sabato 5 aprile 2014

82. Parole in disuso di Giuseppe Prezzolini

Diligenza con "trapelo" (cavallo dietro)
Tante parole della lingua italiana utilizzate nel passato sono andate perdute e, molte, invece, stanno in un angolino del nostro cervello, seppellite da montagne di informazioni, pronte a risorgere appena qualche scrittore ha la bontà di adoperarle. 
Secondo Zanichelli, che ha lanciato l’allarme, sono all’incirca 2800 le parole italiane che rischiano, ora, l’estinzione. Tra queste, per esempio, “imbolsire (ingrassare), invacchiare (andare a male e segnato come errore da Word!), misoneista (contrario ad ogni innovazione), belluino (feroce), ecc…”.  Ma anche tanti termini dei mestieri scomparsi.
Ho ritrovato un testo delizioso di Giuseppe Prezzolini  (1882-1982) sulla parola “trapelo”, che voglio condividere con voi poiché riporta in vita un bel pezzo di altri tempi, un racconto che è stato pubblicato per la prima volta nel 1954 dall’editore Longanesi. Barbara Bertolini

                                   IL TEMPO DEL “TRAPELO”
                                      di Giuseppe Prezzolini

[…]  La parola “trapelo” era sparita di circolazione, dopo aver servito per qualche migliaio d’anni la gente del Mediterraneo; messa via; a disposizione (di chi? di chi aveva  troppi anni come me); e a riposo (dopo aver tirato tante diligenze, carrozzoni, vetture da signori, e carichi di mercanti). Era dunque una parola disusata,  invecchiata,  antiquata, anzi forse già arcaica e certamente morta per la gente non più giovanissima, una parola che, presto, i compilatori di dizionari avrebbero preso con le pinze dalle colonne vive nell’alto della pagina e depositato in basso.

Quella parola l’avevo adoperata come se fosse viva ancora fra le nuove generazioni, dimenticando che queste erano nate quando non si andava più in “diligenza”, e la parola “corriera” aveva già acquistato il significato di un carrozzone automobile.  Avevo dunque evocato uno spettro, e d’un tratto mi parve di aver abbandonato il salotto di Madison Avenue, col suo calore di calorifero, e d’esser tornato ai tempi in cui, per me ragazzo, la fermata per attaccare il “trapelo” significava che potevo uscire dalla corriera, e accompagnare al passo i tre ronzini che traevano avanti il corpo della diligenza e di passeggeri più anziani; e mi permetteva di andare avanti e indietro con un frustino in mano cavato dalla prima siepe che fosse capitata a portata di temperino.

Pensavo che erano bastati pochi anni per far cadere in disuso una parola antica di secoli; pronunciata da gente del popolo e adoperata da letterati, magari chi sa da quanti poeti.

Trapelo voleva dire passeggiata libera, aria e sole, rincorse con altri ragazzi, uscita dall’atmosfera dei “grandi” chiusi tutti con le loro chiacchiere tabaccose nel rumore di ferraglia e di vetrame della diligenza. Era una parola che mi faceva riudire i campanelli dei cavalli, gli schiocchi di frusta del vetturale ed il fruscio dei prati e delle messi al passare d’un alito di vento.

Ora anche la vista di quella funzione (di attaccare un “trapelo”), generalmente su sfondo di un’osteria, significava lontananza dal potere immediato di mio padre. Quelle gite, quelle spedizioni, quelle avventure erano la libertà.
Ora la figura di mio padre mi fa tornare a mente altre cose tramontate insieme con il “trapelo”. Subito che penso a lui, mi viene in mente la figura davanti al caminetto, col dorso verso il fuoco e le mani sollevano le due falde del trait per riscaldare meglio le parti deretane; mentre nello stesso tempo s’accalora e discute. Ecco un vestito completato da pantaloni a righe che non si porta più. Ecco un atteggiamento che non usa più. Sulla tavola dove lavorava sta un lume detto “livello”, e l’olio contenuto in un serbatoio scende lentamente mantenendo una fiamma uguale e quieta che riverbera luce soltanto sulla pagina da leggere o da scrivere mediante una cupola di smalto verde prato fuori e bianco latte all’interno. Mio padre fuma ogni tanto un sigaro  corto che si chiama Cavour. E quando dà una buona mancia è una moneta d’argento chiamata cavurrino.

[…]  E’ il tempo del “trapelo”. Nella cucina tutti si cuoce sui fornelli a forza di carbone di legna, e la cuoca si lamenta che le hanno rifilato troppi “fumi” in mezzo ai pezzi buoni.  In biblioteca arriva l’ultimo libro di un giovane, che fa impressione, si chiama Guglielmo Ferrero e decreta la fine delle Nazioni latine superate da quelle nordiche.  Il primo noleggio di biciclette viene aperto e si chiede al genitore i soldi per poterla inforcare. Più tardi la vorremmo comperare.
E’ il tempo del “trapelo”. In cantina arriva la damigiana di Chianti che bisogna travasare nei fiaschi. I fiaschi vengono poi riempiti d’olio e sopra la bocca si mette un cappuccio di terra cotta perché i topi non vengano con la coda a sorbirlo. A scuola arrivano le prime “signorine”. Cominciano le ostilità che preludono all’amore. Portano sottane lunghe e stivaletti alti con molti bottoni. Quanto tempo ci vorrà a farli uscire dai loro occhielli? Arrivano i padrini per un duello del fratello maggiore, c’è gran sussurro in casa. Sono dei signori vestiti di un palamidone nero, e fanno la faccia feroce. Anche io faccio a duello ai pugni con un compagno e sono accompagnato dai miei padrini in un prato dove imparo a buscarne senza lamentarmi e a stringere la mano all’avversario.

[…] E’ il tempo del “trapelo”. Non lo rimpiango. Non lo elogio. A me già dava a noia e volemmo farne un altro. Questo non è migliore, perché già puzza per molti.
Estratto da  L’italiano inutile, Rusconi edit., Milano 1983 – pp. 9-13

Nota:

Quando parla di Madison Avenue è perché Prezzolini si era trasferito in America ed era lì che era nata la discussione tra di lui e personaggi del “bel mondo” di italiani di New York. (BB)

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