Fino alla fine
della Seconda guerra mondiale era facile trovare nelle case delle persone
abbienti la servetta, ovvero una ragazza di campagna andata a servizio presso
una famiglia per poter guadagnare un po’ di soldi, che avrebbe poi utilizzato sia
per il suo corredo, una volta che andava sposa, sia per aiutare la propria
misera famiglia. E non era raro che queste giovinette, trattate molte volte
come vere schiave, diventassero anche un oggetto sessuale dei maschi di
famiglia, con gravidanze indesiderate, come ci espone la scrittrice Lina
Pietravalle ne “I racconti della terra”.
La scrittrice ci
trasporta negli anni Venti del secolo appena passato e, con un linguaggio ricco
e raffinato, pieno di sfumature psicologiche, ci racconta la storia di Rosanella
inviata a servizio in un paese del Molise.
da I RACCONTI DELLA TERRA – LA
SERVETTA
di Lina Pietravalle
Era entrata in
funzione una mattina di Domenica nella casa di notar Diego, il don Rodrigo d’un
piccolo e romito paese molisano con uno schiaffo di vento ed una raffica
d’acquazzone che l’aveva sbattuta col mento sulla porta lei la “ziotta” di
Bagnoli del Trigno e un favoloso ombrello blu a righe rosse che aveva ballato
sulle loro teste sbalordite per tutto il lungo cammino un saltarello maledetto,
avendo sempre lottato col vento e l’acque con una stecca di ferro lunga come
uno spiedo.
Toc-toc, era
stato aperto. «Rosanna come si va?» dice donna Lavinia apparendo: «stai bona,
stai bona» e canta una litania di «tempo schiattoso» di galline rubate sotto la
pioggia e di Don Diego che ha i «reumatici» e della vecchia domestica che s’è
allettata e «Dio e la Madonna lo sa». La zietta è entrata in cucina, nella
bella veneranda cucina un po’ torva nella grigia luce del temporale, e la
servetta vestita di verde come una ranocchia, tutta fradicia d’acqua, guarda
allibita la ricchezza patriarcale dei rami che coprono le quattro pareti
letteralmente.
Per Santo
Michele com’è ricca la padrona! E pensa che potrà certo rubare del cacio, del
lardo e della salciccia e venderla ai pastori in campagna «alla faccia sua». E
intanto la «ziotta», che fu la balia d’uno dei figliuoli morti di donna
Lavinia, si è seduta vicino al focolare, con le gambe larghe e gli scarponi
infangati e parla con le cadenze lunghe della parlata paesana, tediose come i
lamenti dei rapsodi vagabondi: «Rosannella è faticatora, serviziante, core di
mamma, se ne vergogna che voi siete
signori grandi, ma se la “citolella” se non va dritta, signoria ai da chiudere
gli occhi, e mena, mena dove cogli mena, addavè la ducazione, ca è cafoncella
amara…». A Rosannella non conveniva affatto quel ritornello di «mena, mena».
Donna Lavinia aveva una faccia di sughero affilata dalla malizia, senza labbra,
con occhi sottili e arguti, come linee di fosforo giallo dietro gli occhiali, e
una buon’aria conciliante di femmina-vipera. La servetta aveva l’istinto
infallibile del fiuto di mestiere. Col capo chino, così nero ed un toche
mandava la luce dell’inchiostro, sogguardava accigliata e selvaggia scrostando
coll’unghia il muro vicino a lei… I giudizi ronzavano come mosche dietro la sua
fronte stretta e opaca: era avara doveva dire le «buscie» a misurelle come i lupini, e certo glie ne avrebbe sonate
assai di «scardoffie». Quando la zietta se n’andò nel pomeriggio essa rimase
impassibile. Se le avesse voluto bene, lei ch’era senza figli e allevava due
maialoni l’anno, non l’avrebbe portata per serva. Tant’è. Questo era il sigillo
imperiale di tutti i discorsi che
rimuginava e faceva questa quattordicenne verdastra e pelosa come una pesca
duraccina acerba. Tant’è.
