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La Bettola nel 1944 |
di Barbara Bertolini
Del passato non ci sono solo scenari idilliaci da
ricordare ma anche storie terribili di violenze e barbarie come questa,
avvenuta alla “Bettola”, comune di Vezzano, vicino a Reggio Emilia, la notte di
San Giovanni del 1944, una calda notte stellata, dove pace e serenità regnavano sovrane
perché il coprifuoco, in vigore dalle
22, impediva a chiunque di uscire.
In quel
lontano 1944 la guerra ormai aveva dato il peggio di sé e non c’era più nulla
da perdere sia per i fascisti che per i tedeschi ma, anche i partigiani
colpivano duro: insomma si era arrivati ad un punto di non ritorno dove non
c’era più umanità per nessuno, come dimostra questo episodio, non certo il solo
nel panorama italiano di allora. Anzi, dicono M. Durchfeld e M. Storchi*
che le stragi perpetrate dai tedeschi di più ampie
proporzioni avvennero proprio nell’estate-autunno di quell’anno.
Tra le verdeggianti colline, sulla strada che da
Reggio Emilia porta a La Spezia, inerpicandosi su sulle montagne dell’Appennino
emiliano, c’era, e c’è ancora, un’osteria,
La Bettola, comune di Vezzano sul Crostolo: un bell’edificio che fungeva da
locanda, bar, ristorante, nota per la sua ospitalità e il suo vino frizzante.
L’antico Albergo Ponte Bettola, così si chiamava, ospitava in quel periodo
famiglie di sfollati e, nell’ampio piazzale si fermava regolarmente la
corriera che transitava su quest’arteria. Quella sera in tutto vi erano 37 ospiti compreso
l’oste sua moglie e sua figlia.
In quei mesi, la Resistenza nel reggiano non era
ancora ben struttura perché era difficile reperire personale in grado di
tradurre in azioni le direttive emanate dal CLN, ovvero il Comitato Liberazione
Nazionale, che raccoglieva in un unico organismo i diversi partiti
dell’antifascismo storico e che fungeva da direzione politica della lotta di
Liberazione. Le formazioni partigiane che vi transitavano erano gruppi mal
armati di antifascisti composti su base volontaria. Probabilmente questa strage
non sarebbe mai avvenuta se, invece di un ragazzino di 19 anni, nominato
comandante della pattuglia, vi fosse stato qualcuno di più maturo e preparato a
condurre questa operazione di
sabotaggio.
Ma
veniamo ai fatti.
A Casina, comune a circa 15 km dalla Bettola, arrivò tra il 13 e il 20 giugno del ’44
un’unità della Gendarmeria tedesca comandata da un certo capitano Laner o
Lannech. Alle ore 21.45 del 23 giugno alcuni uomini di Laner furono attaccati
dai partigiani sul ponte “La Bettola”, poco distante dall’osteria e, nel
combattimento, persero la vita due tedeschi e tre partigiani.
Cosa era successo? I partigiani avevano deciso di
minare il ponte per tagliare la strada ai tedeschi. Ma, inesperti, aveva
provocato solo pochi danni che i nazisti, il giorno dopo, avevano riparato
senza problemi. Solo che il giovane capo di quella formazione partigiana,
Enrico Cavicchioni (nome in codice Lupo), di appena 19 anni, senza nessuna
esperienza militare, aveva deciso di ritornare sul posto la sera dopo per
riminare quel ponte: un errore fatale. Un soldato esperto sa che non si deve
mai ritornare sul luogo del delitto poiché
ci sono buone probabilità che venga sorvegliato dal nemico. E, infatti,
i giovani guerriglieri vengono scoperti dai soldati del Reich e, nell’accanito
combattimento, rimangono uccisi due tedeschi e tre partigiani. Sono le ore
21.45 del 23 giugno ’44.
Intanto gli occupanti della locanda vicino hanno
sentito gli spari, ma sono tranquilli perché non capiscono quello che è
successo e, soprattutto, sono totalmente estranei ai fatti, ecco perché non percepiscono nessun pericolo e
ognuno di loro va a dormire sperando che l’alba torni presto. Eppure, avrebbero
tutti avuto il tempo di fuggire, tanto più che sul piazzale era ferma la
corriera della SARSA. Ma nessuno di loro poteva sapere che i comandi nazisti
avevano ricevuto da pochi giorni il seguente terribile Ordine dal Feldmaresciallo
Albert Kesselring (17.6.1944) :
«[…] Là dove compaiono bande di notevoli proporzioni,
bisogna ogni volta arrestare una determinata percentuale della popolazione
maschile della zona e, qualora si verificassero violenze, fucilarla. Bisogna
farlo sapere agli abitanti. Se in qualche località si sparerà sui soldati ecc…,
la località stessa dovrà essere incendiata. Esecutori o caporioni saranno
impiccati in pubblico […]».
Insomma, una guerra dichiarata anche a tutta la
popolazione civile.
Ecco perché la reazione dei tedeschi è immediata. Già
alle 23,15 partono da Casina dove sono stanziati, circa 50 dei 140 uomini del
presidio. Arrivati sul posto, circondano
cautamente alcune abitazioni situate nei pressi del ponte. Entrano nella casa
più vicina e uccidono all’istante due vecchi: Liborio Prati, sua moglie e la
loro figlia. In quella casa c’è anche la nipotina di 11 anni, Liliana Del Monte.
