di Rita e Angela Frattolillo (bambine nella foto)
La nostra euforia per il Natale cominciava piuttosto presto, a novembre: noi sorelline eravamo investite del compito di preparare l’impalcatura del presepe, e vi posso assicurare che era un lavoro piuttosto complicato, anche perché io e mia sorella, che eravamo le più grandine, avevamo il compito di vigilare a che le due piccole non facessero troppi danni mettendo le mani dappertutto. La metà di una stanza, quella del balcone che aveva il soffitto decorato con angioletti paffuti e svolazzanti, veniva occupata da cataste di sughero che noi disponevamo su una struttura di legno fissa in modo da formare montagne e grotte. Poi era la volta della casette di cartone pressato e dipinto alla buona, dei pastori comprati, in più riprese, a S. Biagio dei librai, da nostro padre che allora insegnava a Napoli. Qualcuno, nel tempo, e malgrado il trasloco da una casa all’altra, è sopravvissuto, anche se ne porta i segni: a Gesù bambino s’è rotta la testa (che è stata amorevolmente incollata); il pescivendolo è rimasto senza bancone; la pastorella ha qualche pecora in meno; fortunatamente il pastore dormiente, che è una figura con una simbologia precisa, è rimasto intatto. Infatti, nella tradizione napoletana, la sua presenza è indispensabile perché è lui, dormendo, che sogna il presepe, la Natività: se si sveglia, il sogno svanisce!
Sistemate figurine, animali e casette, finalmente era il turno del muschio.
Ne occorreva molto, per tappezzare le giunture, formare il prato, adornare la grotta di Gesù, coprire i bordi del laghetto ottenuto con una scheggia di specchio. Muschio che non si vendeva nei supermercati, a differenza di oggi, ma si trovava “in natura”, fresco e bellissimo, come un velluto cangiante; bastava andare a cercarlo nei posti giusti. Il segnale era quando papà staccava dall’armadio la sua giacca di cacciatore.
Noi allora si partiva felici e imbacuccate, armate di borsa, trotterellando dietro a lui e al suo cane da caccia. Dopo un accurato sopralluogo, estraeva dalla giacca il coltello di cacciatore dalla punta acuminata, e staccava con cautela il muschio dalle cortecce degli alberi, dai muretti che delimitavano gli appezzamenti, dal recinto della macina. Noi lo deponevamo nella sacca con delicatezza, per non farlo rompere e ci divertivamo a seguire la nuvola che formavamo col fiato, nella nebbia mattutina.
Il nostro Natale di allora era estremamente povero: senza alberi o palline colorate, niente luci o regali sfavillanti. Il suo momento clou, dopo il rosario, era la processione giaculante dietro al bambino più piccolo della famiglia che aveva il privilegio di portare Gesù bambino per tutta la casa: il terrazzo, il cortile, la fuga delle stanze.
Ma la Befana, no; era una vera festa.
Ai nostri occhi vigili non sfuggiva, nella settimana che la precedeva, un insolito traffico. Papà ritornava da Napoli con grossi pacchi che, misteriosamente, non arrivavano mai su.
Noi gli davamo il tormento nella speranza di capire: “papà, che ci porta la befana?”. E lui: tu che vuoi che ti porti? Di giorno in giorno le mie, le nostre pretese aumentavano : la bambola, la carrozzina, le pentole, le tazze. Lui incalzava, ma cosa vuoi di più? E così per ore; a volte si inteneriva al nostro spasmodico desiderio di sapere e implorava mamma con gli occhi per avere da lei l’approvazione nel rispondere. Ma lei inflessibile, interveniva cercando di distogliere la nostra attenzione. Allora papà ci diceva di gridare i nostri desideri alla Befana attraverso il camino, e noi lì a ripetere, sotto il suo sguardo divertito, fino a rimanere senza fiato…la bambola, la palla, la carrozzina, le tazze, il lettino…
La sera fatidica, messa in bella mostra la calza più capace, ci proponevamo, io e Angela, di stare sveglie, per poter sorprendere la… Befana. Il nostro chiacchiericcio andava avanti per ore, ma poi, nonostante i propositi e i mezzi escogitati, sprofondavamo sempre in un sonno traditore. Angela era sempre la prima a svegliarsi, alle due o tre, e, intraviste le calze gonfie di doni, lanciava l’urlo vittorioso, mi svegliava, e tutte correvamo nella camera da letto dei genitori per mostrare ciò che la Befana ci aveva portato; poi a giocare, fino a che le prime luci dell’alba ci sorprendevano riaddormentate e abbracciate alle bambole, alle palle, alle tazzine, con la mano sulla carrozzina…
E i sogni erano sempre bellissimi: spingevo sul marciapiede la mia carrozzina di vimini con la bambola bionda ed elegante e tutte le bambine si affacciavano a guardare con un bel po’ di invidia per me, così fortunata.
La sera dell’Epifania, con malinconia si smontava il presepe e si riponeva il tutto, fino al prossimo Natale.
2 commenti:
Ricordod anch'io con molta nostalgia il presepe. Mio padre riusciva a realizzarne uno che faceva l'invidia di tutto il vicinato: il suo mulino funzionava, la fontana zampillava acqua e anche le pecorelle si muovevano.....
Come sono lontani questi Natali e che nostalgia delle persone che non ci sono più!
Posta un commento