«Schiatta che
non lo faccio». Ma non lo diceva affatto a donna Lavinia di no «Mo’»
rispondeva, «mò, donna Lavì, mò» e, fisiologicamente, decisa per uno dei suoi
ghiribizzi silenziosi ed ostinati che lei quel giorno quella tale cosa non l’avrebbe
fatta, si faceva buttare gli accidenti a grappoli come le cerase senza muoversi
dal suo fiero proposito. Poi veniva l’intermezzo bellico. Un ciocco del
focolare scagliato da Don Diego finiva sempre di sonare sulle sue spalle magre
e piatte il suo «bemolle» molto duro. Cosicché lei astutamente in legnaia li
sceglieva sempre leggerini e sottili i ciocchi. «Schiattasse donna Lavì, me le
vuò sonà a me… Non è scema Rosanella». E rideva dentro le labbruzze
impenetrabili strette con una piega di motteggio ironico inestinguibile. […]
Rosanella non
è scema. Fatto si è che lo fu, povera Rosanella. Arrivò nel mese di luglio,
reduce dalle glorie della laurea di medicina, dopo una grande solenne
ripulitura di rami che le ruppe le reni per la smania furente dello strofinìo a
ginocchioni, arrivò il giovane padrone, il tanto atteso e sospirato don
Gherardo. La servetta non osò mai guardarlo. Ma lo stava a sentire quando
parlava a tavola come si ascolta la melodia d’uno strumento, arcano,
sconosciuto. Diceva cose magnifiche. Ma lei non capiva niente. E questo più che
mai l’esaltava di mistica ammirazione. Che bel giovane! […]
Don Gherardo trovò come omaggio una fila di scarpe e
stivali da caccia usati e da usare la sera in camera tutti lustrati da lei,
dalla servetta.
Il giorno dopo
le dette cinque lire. Uno stipendio mensile raddoppiato «Quant’è galantuomo
vero. Rosanella a te ti servirà come al cuore di Gesù. Non è scema». Ma il
fatto si è che una brutta o bella sera don Gherardo che non sapeva che il
solaio era diventato un gineceo andò, con grande semplicità, a cercare dei
libri con cui voleva ingannare l’afa della notte estiva e trovò la servetta,
nel suo costume senza costume, che chiacchierava coi topi di lui, con la voce
spezzata, da piccoli singhiozzi ebeti di passione. «Oh don Gherardo! Come al
cuore di Gesù ti voglio servire! Con le mani di cera fina m’hai dato cinque
lire! cinque… cinque…». […]
Egli la prese
così di schianto, selvaggiamente, lei selvaggiamente borbottando delle piccole
cose idiote condite con le invocazioni dei santi del suo paese… […] Tre mesi di
delizia tacita, di senso panico della vita e del piacere dati dalla servetta
quattordicenne che egli sentiva sbocciare sotto le sue mani e bruciare d’amore
così come avesse la febbre vicino a lui. Poiché qualche volta, per non far
scandalizzare i topi della soffitta che
ballavano dei balli da tabarin scapigliatissimi plaudendo intorno a loro, don
Gherardo l’accoglieva nel suo bel letto profumato di lavanda. Oh dolce dormire!
Paradisi di risate pensando allo scontroso e casto sonno legale di don Diego e
donna Lavinia al primo piano che non s’immaginavano mai più come questo
scarabocchio di donna fosse venuta a fare la nuora a casa loro! […]
Credeva
ch’egli, l’avrebbe amata e ancora pensata. Era l’ottobre, il giochetto sdrucciolo
finiva tra giorni.
Rosanella con
tutta probabilità poteva passare a Don
Diego, suo padre. «Amore!» gridava lei con la voce così sottile all’eco che
pareva uscisse da un flauto di vetro. «More! More!» rispondeva l’eco. Per fortuna
era già stanco e poi egli si stava ingolfando in un guaio. Rosanella non aveva
che quattordici anni. Glie lo disse alla sera carezzandola con una certa
tenerezza. «Sai, me ne vado dopo domani». Essa non rispose nulla. «Ti
dispiace?» Nulla. «Don Diego non ti ha mai detto niente, Rosannè?» Sapeva il
padre un vecchio impenitente cacciatore di giovane selvaggina. Lei si voltò con
gli occhi opachi. Molto tranquilla gli s’avventò contro, lo morsicò sulla
faccia, poi lo prese per i capelli […]. «Don Gherà, che puozzi morì
avvelenato!» Se n’era andato con quel saluto di Rosanella negli occhi. Ora lei
guardava alla luce della lucernetta ogni sera le cento lire che gli aveva
lasciato lui, con un’angoscia sorda rievocando l’ultimo bacio negato,
disdegnosa ed aspra, con la faccia irrigidita in un’ostilità taciturna. «Ti
dispiace Rosannè?» «Nun me n’emporta». L’antica fierezza, sannita le
inturgidiva le sue vene di piccola paria abbietta e triste del destino.
