tutti lustrati da lei, dalla servetta.

Il giorno dopo le dette cinque lire. Uno stipendio mensile raddoppiato «Quant’è galantuomo vero. Rosanella a te ti servirà come al cuore di Gesù. Non è scema». Ma il fatto si è che una brutta o bella sera don Gherardo che non sapeva che il solaio era diventato un gineceo andò, con grande semplicità, a cercare dei libri con cui voleva ingannare l’afa della notte estiva e trovò la servetta, nel suo costume senza costume, che chiacchierava coi topi di lui, con la voce spezzata, da piccoli singhiozzi ebeti di passione. «Oh don Gherardo! Come al cuore di Gesù ti voglio servire! Con le mani di cera fina m’hai dato cinque lire! cinque… cinque…».  […]

Egli la prese così di schianto, selvaggiamente, lei selvaggiamente borbottando delle piccole cose idiote condite con le invocazioni dei santi del suo paese… […] Tre mesi di delizia tacita, di senso panico della vita e del piacere dati dalla servetta quattordicenne che egli sentiva sbocciare sotto le sue mani e bruciare d’amore così come avesse la febbre vicino a lui. Poiché qualche volta, per non far scandalizzare i topi  della soffitta che ballavano dei balli da tabarin scapigliatissimi plaudendo intorno a loro, don Gherardo l’accoglieva nel suo bel letto profumato di lavanda. Oh dolce dormire! Paradisi di risate pensando allo scontroso e casto sonno legale di don Diego e donna Lavinia al primo piano che non s’immaginavano mai più come questo scarabocchio di donna fosse venuta a fare la nuora a casa loro! […]

Credeva ch’egli, l’avrebbe amata e ancora pensata. Era l’ottobre, il giochetto sdrucciolo finiva tra giorni.

Rosanella con tutta probabilità poteva passare  a Don Diego, suo padre. «Amore!» gridava lei con la voce così sottile all’eco che pareva uscisse da un flauto di vetro. «More! More!» rispondeva l’eco. Per fortuna era già stanco e poi egli si stava ingolfando in un guaio. Rosanella non aveva che quattordici anni. Glie lo disse alla sera carezzandola con una certa tenerezza. «Sai, me ne vado dopo domani». Essa non rispose nulla. «Ti dispiace?» Nulla. «Don Diego non ti ha mai detto niente, Rosannè?» Sapeva il padre un vecchio impenitente cacciatore di giovane selvaggina. Lei si voltò con gli occhi opachi. Molto tranquilla gli s’avventò contro, lo morsicò sulla faccia, poi lo prese per i capelli […]. «Don Gherà, che puozzi morì avvelenato!» Se n’era andato con quel saluto di Rosanella negli occhi. Ora lei guardava alla luce della lucernetta ogni sera le cento lire che gli aveva lasciato lui, con un’angoscia sorda rievocando l’ultimo bacio negato, disdegnosa ed aspra, con la faccia irrigidita in un’ostilità taciturna. «Ti dispiace Rosannè?» «Nun me n’emporta». L’antica fierezza, sannita le inturgidiva le sue vene di piccola paria abbietta e triste del destino.

Nessuno s’era accorto di nulla. Poi la servetta cambiò. Soffriva di stomaco, non mangiava, si trascinava faticando, piagnucolava, aveva perduto la sua scaltrezza petulante, la sua modestia farisaica. E andò dal medico. Il medico andò da donna Lavinia. Rosanella non c’era. Si prese il caffè in cucina, sbattè le labbra circospetto. Le sopracciglia sue tragiche di maschera buffa si erano riunite in un sol ponte levatoio […] «La ciotola è in cinta, sette mesi, eggià, donna Lavì».
A Donna Lavinia prese un mezzo svenimento. […] Poi mandò a chiamare Don Diego che era  a pontificare sul Municipio e tutte e tre insieme, scemoniti, sbalorditi e furibondi non combinarono nulla. Senonché sopraggiunse Rosanella. Ascoltò la notizia come se le avessero detto «Spunta il sole o piove» senza batter ciglia. La strinsero di contumelie orrende, di domande feroci, assillanti, la sedussero di promesse, la blandirono. Niente. Il segreto era impenetrabile.

La servetta pareva distrutta […] si fece dare da Don Diego strozzato dalla bile, uno schiaffo che l’abbatté come una canna spezzata dal vento sul tavolo da cucina sempre senza fiatare, e ricominciò le sue fatiche con una guancia rossa e una verde, la bocca stretta dall’enigma, gli occhi grandi pieni d’ombra e di noia che guardavano lontano.

La fecero parlare col parroco. Nulla, niente. S’infisciò dei santi, come dei demoni. Certo era stato il pastore Biase. Costui era un ragazzo mezzo idiota, garzone della famiglia, che spasimava d’amore per lei e la perseguitava ricevendo insulti e sputi come mazzi di viole da mesi e mesi, senza perdersi d’animo.

Alla masseria del Pontebasso doveva essere successo il «fatto nero». Con tale colorazione viva e pittorica di particolare erotici le comari lo raccontavano giurando, spergiurando che il miracolo della maternità di Rosanella diventò una verità inesorabile. Biase ci credette pure lui. E borbottava dietro di lei che  andava ad abbeverare i porcelli con un’aria di regina offesa «Ce spusamme Rosannè, n’avé paura». E Rosanella – za  ̶  uno sputo, grande come un doppione, in faccia. S’era perfezionata e le uscivano belli grossi come medaglie. Finalmente dovette partire. La spedirono alla maternità a Napoli, come un campione senza valore, accompagnata dal carrettiere, Mastro Gaetano. […]

All’ospedale fu buona, placida. Accucciata vicino al suo letto ascoltava i gridi disumani delle partorienti, i vagiti laceranti dei neonati, vedeva il tramestìo brutalmente meccanico delle levatrici e dei dottori apatici, incattiviti dal dolore e dalla miseria immensa che sanguina dal mistero augusto della Maternità rinnegata.

Tristezze abbiette e penitenze oscure per un frutto senza nome e senza bene… l’Esposito, il Proietti… Ma Rosanella non arrivava a tutta questa amara filosofia della vita. Lo avrebbe mandato alla «ruota» il bamboccio. Poi sarebbe tornata. Tant’. Don Gherardo tornava a Pasqua. Ardo! Ardo! L’eco della voce bruciata d’amore le pareva fosse spenta immobile laggiù, nella roccia della montagna spaccata. Don Gherardo aveva saputo il fattaccio. Meno Male. Rosanella non aveva parlato. Al suo ritorno le avrebbe dato dei quattrini, era una piccola curiosa amica al senso di cipolla, non disprezzabile nei lunghi digiuni in quel disperato Makallè del suo paese.

Una madre così piccina interessava. La levatrice-capo, l’ostetrico direttore di sala vedendola così sperduta, grave e intontita attendere senza paura l’evento che poteva esser fatale alla sua matrice bambina la guardavano con un senso di pietà.

L’interrogarono con trabocchetti di malizia nuova, ci ridevano su saporosamente. «E’ stato forse il padroncino?» La servetta si accigliò, poi rise anch’essa con un risolino stupido. «E’ stato Biase» disse «gnora levatrice, un garzone di Don Diego, ca me sposa». […]


Lyna Pietrvalle, I racconti della terra, nuova edizione a cura di Gian Mario Fazzini, Libreria Editrice Filopoli, ISBN 88-902369-9-X, 2006

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