Quando i soldati tedeschi sparano alla lampadina facendo precipitare la stanza
nel buio, la bambina ha il riflesso giusto poiché si nasconde sotto le coperte del lettone dei nonni. Rimarrà ferita da ben
tre pallottole ma riuscirà comunque a fuggire saltando da una finestra quando
la casa, incendiata dai militi, sta
bruciando. Liliana è nata per vivere perché, ferita e una caviglia rotta, la
ragazzina riuscirà a nascondersi nell’erba alta vicino al fiume. Ma un soldato
delle SS successivamente la scorge e, lì, scatta l’unico barlume di umanità di
quella notte ̶ ha anche lui una figlia che l’aspetta in
Germania forse? ̶ comunque sia, rischiando la fucilazione, la
prende in braccio per spostarla in un posto più sicuro dove potrà essere
soccorsa dalle persone del luogo. Grazie a questo gesto caritatevole, la
ragazzina sarà una delle poche persone sopravvissute al massacro. Intanto i
nazisti si dirigono verso la Bettola e si fanno aprire dall’oste Romeo
Beneventi. Poi fanno uscire donne, uomini e bambini, radunandoli in due luoghi
diversi: una parte nel garage della locanda e l’altra parte dietro la casa.
I primi sono mitragliati, poi ricoperti da tronchi
d’albero, cosparsi di benzina e dati alle fiamme per incenerirne i cadaveri. A
quelli radunati dietro al fabbricato toccherà una sorte peggiore perché
verranno trucidati a bastonate e uccisi
a colpi di pistola, quindi gettati nel rogo insieme agli altri. Tra questi, un
bambino di appena 18 mesi che fu buttato vivo nelle fiamme. Delle persone prese dai soldati tedeschi si
salvarono alla carneficina solo l’oste, sua moglie e sua figlia perché,
approfittando di un momento di confusione, si erano nascosti nel lavatoio. C’è anche
uno studente che si salva quella sera. E’ Paolo Magnani, sfollato a La Bettola
dopo aver dato l’esame di maturità al Liceo di Reggio Emilia. L’ha salvato il fatto che rischiava di essere
preso come renitente alla leva. Quando
sente gli spari si nasconde in solaio dietro a mucchi di legna, un nascondiglio
che aveva preparato precedentemente con cura. Si salvano anche altri cinque carrettieri
precettati per portar legna e che si erano fermati alla Bettola. Infatti,
avevano capito, fin da subito, che le cose avrebbero potuto mettersi male e si
erano nascosti per precauzione in cantina riuscendo a fuggire senza essere
visti quando tutta la casa brucia.
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Quello che resta della Bettola |
Tra le testimonianze
di questo massacro quella di Liliana Del
Monte la ragazzina salvata dal soldato tedesco, raccolta nel libro, Il nazista e la bambina da lei
pubblicato nel 2008. Scrive, infatti, Liliana che, dopo aver udito gli spari tra i tedeschi
e i partigiani la nonna chiese al nonno:
«[…] Cosa
facciamo? Nonno Ligorio ci pensò un attimo su e disse: - Vestitevi e andiamo a
letto. Spegniamo le luci e che nessuno si muova, per nessun rumore, evento,
ragione. Finché non lo dico io. Non
abbiamo fatto nulla, non dovremmo correre alcun pericolo, ma stiamo pronti a
qualsiasi cosa. - Prosegue Liliana - Com’è
fatto l’inferno? Il mio inferno è fatto di un calcio che spalanca la porta di
casa mia, e questa porta diventa una bocca che vomita lupi mannari, che
indossano una divisa grigia e hanno un mitra in mano. Sono due, quattro, sei.
Io sono abbracciata alla mamma, paralizzata dal terrore in un angolo della
cucina […] Il mio inferno sono sei belve che spingono me e la mia mamma nella
camera dei nonni, ci costringono ad andare verso di loro che sono seduti nel
letto, si schierano in un secondo contro il muro. Hanno davanti agli occhi un
anziano, un’anziana, una bambina e, a sinistra, una donna in piedi. E sparano.
Sparano. Sparano ancora. Sono sicura che anche loro sono andati incontro alla
morte increduli. Questa, forse, la ragione del loro silenzio (dei nonni e
della mamma n.d.r.). Troppo
lo stupore, troppa l’assurdità. Da lasciare senza parole».
Come già detto, Liliana si salverà ma con questi
terribili ricordi. Il regista Christian Spaggiari realizzerà nel 2016
il film La rugiada di San Giovanni
tratto dal libro della donna.
A fine guerra ci sarà un’indagine su questa barbarie
sia in Italia che in Germania. Venne aperto un procedimento contro il capitano
Paul Nikoleizyk, contro il suo superiore Karl-Heinz Bűrger delle SS ed altri.
Ma questa inchiesta non ebbe però alcun seguito e il Procuratore generale di
allora decise nel 1960 la sua archiviazione provvisoria. Nel 1971 si archiviò
definitivamente tutto perché fu impossibile determinare quali membri dell’unità
avessero effettivamente compiuto il crimine e il materiale venne relegato nel
famoso “archivio della vergogna” di Palazzo Cesi a Roma.
E, intanto, per tutti i sopravvissuti le conseguenze
di questa strage furono terribili: uno dei birocciai, Guido Garlassi, da quella
notte non riuscirà più ad addormentarsi a luce spenta o da solo in camera. Romeo Benvenuti, l’oste superstite, non
parlerà più e non ricorderà. Ha cancellato tutto di quei fatti, è diventato
come un bambino affidato alle cure dalla moglie.
La sporca guerra aveva spazzato via, in tutta la
penisola, intere famiglie di innocenti che avevano avuto solo la sfortuna di
trovarsi nel posto sbagliato.
Barbara Bertolini
*
Matthias Durchfeld e Massimo Storchi, La Bettola la strage della notte di San
Giovanni, Istoreco, s.d., Reggio Emilia
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