Nessuno s’era
accorto di nulla. Poi la servetta cambiò. Soffriva di stomaco, non mangiava, si
trascinava faticando, piagnucolava, aveva perduto la sua scaltrezza petulante,
la sua modestia farisaica. E andò dal medico. Il medico andò da donna Lavinia.
Rosanella non c’era. Si prese il caffè in cucina, sbattè le labbra circospetto.
Le sopracciglia sue tragiche di maschera buffa si erano riunite in un sol ponte
levatoio […] «La ciotola è in cinta, sette mesi, eggià, donna Lavì».
A Donna
Lavinia prese un mezzo svenimento. […] Poi mandò a chiamare Don Diego che era a pontificare sul Municipio e tutte e tre
insieme, scemoniti, sbalorditi e furibondi non combinarono nulla. Senonché
sopraggiunse Rosanella. Ascoltò la notizia come se le avessero detto «Spunta il
sole o piove» senza batter ciglia. La strinsero di contumelie orrende, di
domande feroci, assillanti, la sedussero di promesse, la blandirono. Niente. Il
segreto era impenetrabile.
La servetta
pareva distrutta […] si fece dare da Don Diego strozzato dalla bile, uno schiaffo
che l’abbatté come una canna spezzata dal vento sul tavolo da cucina sempre
senza fiatare, e ricominciò le sue fatiche con una guancia rossa e una verde,
la bocca stretta dall’enigma, gli occhi grandi pieni d’ombra e di noia che
guardavano lontano.
La fecero
parlare col parroco. Nulla, niente. S’infisciò dei santi, come dei demoni.
Certo era stato il pastore Biase. Costui era un ragazzo mezzo idiota, garzone
della famiglia, che spasimava d’amore per lei e la perseguitava ricevendo
insulti e sputi come mazzi di viole da mesi e mesi, senza perdersi d’animo.
Alla masseria
del Pontebasso doveva essere successo il «fatto nero». Con tale colorazione
viva e pittorica di particolare erotici le comari lo raccontavano giurando,
spergiurando che il miracolo della maternità di Rosanella diventò una verità
inesorabile. Biase ci credette pure lui. E borbottava dietro di lei che andava ad abbeverare i porcelli con un’aria
di regina offesa «Ce spusamme Rosannè, n’avé paura». E Rosanella – za ̶ uno
sputo, grande come un doppione, in faccia. S’era perfezionata e le uscivano
belli grossi come medaglie. Finalmente dovette partire. La spedirono alla
maternità a Napoli, come un campione senza valore, accompagnata dal
carrettiere, Mastro Gaetano. […]
All’ospedale
fu buona, placida. Accucciata vicino al suo letto ascoltava i gridi disumani
delle partorienti, i vagiti laceranti dei neonati, vedeva il tramestìo
brutalmente meccanico delle levatrici e dei dottori apatici, incattiviti dal
dolore e dalla miseria immensa che sanguina dal mistero augusto della Maternità
rinnegata.
Tristezze
abbiette e penitenze oscure per un frutto senza nome e senza bene… l’Esposito,
il Proietti… Ma Rosanella non arrivava a tutta questa amara filosofia della
vita. Lo avrebbe mandato alla «ruota» il bamboccio. Poi sarebbe tornata. Tant’.
Don Gherardo tornava a Pasqua. Ardo! Ardo! L’eco della voce bruciata d’amore le
pareva fosse spenta immobile laggiù, nella roccia della montagna spaccata. Don
Gherardo aveva saputo il fattaccio. Meno Male. Rosanella non aveva parlato. Al
suo ritorno le avrebbe dato dei quattrini, era una piccola curiosa amica al
senso di cipolla, non disprezzabile nei lunghi digiuni in quel disperato
Makallè del suo paese.
Una madre così
piccina interessava. La levatrice-capo, l’ostetrico direttore di sala vedendola
così sperduta, grave e intontita attendere senza paura l’evento che poteva
esser fatale alla sua matrice bambina la guardavano con un senso di pietà.
L’interrogarono
con trabocchetti di malizia nuova, ci ridevano su saporosamente. «E’ stato
forse il padroncino?» La servetta si accigliò, poi rise anch’essa con un
risolino stupido. «E’ stato Biase» disse «gnora levatrice, un garzone di Don
Diego, ca me sposa». […]
Lyna Pietrvalle, I
racconti della terra, nuova edizione a cura di Gian Mario Fazzini,
Libreria Editrice Filopoli, ISBN 88-902369-9-X, 2006
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