lunedì 26 ottobre 2009

21. Come stiravano le nostre nonne


La signora Armentina, piena di ricordi, ci racconta come si stirava una volta, quando l’elettricità non c’era ancora, dandomi così l’opportunità di mettere questa bella foto, presa dalla raccolta di ferri da stiro antichi di Pasquale Veleno.


Il primo ferro da stiro che ho avuto (anni ’40) era quello pesante che si metteva direttamente sulla stufa. La piastra si riscaldava e io potevo stirare il tempo che durava questo calore, ovvero pochissimo. Insomma per dare una piega ai capi ci voleva davvero tanto tempo. Ve le ricordate le stufe di una volta fatte a cerchioni concentrici i quali si toglievano uno ad uno, a seconda della grandezza della pentola da mettere? Ebbene, quella era la stufa su cui io poggiavo il ferro da stiro. Nelle sartorie, dove il ferro era attaccato tutta la giornata si è sempre preferito impiegare questo tipo fino all’avvento dell’elettricità, infatti, si rischiavano meno bruciature ed era più pulito.
Successivamente ho utilizzato quello dove si mettevano le braci direttamene dentro al ferro. Quello per intenderci che, come cimelio, si trova ancora in tante case. Era tutto nero e aveva l’apertura in alto che permetteva di riempirlo di braci ardenti. Questo ferro aveva un’autonomia più grande rispetto a quello di prima. Nelle famiglie ricche la brace veniva sostituita dal carbone.
Per poter stirare agevolmente dovevo spruzzare la stoffa con dell’acqua. La bruciatura era assicurata se non si aveva l’accortezza di mettere uno straccio tra la stoffa e il ferro. Le stoffe sintetiche fino agli anni ’50 non erano ancora arrivate nelle nostre case per cui i capi da stirare erano prevalentemente in canapa, lino o lana. Mentre i soliti ricchi possedevano nel loro guardaroba anche indumenti in cotone e seta. Per inamidare i colli delle camicie, facevo bollire le bucce di patate in una pentola e, dopo, ve li immergevo.
Nelle famiglie dove non c’era servitù, lenzuola, asciugamani e vestiario intimo non venivano mai stirati, avevamo altro da fare!
Per cui, quando alla fine degli anni ’50 mi sono trovata fra le mani il primo ferro da stiro elettrico è stata una vera liberazione. Sono stata una delle prime a comperare quello a vapore che avevo adoperato nella sartoria dove lavoravo!
Non c’è dubbio che l’emancipazione della donna è passata anche attraverso la liberazione delle corvée domestiche.
Armentina Bonini, tutti i diritti riservati

lunedì 12 ottobre 2009

20. Quando da Genova, Napoli e Messina imbarcavamo le "spose per procura" fino in Australia


(foto anni '50, il giovane ufficiale di marina Pietro Ciufici in divisa invernale)
di Pietro CiuficiNato a Ortona, porto abruzzese che si affaccia sull’Adriatico, il mare è sempre stato il mio universo, la mia meta, il mio approdo.
Sapevo fin dalla più tenera età che da grande avrei fatto il marinaio. Dopo le medie, infatti, mi sono iscritto all’Istituto nautico e, successivamente, con il mio bel diploma in tasca mi sono imbarcato come giovane ufficiale di marina.

Era l’anno 1954 e, da allora, e per tredici anni ho circumnavigato il mondo approdando con le navi nei porti più importanti del globo terrestre: dall’Alaska all’America del Sud, dalla Cina all’Australia; dove ci portava il vento del commercio.
I ricordi di quegli anni gloriosi sono tanti. Tra i primi a venirmi in mente ci sono i viaggi con navi passeggeri verso l’Australia, dove portavamo anche le numerose “spose per procura”.
L’Italia di allora era poverissima, non erano ancora state cancellate tutte le tracce lasciate dalla guerra e spesso mancava perfino il minimo per campare. Ecco perché molti italiani partirono per l’Australia dove il lavoro abbondava e dove solo lo zappatore della terra era capace di adattarsi ad un clima terribile in luoghi isolati, abitati da piccolissimi nuclei di famiglie. Gli emigrati erano stati chiamati per lavorare soprattutto la canna da zucchero nel Nuovo Galles. Le destinazioni principali erano Freemantle, Adelaide, Melbourne, Sydney o Brisbane.
Questi uomini si trovarono di fronte ad un serio handicap; sul posto trovarono pochissime donne per cui, realizzata una discreta sicurezza economica, si affidarono ad agenzie matrimoniali o a parenti per far giungere in Australia delle giovani povere disposte a sposarli per procura.

