«Affondo le mani per mondare il riso in un’acqua stagnante che mi arriva alle ginocchia. E’ il mio primo giorno di risaia, ho 13 anni e mezzo e cerco di imparare il più in fretta possibile. Ma ecco che tra le mani, invece di una pianta infestante mi capita una cosa viscida che si muove: oddio, è una grossa biscia! Terrorizzata, lancio un urlo e faccio un salto all’indietro, andando a finire addosso al “padron” che sta proprio alle mie spalle, osservando il mio lavoro. Cadiamo tutti e due in acqua. L’uomo, infuriato, non si trattiene e declama una raffica di bestemmie che non finisce più perché si è tutto inzuppato. Dobbiamo tornare alla cascina per cambiarci i vestiti e io mi sento come un cane bastonato».
E chi se lo può scordare questo primo giorno di maggio del 1937? Da allora la mondina l’ho fatta quasi tutti gli anni, per altri vent’anni.
Non ero certo la sola a partire per la risaia. Migliaia di contadine si avviavano dall’entroterra di Piacenza, Parma, Reggio, Modena per due volte all’anno. Era l’unica attività lucrativa per la donna, perché la mondina veniva pagata in soldi e in “riso”. L’organizzazione era perfetta. Le richieste arrivavano ai comuni. Ci si iscriveva e, il giorno fatidico, arrivava un camion che raccoglieva tutte le donne dei vari paesini della zona e ci portava alla stazione. Io prendevo il treno a Reggio Emilia. All’arrivo a Vercelli, Novara o Pavia, ci aspettava il cavallante con il suo carretto per portarci alla cascina che ci era stata assegnata.
Venivamo sistemate in grossi silos (che avrebbero poi raccolto il riso), suddivisi in cosiddette stanze da 20 posti e più dove c’erano predisposte delle brandine. La prima cosa da fare era andare a prendere il pagliericcio, cioè della paglia che veniva da noi sistemata in una grossa fodera portata apposta da casa e che ci serviva da materasso.
Il giorno dopo cominciava il duro lavoro. Sveglia alle 5 ½. Dopo aver bevuto ¼ di latte e un tocco di pane si andava nel campo da riso da mondare. Estirpare non era facile, c’erano delle piante così radicate nel terreno che per tirarle via ci voleva la forza di due persone.
Stop a mezzogiorno. La cuoca ci preparava un piatto di riso con fagioli o patate, e questo era il menu di tutti i giorni. Alle due si ritornava in risaia fino alle 19. Grazie ai sindacati, questo limite fu successivamente abbassato di un’ora.
Per cena, stesso menu del pranzo.
Ma per noi, anche se eravamo stanche morte, era la sera il momento magico, perché dopo aver mangiato e sistemato le nostre cose ci ritrovavamo tutte insieme a chiacchierare a cantare o a ballare tra donne. Gli uomini erano infatti molto pochi: solo i cavallanti. E quella, comunque, era una vita dura, ma non diversa da quella che facevamo nelle nostre famiglie.
L’unica cosa veramente insopportabile erano gli insetti, di cui la risaia era infestata: al mattino i moscerini, a mezzogiorno i tafani e la sera fameliche zanzare che non ti lasciavano dormire: una tortura.
Al giorno d’oggi tutto è stato sostituito dalle macchine e le mondine si sono emancipate… Altri tempi!
E chi se lo può scordare questo primo giorno di maggio del 1937? Da allora la mondina l’ho fatta quasi tutti gli anni, per altri vent’anni.
Non ero certo la sola a partire per la risaia. Migliaia di contadine si avviavano dall’entroterra di Piacenza, Parma, Reggio, Modena per due volte all’anno. Era l’unica attività lucrativa per la donna, perché la mondina veniva pagata in soldi e in “riso”. L’organizzazione era perfetta. Le richieste arrivavano ai comuni. Ci si iscriveva e, il giorno fatidico, arrivava un camion che raccoglieva tutte le donne dei vari paesini della zona e ci portava alla stazione. Io prendevo il treno a Reggio Emilia. All’arrivo a Vercelli, Novara o Pavia, ci aspettava il cavallante con il suo carretto per portarci alla cascina che ci era stata assegnata.
Venivamo sistemate in grossi silos (che avrebbero poi raccolto il riso), suddivisi in cosiddette stanze da 20 posti e più dove c’erano predisposte delle brandine. La prima cosa da fare era andare a prendere il pagliericcio, cioè della paglia che veniva da noi sistemata in una grossa fodera portata apposta da casa e che ci serviva da materasso.
Il giorno dopo cominciava il duro lavoro. Sveglia alle 5 ½. Dopo aver bevuto ¼ di latte e un tocco di pane si andava nel campo da riso da mondare. Estirpare non era facile, c’erano delle piante così radicate nel terreno che per tirarle via ci voleva la forza di due persone.
Stop a mezzogiorno. La cuoca ci preparava un piatto di riso con fagioli o patate, e questo era il menu di tutti i giorni. Alle due si ritornava in risaia fino alle 19. Grazie ai sindacati, questo limite fu successivamente abbassato di un’ora.
Per cena, stesso menu del pranzo.
Ma per noi, anche se eravamo stanche morte, era la sera il momento magico, perché dopo aver mangiato e sistemato le nostre cose ci ritrovavamo tutte insieme a chiacchierare a cantare o a ballare tra donne. Gli uomini erano infatti molto pochi: solo i cavallanti. E quella, comunque, era una vita dura, ma non diversa da quella che facevamo nelle nostre famiglie.
L’unica cosa veramente insopportabile erano gli insetti, di cui la risaia era infestata: al mattino i moscerini, a mezzogiorno i tafani e la sera fameliche zanzare che non ti lasciavano dormire: una tortura.
Al giorno d’oggi tutto è stato sostituito dalle macchine e le mondine si sono emancipate… Altri tempi!
Armentina
1 commento:
Le vere eroine che hanno creato l'economia italiana di allora!
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