Un anno, sulla turbonave della flotta Lauro, imbarcammo più di trecento di queste giovani raccolte nei porti di Genova, Napoli, Messina e Malta. Donne che avevano in tasca pure un biglietto di ritorno nel caso la persona sposata non fosse all’altezza delle loro aspettative. Ma anche se talvolta trovarono al loro arrivo degli uomini rozzi, vere facce da galera, e non così ricchi come immaginavano, molte accettarono comunque questo matrimonio per non deludere la propria famiglia e creare problemi al paese. Altre, più coraggiose, tornarono invece in dietro. Ma anche tanti di questi matrimoni combinati, bisogna dirlo, andarono a lieto fino.

Il personale della nave era in maggioranza maschile e appena arrivavamo nei porti di imbarco, dopo aver fatto tutte le manovre, ci mettevamo sul ponte ad osservare l’arrivo delle ragazze.
Nicola l’ufficiale in seconda mi dava gomitate «Oh Gesù, guarda quella biondona, ma come s’è conciata? dove va? si vede a tre chilometri il mestiere che fa, le manca solo la borsetta da far girare, che dici, lo sposo sarà contento?». E giù risate… «Hei, la moretta dietro, niente male, che gambe!». «Ma tu guarda la miseria che ti fa fare!» . Insomma l’arrivo sulla nave di questa umanità era il momento più spassoso di tutta la traversata perché cercavamo di capire i sentimenti e gli intenti di queste “signorine” diventate signore all’improvviso, che salivano sulla nave con indecisione, titubanza, gli occhi pieni di lacrime, sapendo di partire davvero per l’ignoto. C’erano ragazze sprovvedute, ma anche donne navigate che avevano fatto il marciapiede fino ad allora e l’Australia era la loro unica possibilità di rifarsi una vita dignitosa.
Noi prendevamo il meglio che ci veniva offerto. Ognuno aveva una tecnica collaudata per attirare l’attenzione e venire in contatto con le ragazze adocchiate.

Infatti, per far passare il tempo a bordo, durante questa traversata che durava ben 31 giorni, si organizzavano feste: il capitano, napoletano verace, per prenderci in giro ci diceva: «Guagliù facite è bbrava che appriesso a l’Equatore v’a prometto a festa ‘re banane!»
Avevo 24 anni, ero bello, simpatico, e con la mia bianca divisa da ufficiale facevo girar la testa a più d’una. Insomma uno sciupafemmine e, quella volta lì, ero talmente indaffarato con il gentil sesso che alla fine mi venne l’esaurimento nervoso poiché non dormii per alcuni mesi! Perfino il turno di guardia la ragazza conquistata lo faceva con me. Non avevo tregua. Che tempi!
Infatti, inizialmente timide, queste donne, dopo pochi giorni, sentendosi infine libere dalla tutela dei loro parenti, non più giudicate dai paesani, esplodevano e non avevano più remore a lasciarsi andare con il personale di bordo.

Il problema per tutti noi arrivava quando giungevamo in Australia. Molte si erano innamorate e non volevano distaccarsi dai loro marinai. Ma la legge a bordo era inflessibile, SCENDERE, e come si dice a Napoli, “chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato”. A queste donne non restava che sperare di aver trovato, in terra d’Australia, un marito all’altezza delle loro aspettative.


Testimonianza raccolta da Barara Bertolini - ©2014 Tutti i diritti riservati

domenica 4 ottobre 2009

19. LA NAVE DELL’EMIGRAZIONE…. TRA ITALIA E CANADA, che accoglienza!


di Josée Di Tomaso, Montréal

I milioni di emigrati che hanno attraversato l’oceano per approdare nel Nuovo mondo l’hanno sempre fatto in nave fino all’avvento del trasporto aereo di massa, ovvero la fine degli anni 1960. Quindi, sulla rotta Europa-America non si può parlare di navi senza parlare di emigrazione (o viceversa).

In quegli anni gli emigranti italiani che volevano venire in Canada, arrivarono in America via nave approdando prima al porto di Ellis Island (Nova York- USA), proseguendo poi per il porto canadese di Halifax (nella provincia nominata Nouvelle Écosse in francese e Nova Scotia in inglese), attraccando la nave al mitico molo Pier 21. Ma per arrivare a destinazione, che per molti italiani era quasi sempre Montreal, nella provincia di Québec, si doveva prendere il treno e viaggiare ancora per circa 1000 km. Il percorso era lungo e faticoso avendo numerosi bagagli da trasportare ma, soprattutto, era difficile capire, in una lingua nuova, le indicazioni per raggiungere la meta.

Già dall’inizio del Novecento i miei bisnonni, i miei nonni e infine mio padre sono arrivati in Canada con la nave. Ci si metteva allora alcune settimane per raggiungere la costa del continente americano. Era un viaggio lunghissimo e noioso. Una delle poche attività che si poteva fare sulla nave era salire sul ponte ed ammirare il cielo – il cielo e il mare era tutto ciò che si vedeva all’infinito. I giorni erano tutti simili e interminabili. E quando il mare si scatenava alcuni passeggeri erano malati e a volte non erano nemmeno in grado di alzarsi dal letto per tutto il periodo del viaggio, e era così fino all’accostamento.

Negli anni 1940 e ‘50, in Canada arrivarono moltissimi emigrati, talvolta anche in gruppi. Nella mia memoria c’è l’arrivo con la nave di vari cugini e zii partiti da Casacalenda (Molise), in particolare quello dello zio di mio padre, una domenica d’estate. Questo zio fece un’eccezione alla regola poiché, mentre tutti ci preparavamo per andarlo ad accogliere al porto di Montreal, lui arrivò sotto casa in taxi. Cosa era successo? Semplicemente la nave aveva messo meno tempo di quello previsto. Infatti, durante la bella stagione, le navi possono arrivare fino a Montreal perché il ghiaccio che avvolge tutta la costa e l’entroterra canadesi, si scioglie e il fiume San Lorenzo, grande come un mare, diventa navigabile.
Tre anni dopo, anche la famiglia di mio zio venne direttamente a Montreal con la nave chiamata Camberra.

Rivedo ancora nella memoria l’accoglienza di questo zio: c’era mia nonna, i miei zii, le mie zie che lo aspettavano. Lo rivedo scendere dal taxi perché eravamo tutti sul balcone di casa, in attesa di partire per il porto.
I miei genitori l’hanno accolto con rispetto. Mia madre aveva preparato dei dolci e tutti insiemi abbiamo fatto la conoscenza di questo Zio Padre. Lui ha raccontato del suo viaggio, che era andato abbastanza bene.
L’indomani con i miei genitori siamo andati al porto per vedere il “bastimento” come lo chiamava mia madre. Perché spesso queste navi portavano anche della merce dall’Italia insieme ai passeggeri ed era possibile visitarla. Questo mastodonte gigante che galleggiava nell’acqua mi ha fatto un’impressione prodigiosa.

Il sabato seguente, mia madre aveva organizzato une festa. Aveva cucinato e preparato dolci e aveva invitato tutti a casa. La nonna, le zie, i zii, i cugini, le cugine, i loro figli ma anche alcuni amici che sono arrivati per venire a salutare Zio Padre.

Così, egli ha abitato con noi per un certo periodo e spesso aveva visite. Poi ha trovato un lavoro, e, dopo aver affittato una casa, ha infine potuto far venire la moglie e i figli dall’Italia.

Ci sono stati anche molti cugini arrivati con la nave e tutti accolti ed ospitati a casa mia in attesa di una sistemazione.

Erano tempi di grande disponibilità ed affabilità. I miei genitori hanno dimostrato molto altruismo. Era un periodo di gioia, di riunioni familiari allegri, di calore umano, erano dei momenti indelebili che non si possono cancellare dalla nostra memoria – una bella storia d’amore tra l’Italia e il Canada, un periodo storico che non tornerà mai più – che resterà per sempre...